Gentili, Alberico
Nacque a San Ginesio (Macerata) il 14 gennaio 1552, da una nobile famiglia. Suo padre Matteo, noto medico, professò idee religiose eterodosse. Alberico frequentò l’Università di Perugia e si addottorò in diritto civile il 23 settembre 1572. Nel 1575 fu eletto avvocato del comune di San Ginesio. Tra il 1576 e il settembre 1577 portò a termine la riforma degli statuti cittadini. Nel 1579, insieme al padre e al fratello Scipione, prese la via dell’esilio per il timore di essere colpito dall’inquisizione. Matteo, infatti, fu in seguito condannato, in contumacia, alla prigione a vita come eretico, in un processo che sancì anche la confisca dei suoi beni. Nell’agosto 1580, dopo esser transitato per la Germania e i Paesi Bassi, G. giunse a Londra, dove decise di stabilirsi. Entrò presto in contatto con la Chiesa italiana che raccoglieva molti esuli di fede riformata. In questo ambiente scrisse un trattato De papatu romano Antichristo, rimasto manoscritto, nel quale mediante l’ausilio di fonti teologiche, storiche e giuridiche, espone idee religiose, prossime, nella semplificazione dei dogmi e nella dura critica verso la gerarchia ecclesiastica, a quelle di molti altri esuli italiani che gravitavano nell’Inghilterra di fine Cinquecento. Il rifiorire dell’interesse per il diritto romano nell’Inghilterra elisabettiana permise a G. di ritrovarsi, ben presto, al centro di una rete di corrispondenti che richiedevano il suo aiuto su questioni di carattere giuridico. Si legò in particolar modo con il teologo Toby Matthew, allora vicecancelliere dell’Università di Oxford, grazie al quale entrò a far parte dell’ordine dei dottori di diritto civile, ottenendo l’abilitazione all’insegnamento, che praticò presso il St. John’s College. Tra il 1582 e il 1584 pubblicò i De iuris interpretibus dialogi sex e i quattro libri Lectionum et epistolarum quae ad ius civile pertinent, dove assumeva una posizione critica verso il cosiddetto umanesimo giuridico. Negli stessi anni incontrò Giordano Bruno, che allora soggiornava a Londra presso l’ambasciatore francese. Nella particolare situazione politica del regno, fu anche impiegato per risolvere importanti questioni diplomatiche. Collaborò con Jean Hotman nel caso che vide coinvolto l’ambasciatore spagnolo Bernardino Mendoza, accusato di aver cospirato contro la vita della regina. Il tema dell’ambasciatore fu scelto da G. come oggetto di un’orazione pronunciata in occasione della visita di Robert Dudley, conte di Leicester, e di Philip Sidney all’Università di Oxford. Proprio a Sidney G. dedicò, nel 1585, i De legationibus libri tres. Nonostante l’opposizione degli ambienti puritani, G. fu nominato regius professor of civil law a Oxford nel giugno 1587. Nel 1589 abbandonò la Chiesa italiana di Londra per quella Londino-gallica. Sempre più a suo agio nella patria che lo aveva accolto, fu impiegato nelle controversie internazionali che coinvolgevano l’Inghilterra e la Spagna. E tra il 1588, anno della vittoria inglese sull’Invencible Armada, e il 1589 pubblicò le Commentationes de iure belli, nelle quali condannava l’uso della forza per motivi religiosi e giustificava il sostegno dell’Inghilterra alle Provincie Unite contro la Spagna. Questo nucleo di idee fu in seguito rielaborato nel trattato destinato a garantire una notevole fama a G., De iure belli libri tres, stampato nel 1598, cui seguirono, un anno dopo, De armis romanis libri duo. Alle controversie religiose nelle quali si trovò coinvolto con i puritani risale invece il De abusu mendacii, stampato anch’esso nel 1599. Nell’ultima fase della sua vita abbracciò la fede anglicana e scrisse le Regales disputationes (1605), a sostegno dell’assolutismo di Giacomo I Stuart. Ritiratosi dall’insegnamento si dedicò all’attività forense per l’ambasciata di Spagna, suscitando non poche critiche da parte dei suoi detrattori. Morì a Londra il 19 giugno 1608. I suoi ultimi pareri legali furono raccolti e pubblicati postumi dal fratello Scipione con il titolo di Hispanicae advocationes libri duo nel 1613.
Il pensiero e il ‘metodo’ di M. sono di fondamentale importanza per l’opera di G., come emerge chiaramente nei suoi primi scritti. E il giudizio che G. esprime su M. ha inciso profondamente sulla fortuna di quest’ultimo, ponendosi in netta contrapposizione con il dilagante antimachiavellismo di fine Cinquecento. Del resto, grazie all’apparizione a stampa di nuove testimonianze storiche, G. e gli altri italiani in esilio, per motivi politici o religiosi, iniziavano a conoscere proprio in quegli anni aspetti della biografia di M. che meglio chiarivano le sue posizioni teoriche.
Il nome di G. è innanzitutto legato alle stampe delle opere machiavelliane apparse a Londra, ma con falsa indicazione del luogo di stampa, tra il 1584 e il 1588. Quel progetto fu avviato e portato a compimento da John Wolfe (→ Inghilterra), il tipografo che aveva fatto pratica presso i Giunti di Firenze, e che fu anche editore di Gentili. Vicino ai circoli degli esuli italiani a Londra, Wolfe nell’introduzione all’edizione dei Discorsi di M. dichiarò di aver incontrato un «uomo negli affari politici molto profondo» che gli aveva suggerito di leggere le opere machiavelliane, per giudicare personalmente del loro contenuto e non solo per sentito dire. Imparò in tal modo a distinguere tra un principe giusto e un tiranno, e tra il governo di «molti buoni» e quello «di pochi malvagi». Si trattava, a suo dire, di scritti degni «d’eterna memoria». E non esitava a dichiarare che l’opera di Innocent Gentillet meritava al contrario «di servire a questi venditori di salsiccie o di sardelle». Con buona probabilità si può identificare in G. l’«uomo […] molto profondo» evocato dallo stampatore. Infatti, nel De legationibus (III 8), pubblicato a Londra un anno dopo l’edizione dei Discorsi di Wolfe, G., sulla scia di quanto aveva già elaborato Jean Bodin nella sua Methodus, discuteva dell’importanza della conoscenza storica per la formazione diplomatica e più in generale per quella dell’uomo politico. Mediante la lettura delle storie, oltre alla conoscenza di appropriate norme di condotta, il diplomatico sviluppa quelle abilità necessarie a destreggiarsi dinanzi alle situazioni critiche. Citando a sostegno della propria posizione la Retorica di Aristotele e i Discorsi di M. (III 43), G. dichiarava che per antivedere il futuro, qualità indispensabile in politica, è fondamentale la conoscenza del passato, anche di quello più recente. La storia è, infatti, un deposito di esperienza che permette di formare un eccellente diplomatico in poche ore, meglio di tanti anni di pratica. Allo studio della storia, ammette nel cap. 9, va però aggiunto quello della filosofia e particolarmente di quei trattati che discutono questioni etiche e politiche. Solo in tal modo è possibile indagare le cause degli eventi e dare allo studio della storia una sua funzione nell’agire politico.
G. trovava nei Discorsi di M. un esempio particolarmente efficace dell’applicazione di questo metodo. Che il Fiorentino fosse stato giudicato un illetterato o un criminale non faceva alcuna differenza: G. intendeva semplicemente interessarsi del suo metodo, senza alcun desiderio di difenderlo dalle accuse di empietà e di mancanza d’integrità morale. Attaccando direttamente Gentillet, affermava che questi aveva calunniato M. in vario modo, non avendo compreso il suo pensiero. Secondo G., il Fiorentino era sempre stato uno strenuo difensore della democrazia e un nemico della tirannide. Nato, cresciuto ed educato alle libertà democratiche, che caratterizzavano la forma di governo nella quale aveva svolto i suoi incarichi, con i suoi scritti si era proposto non già di istruire il tiranno, ma piuttosto di svelare al popolo i segreti della politica tirannica, per offrirgli le armi necessarie a difendere efficacemente la propria libertà. I suoi scritti non erano in tal modo dissimili da quelli di Platone o di Aristotele. Questo giudizio va naturalmente inserito nell’architettura dell’opera gentiliana (che occupò un posto di rilievo nella trattatistica sull’ambasciatore di fine secolo: si pensi, ad esempio, all’importanza che essa riveste per Jean Hotman, amico e collega di G.). Ma visse, per così dire, una vita propria, e si diffuse lungo i secoli nella pubblicistica politica europea, dall’Inghilterra alla Germania, dalla Francia all’Italia. Rielaborato da Traiano Boccalini, fatto proprio da Baruch Spinoza, ricordato da Pierre Bayle, è all’origine dell’idea di Jean-Jacques Rousseau, secondo il quale «le Prince de Machiavel est le livre des républicains» (Contrat social III 6). Tale giudizio fu riprodotto nelle edizioni delle opere machiavelliane del tardo Settecento e anche Ugo Foscolo lo volle ricordare nelle sue Considerazioni sui Pensieri intorno allo scopo di Nicolò Machiavelli sul libro del Principe di Angelo Ridolfi, rilevando come «gli uomini letterati», che avevano lasciato l’Italia «per seguire la riforma della religione, potevano soli difendere il Machiavelli» nel tardo Cinquecento.
Il pensiero di G. su M. probabilmente rifletteva un sentimento condiviso non solo dagli esuli italiani, ma anche da parte dell’ambiente politico di corte. Nelle opere di G., successive al De legationibus, le esplicite citazioni machiavelliane si diradano, forse per una certa prudenza, che comunque non fu sufficiente a preservarlo dalle accuse mosse dai teologi puritani a Oxford contro il suo pensiero. John Reynolds, in particolare, lo definì un giurista ‘macchiavellicus’. Al centro di queste critiche vi era innanzitutto quel che G. aveva scritto intorno al mendacio e all’uso della frode in guerra, nella sua De iure belli commentatio secunda (1588). G. sviluppava la questione senza specifici riferimenti machiavelliani, ma facendo naturalmente largo uso di allegazioni giuridiche e di esempi storici. Il nucleo delle commentationes confluì in seguito nel De iure belli (1598), l’opera più importante di G., e nei De armis romanis libri duo (1599). Nel De iure belli, che pure contiene solo quattro espliciti rimandi machiavelliani, non compromettenti, alle Istorie fiorentine, all’Arte della guerra e ai Discorsi, si assiste alla trasposizione in ambito giuridico del metodo politico adottato da Machiavelli. In questo caso, tuttavia, è la scienza giuridica e non più la filosofia politica a fornire gli strumenti necessari per l’individuazione e la comprensione della ratio che sta dietro l’esperienza concreta delle cose. Mediante il diritto G. indaga i casi che la storia gli mette a disposizione. E sulla questione della guerra può fare affidamento su Francesco Guicciardini, contemporaneo di M. e ottimo giurista e diplomatico. L’apprezzamento di G. per Guicciardini è legato a diversi motivi, e innanzitutto al coraggio che egli aveva dimostrato scrivendo della illegittimità del potere temporale della Chiesa e della corruttela dei suoi costumi. Si trattava di quei celebri Loci duo, che gli zelanti ministri del pontefice avevano fatto espungere dall’edizione a stampa della Storia d’Italia, come G. ricordava nel De papatu romano Antichristo. La Storia d’Italia diventava, nel De iure belli, un deposito di casi e definizioni che permetteva di affrontare, per mezzo di Guicciardini, anche i temi più controversi dell’opera di M., come, per es., le questioni relative al mantenimento dei patti o al ruolo politico della religione nelle imprese belliche. Si veda, per es., il caso del giudizio espresso sulla personalità di re Ferdinando, che fu chiamato il Cattolico e che pure mascherava, con l’onesto mantello della religione, le sue cupidigie e i suoi eccessi (De iure belli I 9). G. ricordava, a questo proposito, che non esiste alcuna religione tanto scellerata da imporre che si combattano uomini di religione differente. La citazione dipende dalla Storia d’Italia (XII 19) e ci conduce direttamente all’esperienza diplomatica in Spagna di Guicciardini, celebrata da G. anche nel De legationibus. Dietro il passo, tuttavia, si può facilmente scorgere anche un richiamo al cap. xxi del Principe. Questo genere di citazioni machiavelliane, non esplicite, è per altro comune in buona parte della letteratura politica di fine Cinquecento. L’ammirazione per M. difensore delle libertà repubblicane si coniugava perfettamente con l’elogio di G. per Lorenzo de’ Medici, almeno per quel che riguardava la politica estera: questi restava per lui la bilancia d’Italia, il garante dell’equilibrio e della pace tra i principi italiani, che cessò proprio con la sua morte, secondo il celebre schema iniziale della Storia d’Italia, rievocato accanto alle Epistole di Angelo Poliziano (De iure belli I 14).
Tra i motivi d’interesse per lo studioso di M. vi è anche il ricordo della Mandragola che compare nel commentario al De maleficiis. Il dato testimonia il desiderio di prendere in considerazione l’intera opera di M., secondo quel progetto editoriale portato a compimento da Wolfe e nel quale probabilmente G. fu in qualche modo coinvolto.
Bibliografia: De iure belli libri tres, ed. T.E. Holland, Oxford 1877 (si veda anche la trad. inglese, ed. J.C. Rolfe, introduction by C. Phillipson, Oxford 1933; e quella italiana di P. Nencini, introduzione di D. Quaglioni, apparato critico a cura di G. Marchetto, C. Zendri, Milano 2008); De legationibus libri tres, ed. E. Nys, translated by G.J. Laing, Oxford 1924; De armis romanis (The wars of the Romans), ed. B. Kingsbury, B. Straumann, trans lated by D. Lupher, Oxford 2011.
Per gli studi critici si vedano: D. Panizza, Alberico Gentili. Giurista ideologo nell’Inghilterra elisabettiana, Padova 1981; A. De Benedictis, Gentili Alberico, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 53° vol., Roma 1999, ad vocem.
Più in generale su G. si vedano: The Roman foundation of the law of the nations. Alberico Gentili and the justice of empire, ed. B. Kingsbury, B. Straumann, Oxford 2010; «Silete theologi in munere alieno». Alberico Gentili e la Seconda Scolastica, Atti del Convegno internazionale, Padova 20-22 novembre 2008, a cura di L. Bianchin, M. Ferronato, Padova 2011. Sulla relazione tra G. e M. si vedano: D. Panizza, Machiavelli e Gentili, «Il pensiero politico», 1970, 2, pp. 476-83; G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995, in partic. pp. 135-46; S. Anglo, Machiavelli. The first century, Oxford 2005, pp. 366-68. Su G. e Wolfe si vedano: C.C. Huffman, Elizabethan impressions: John Wolfe and his press, New York 1988; P.S. Donaldson, Machiavelli and mystery of State, Cambridge 1992, in partic. pp. 86-110.