DEL CORNO, Alberico
Apparteneva a una famiglia della nobiltà feudale lodigiana, originaria della località omonima alla confluenza del Po e dell'Adda, che tuttavia prima dell'elezione del D. a vescovo di Lodi non era stata mai ricordata nelle fonti. I Del Como avevano il titolo di conti (per la verità assai svalutato nella Lombardia del tempo), ma non dovevano contare tra le famiglie più importanti dell'aristocrazia locale.
Il D. fece tutta la sua carriera all'intemo del capitolo della cattedrale di Lodi. Ricordato per la prima volta nel 1147 come suddiacono, era prete nel 1153 e nel 1156 canonico del duomo. Studi universitari, compiuti non sappiamo dove, gli valsero il titolo di magister. Tra il luglio 1173 e il marzo del 1174 fu eletto vescovo di Lodi come successore di s. Alberto.
Del suo vescovato si conservano circa sessanta documenti riguardanti soprattutto la sua gestione temporale, che sembra del resto essere stata al centro del suo interesse. In questo senso continuò più l'opera dei vescovi Lanfranco (1143-1158) e Alberico (1158-1168), attenti alla conservazione del patrimonio vescovile in tempi difficili, che quella del suo immediato predecessore, dedito con sacro zelo all'organizzazione religiosa della sua diocesi. Diversamente dai suoi predecessori, il D. sembra invece aver nutrito poco interesse per gli affari pubblici e politici. Lasciò la diocesi tre volte soltanto: nel 1174, subito dopo la sua elezione, per recarsi alla corte imperiale in Germania, anche se tale dimostrazione di fedeltà, in un momento in cui Federico I aveva riaperto le ostilità contro i Lombardi, può sembrare curiosa; nel 1177 pare abbia accompagnato a Venezia i consoli di Lodi, in occasione della conclusione della tregua fra la lega lombarda e l'imperatore. Nel 1179, infine, si recò a Roma per partecipare al terzo concilio lateranense convocato da Alessandro III.
I documenti conservati, relativi al suo vescovato, gettano luce, soprattutto, sui rapporti del D. con i monasteri. Il suo atteggiamento in questo campo non lascia dubbi: pur preoccupandosi dello stato materiale dei religiosi della sua diocesi, egli difendeva tuttavia gelosamente le prerogative episcopali contro ogni tentativo di autonomia. Tale atteggiamento lo portò nel 1180 a contestare - invano - ai cistercensi di Cerreto la loro esenzione dalle decime, dopo che egli aveva perso già nel 1179 una causa promossa contro il monastero di Acquafredda, al quale aveva contestato il possesso di alcune proprietà in Valtellina. Ottenne, invece, qualche soddisfazione in un processo contro la chiesa milanese di S. Nazaro in Brolo e riuscì a farsi riconoscere diritti sul monastero di S. Agata di Lomello e sul priorato di Paullo della congregazione di Fruttuaria (1174-77). Si dimostrò ancora una volta un deciso avversario dell'esenzione dei monasteri, quando nel 1181 esercitò le funzioni di giudice delegato del papa nella contfoversia fra il vescovo di Cremona e il priore cassinese di S. Benedetto di Crema, a proposito della chiesa di Vailate. Quando, invece, non erano in causa interessi di questo tipo, il D. poté mostrarsi anche generoso nei confronti dei monaci. Così assegnò ai monasteri di S. Stefano al Corno, di S. Maria d'Incino a Monza e di S. Sigismondo a Cremona alcune chiese per il servizio divino e concesse loro esenzioni da tasse e decime. Per quel che riguarda queste ultime, il D., come del resto la maggior parte del clero del suo tempo, non esitò a darle in appalto a laici, per un periodo determinato o anche in perpetuo, conservando però al vescovato una rendita reale e alla chiesa del luogo la quarta parte a cui aveva diritto in base alla legge canonica.
Anche nei confronti dei laici il D. adottò una condotta analoga, difendendo, cioè, tenacemente i diritti vescovili contro ogni tentativo di alienazione. Riflettono questa sua preoccupazione le continue azioni giudiziarie promosse contro vassalli e coloni restii a compiere il loro dovere, come anche gli inventari delle terre e dei diritti del vescovato. Due questioni sono in questo senso particolarmente indicative. La prima riguarda il suo conflitto con la nobile famiglia dei Tresseni, che rivendicava l'ufficio di visdomino; il D. negò la competenza dei consoli nella vertenza, accettando invece la giurisdizione feudale della corte dei pari che respinse le rivendicazioni dei Tresseni (1178).
L'episodio, come anche le dichiarazioni del D. nel corso di questo conflitto, illuminano bene la volontà, riscontrabile anche negli altri vescovi del tempo, di disfarsi dei vassalli più ingombranti, soprattutto degli ufficiali, senza però mettere in discussione il sistema feudale, allora già in netto declino. La seconda questione riguarda invece non i potenti di ieri, i feudatari, ma quelli del futuro, cioè le autorità comunali. Queste avevano imposto al clero il pagamento di un tributo, che il D. vietò di versare, causando in tal modo atti di violenza (1181). Sostenuto dal suo arcivescovo e dal papa e facendo leva sulla scomunica, il D. riuscì a far desistere il Comune. L'episodio precorre gli innumerevoli scontri che in un prossimo futuro nasceranno dalla volontà dei Comuni di sottomettere la Chiesa all'imposta. L'atteggiamento del D. in questo campo, come anche di fronte ai feudatari e ai monaci, non si scosta da quello degli altri vescovi del tempo, ma l'energia e la fermezza dimostrate dal D. nel perseguimento degli obiettivi rendono il suo vescovato particolarmente rimarchevole.
Il D. morì tra il 15 febbraio e il 4 ott. 1189.
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