ALARICO I (Alarich)
Nacque nel 370, morì nel 410. Lo stesso anno in cui morì l'imperatore Teodosio, 395, i Visigoti, che dalla pace del 382 erano stanziati su territorio romano come foederati nella Pannonia e nella Mesia, ma che avevano trascorsi tredici anni di vita irrequieta, aspirando ad avere una propria patria, acclamarono duce A., della stirpe dei Balti. l'uomo che doveva legare indelebilmente il suo nome all'ultimo periodo della decadenza di Roma. Con lui infatti l'Italia fu per la prima volta percorsa e saccheggiata da un capo all'altro della penisola, negli stessi anni in cui la linea di difesa della Gallia veniva definitivamente infranta e incominciavano gli stanziamenti barbarici in Occidente: per lui Roma stessa, per la prima volta essa pure (410), fu presa e saccheggiata da orde barbariche. La caduta dell'Urbe fece sui contemporanei un'impressione profonda; e dura ancora oggi, dopo tanti secoli, l'eco delle parole con cui S. Girolamo, all'annunzio della catastrofe, presagiva nella rovina dell'Urbe, la vicina fine del mondo.
Il nome di A. comincia ad apparire alla fine del regno di Teodosio. Allora egli comandava un corpo ausiliario goto al servizio romano. Benché ancora giovanissimo, aveva già avuto campo di notare la debolezza dell'Impero, nonostante le recenti vittorie riportate dalle armi romane: e con intuito politico non comune, appena l'occasione si presentò, egli approfittò del dualismo militare esistente allora tra le due parti dell'impero, Occidente e Oriente, a proposito del possesso delle provincie orientali dell'Illirico (Epiro, Mesia Superiore, Macedonia, Dacia, Acaia), attribuite da Graziano all'Oriente e rivendicate invece da Stilicone per l'Occidente; e nel 395 iniziò i suoi attacchi contro Costantinopoli. Questi attacchi furono insieme l'inizio del movimento definitivo, per cui il popolo dei Visigoti si spostò dalle sue sedi sul Danubio e si avviò attraverso i Balcani, l'Italia, la Gallia e la Spagna alle sue sedi definitive. Come Clodoveo, come Teodorico o come Alboino, A. può essere considerato il capo o l'uomo di genio che, sia pure senza riuscire personalmente nell'intento, ha tuttavia dato al suo popolo l'impulso atto a farlo uscire dallo stato fluttuante del nomadismo e ad assiderlo su territorî stabili e su basi acconce al suo incivilimento. E questo è, senza dubbio, il merito essenziale di lui.
L'azione militare di A. contro l'Impero romano, sia d'Oriente sia d'Occidente, incomincia nel 395 con una prima invasione della Macedonia e della Grecia, e si protrae, salvo brevi intervalli di quiete, per tutta la sua vita. Sono pochi anni, ma l'attività del barbaro fu untensa, e tanto più notevole se consideriamo che anche se non collegata intenzionalmente coi movimenti degli altri popoli, essa tuttavia si affiancò a quella pressione formidabile che, dopo varî assaggi, finì col rompere con una grande ondata, per così dire, il fronte romano in Occidente negli anni 406 e seguenti. Contro di A., più che in Oriente, sorge in Occidente un uomo, generale e politico, che gli stette degnamente a fronte, e che, sino alla sua morte avvenuta nel 408 violentemente, oppose una valida resistenza e rappresentò in sostanza la reazione tutt'altro che trascurabile dell'Impero d'Occidente. Stilicone, accorso una prima volta nel 395 nel Peloponneso a fronteggiare il barbaro, aveva dovuto ritirarsi in principio di fronte agl'intrighi di Costantinopoli e specialmente del suo collega e rivale Rufino, rinviando un corpo ausiliario sotto il comando del goto Gaina (che, giunto a Bisanzio, costui invase nuovamente la Grecia nel 396. Come tra le angustie montuose dell'Elide e dell'Epiro A. riuscisse a mettersi in salvo, non è ben chiaro. È probabile che all'ultimo intervenisse anche un accordo tra i due capitani. Il fatto è ad ogni modo che, dopo questa data, Arcadio, l'imperatore d'Oriente. riconosce A. come magister militum o dux (così lo chiama Claudiano) nell'Illirico. Vale a dire che, mentre nella Mesia egli era semplicemente un foederatus, qui diventava ad un tempo foederatus e governatore romano.
Tale è la prima fase dell'attività di A. e dei Visigoti. Come tutti, in genere, i capi e i popoli barbari, egli passa dalla semplice qualità di foederatus - che è in fondo il vecchio rapporto dei Germani stanziati sul territorio romano - a quella cui solo pervengono i capi più eminenti e i popoli più minacciosi. È un trapasso che segna una notevole spinta in avanti, e che significa una grande trasformazione: perocché da milizie stipendiate i popoli barbarici si trasformano in elementi autonomi affiancati alle popolazioni romane, sulle quali essi, attraverso i loro capi, esercitano o una protezione o una pressione, in quanto i loro capi sono i rappresentanti legali del potere imperiale. In questo senso A. è uno dei primi esempî del genere. Senonché l'essere ariani, egli e i suoi, impedirà, come è avvenuto in tutti i casi analoghi, qualunque avvicinamento reale ed efficace con le popolazioni romane, cattoliche.
Quattro anni dopo, per cause ignote, ma che evidentemente vanno ricercate nel movimento generale di pressione delle popolazioni barbariche e, secondo molti, nell'aggressione che Radagaiso si apprestava a fare dalla Rezia su l'Italia, A., acclamato nel frattempo re dai suoi Visigoti, abbandona l'Illirico e punta risolutamente sulla penisola. Comincia così il secondo e più importante periodo della sua attività, e il più drammatico e sanguinoso. Aquileia, che egli trovò sul suo cammino, fu assediata; l'alta Italia devastata sino alla Liguria: e, mentre l'imperatore Onorio era costretto a rinchiudersi non si sa bene se in Milano o in Asti, anche Ravenna, benché inutilmente, veniva assalita. Finalmente, apparso Stilicone, che nel frattempo era riuscito a ricacciare Radagaiso, ma con l'aiuto di legioni fatte venire dalla Britannia e dal Reno (e di qui l'indebolimento fatale di quelle linee, sì che non ne fu potuta mai più ricostituire l'efficienza), A. fu sorpreso in battaglia campale a Pollenza, il giorno di Pasqua, ossia il 6 aprile, del 402; e, sanguinosamente sconfitto, obbligato a ritirarsi dall'Italia. La battaglia fu molto aspra, e costò infinite perdite alle due parti: ma, se il barbaro dovette abbandonare la penisola, non fu però tanto battuto da non poter conservare, mediante un accordo, il governo dell'Illirico.
Stilicone aveva salvato l'Italia, che, con Roma alla testa, celebrò con grandi feste la liberazione, e poté esser salvata ancora, dallo stesso Stilicone, nel 405, contro nuove orde condotte dal già vinto Radagaiso, che si poté spingere sin nei pressi di Fiesole: dove tutti quei barbari, insieme con lo stesso condottiero, caddero o furono presi prigioni. Ma l'Impero era così debole che i barbari, respinti da una parte, ricomparivano dall'altra. Per sfortuna di Onorio, Stilicone, che, nonostante i suoi meriti innegabili, aveva commesso l'errore di sguarnire il fronte occidentale, dando così modo, nel 406 e nel 407, al forzamento fatale della linea del Reno; Stilicone, che avrebbe, ciò non ostante, potuto ancora essere la salvezza dell'Impero, lasciatosi invece attirare dal desiderio di assicurarne la successione al figlio Eucherio, finiva con l'essere vittima degl'intrighi di corte e perire, in Ravenna, nel 408. Alarico, del quale si ha qualche notizia che in quegli anni avesse tentato d'accordarsi con Stilicone stesso, ripresa la libertà dei suoi movimenti, per la terza volta afferrò le armi e mosse, nell'autunno del 408, verso l'Italia, sollecitato anche da tutti quei barbari i quali nella reazione seguita alla morte di Stilicone avevano perduto onori, cariche, beni e famiglie. Dopo alcune pratiche preliminari con Onorio, avviate con lo scopo di ottenere denari, e, ad un tempo, la cessione della Pannonia e il riconoscimento della sua vecchia dignità di magister militum, che gli era in fondo molto fruttuosa, avutone un completo rifiuto, A. si mosse risolutamente puntando su Roma. Non lo spaventarono né la maestà e il prestigio dell'Urbe, né gli ammonimenti di molti che gli rammentavano la passata potenza romana. Dicesi, anzi, che rispondesse: "Contro la mia volontà sono spinto a questa impresa: una forza irresistibile mi trascina e mi grida: muovi contro Roma e distruggila!". Il vero è che egli non voleva distruggere, ma solo imporre la sua volontà e far bottino. In fondo a tutte le sue pretese rimaneva pur sempre l'esigenza fondamentale di avere terre stabili per il suo popolo e dignità di governo per sé stesso.
Sembra strano che l'imperatore Onorio non accudisse ad alcun preparativo serio di difesa. Certamente nessuno osava nemmeno pensare che dei barbari potessero violare il sacro suolo di Roma, e ognuno riteneva che, in fondo, si trattasse di bande di predoni che, passato il primo impeto, il tempo stesso avrebbe stremati. Ma in realtà A. era tempra diversa, e solo uno Stilicone l'aveva compreso e aveva saputo fronteggiarlo, o con le armi o con gli accordi. Fatto sta che, giunti i Visigoti sotto le mura di Roma, questa poté solo salvarsi a prezzo d'oro, e lasciando che 40.000 schiavi d'origine barbarica, reclamati da A., se ne allontanassero. Una seconda e una terza volta mosse poi tra il 409 e il 410 il re visigoto contro l'Urbe, mentre si allacciavano tra lui e Onorio trattative che svelano nella realtà la volontà vera del barbaro. Le sue pretese, eccessive in origine, si restrinsero ad un dato momento alla domanda che gli fosse ceduto il Norico. Evidentemente il Visigoto voleva stabilirsi ai margini dell'Italia, almeno per allora, per poi insediare definitivamente il suo popolo nella penisola. Durante queste trattative, A. fece nominare dai Romani un nuovo imperatore, Attalo, che poi egli depose due volte, e di cui si servì come arma e fantoccio nelle sue lotte contro Onorio. Effetto di tutto questo fu che, finalmente, la notte del 24 agosto 410, i Visigoti entrarono in Roma per la Porta Salaria, e per tre giorni la città rimase preda alla ferocia e all'avidità. Grande fu la strage, maggiore la preda. Ma non tutta la città fu devastata: la religione o la superstizione trattenne i barbari dal profanare e dal derubare le chiese, e molti inermi o indifesi trovarono protezione all'ombra de' santuarî, e specialmente nelle basiliche di S. Pietro e S. Paolo. Dopo tre giorni di saccheggio, i barbari, carichi di bottino e di prigioni, abbandonarono Roma. Era con loro la bella Galla Placidia, sorella di Onorio, che poi andò sposa ad Ataulfo, il successore di Alarico. Costui mosse poi verso il sud, saccheggiando ovunque, ma non fermandosi. Sembra che il suo scopo fosse di passare in Sicilia e in Africa, ch'egli credeva necessario occupare per essere poi padrone in Italia. Ma, giunto nei pressi di Cosenza la morte lo colse, forse per influsso del clima. Giordane, tra altri (De origine actibusque Getarum) ci ha tramandato il racconto, ben noto per il rivestimento poetico e romantico che ne ha fatto modernamente il poeta tedesco Platen, secondo il quale il corpo del re fu sepolto nell'alveo del fiume Busento, il cui corso fu deviato per alcune ore e poi nuovamente incanalato nel letto di prima. Però gli schiavi che eseguirono tale lavoro furono immediatamente sacrificati, perché non potessero mai rivelare il segreto.
Così finiva A., senza in realtà aver conseguito nulla di definitivo. A giudicarlo così a prima vista, altro non appare di tutta la sua opera se non una serie di razzie, di assedî, di ruberie, per le quali egli spostò ripetutamente il suo popolo dall'uno all'altro capo della penisola balcanica e dell'italica. La stessa presa di Roma e il relativo saccheggio. lasciando da parte l'impressione derivante dal fatto inaudito, dopo otto secoli, che un esercito nemico avesse potuto violarne le mura, non avrebbero in sostanza un valore maggiore di tanti altri assedî di città, anche importanti, come Aquileia e Ravenna. Ma se bene si giudica e si riassume in uno sguardo sintetico la breve ma fervida attività di questo barbaro, che fu indubbiamente uomo di talento, si deve riconoscere che egli obbedì a un profondo bisogno della sua razza e indicò ad essa il modo di soddisfarlo. Se anche il suo successore Ataulfo non riuscì nell'intento, così non fu degli altri che vennero dopo di lui, ai quali arrise la fortuna di stabilirsi definitivamente nella Spagna. Ciò facendo, essi seguirono non solo l'impulso, ma l'esempio dato da Alarico. Ché, se si astrae dai saccheggi e dalle miserie che accompagnarono i movimenti di A. e quelli dei suoi successori, cose contingenti che difficilmente potevano essere evitate o limitate, sta il fatto che tutti o quasi tennero fermo il principio stabilito da A.: e cioè di procedere non tanto alla distruzione dell'impero e dei suoi elementi, quanto d'inserirsi in esso, vale a dire in una sua parte, e ottenere di questo il riconoscimento giuridico.
Bibl.: Köpke, Die Anfänge der Königstums bei den Gothen, Berlino 1859; N. Riegel, Alarich der Balte, Offenburg 1871; H. v. Eicken, Der Kampf der Westgothen und Römer unter Alarich, Lipsia 1876; R. Keller, Stilicho, Berlino 1884; Th. Mommsen, Stilicho und Alarich, in Hermes, 1903; L. Schmidt, Geschichte der deutschen Stämme bis zum Ausgange der Völkerwanderung, I, Berlino 1910; F. Gabotto, Storia dell'Italia occidentale nel M. E., I, Pinerolo 1911; D. Seeck, Geschichte des Untergangs der antiken Welt, V, Berlino 1913; J. B. Bury, History of the later Roman Empire, Londra 1923, I. Tra i contemporanei specialmente Orosio, Historiarum adversus Paganos libri VII, Lipsia 1889; Claudiano e Prospero d'Aquitania, Epitome Chronicon, ed. Mommsen, in Monum. Germ. historica, Auct. antiq., IX.