ALBERICO II
. Figliuolo del precedente. Non era potuto succedere al padre nella marca di Spoleto e di Camerino, passata prima, forse, a Pietro, fratello di Giovanni X, poi ad un fedele di re Ugo di Provenza, Teobaldo, e se ne viveva in Roma accanto alla madre, che, per mantenere il predominio della sua casa nella città, dopo la morte di Alberico I, sposò Guido di Toscana, e, in terze nozze, nel 932, il fratello di quest'ultimo, Ugo di Provenza, re d'Italia. Il matrimonio fu celebrato in Castel Sant'Angelo, formidabile fortezza di proprietà di Marozia. Ma la presenza del re fu sentita dall'aristocrazia romana come una minaccia di soggezione ad un sovrano straniero. D'altra parte, quelle nozze fra cognati, vietate dalla Chiesa, avevano profondamente offeso il senso morale della popolazione. Il generale malcontento offerse ad A. l'opportunità di conquistare di colpo una posizione eminente. Egli stesso si credeva esposto al pericolo di esser fatto acciecare dal patrigno. Percosso poi sul viso dal re, per il poco rispetto dimostratogli nel versargli, a richiesta della madre, acqua per lavarsi le mani, insorse, chiamò a raccolta e infiammò contro lo straniero i Romani, che diedero l'assalto a Castel Sant'Angelo. Ugo riuscì a fuggirne; Marozia e il papa, che era allora un fratello di A., Giovanni XI, furono posti sotto custodia; A. venne proclamato dai Romani loro signore (932). E di fatto, per ventiquattro anni, egli fu l'effettivo padrone di Roma e dello Stato della Chiesa, in qualità di princeps atque senator omnium Romanorum. In alcune fonti gli è attribuito anche il titolo di patricius. Pareva che l'aristocrazia romana, dopo tante lotte contro il papato, fosse riuscita ad afferrare il potere attraverso la persona di un membro di una delle famiglie maggiori. A. tenne con mano ferma il governo, e nessuna fazione ostile osò formarsi contro di lui. Di una sola congiura abbiamo notizia, in cui furono coinvolti due vescovi romani e le sorelle stesse del principe: A., informato da una di esse, fece giustiziare o incarcerare i colpevoli. Roma, così, ebbe sotto di lui una tranquillità quale da gran tempo non ricordava. Il principe dirigeva la politica esterna e comandava le forze militari dello Stato della Chiesa; per suo ordine e nel suo palazzo, presso la basilica dei Ss. Apostoli, si riunivano a trattare cause giudiziarie grandi laici ed ecclesiastici; nelle provincie aveva, probabilmente, ufficiali suoi proprî: tali, almeno per la Campania, dovevano essere i comites, che compaiono a reggerla in questo periodo; e tali furono certo i duces, posti a capo della Sabina, quando, attorno al 940, egli poté staccare quel territorio dalla marca di Spoleto, profittando dello stato di guerra con re Ugo. Non osò, tuttavia, portare alle estreme conseguenze la rivoluzione del 932. L'universalità del papato fu più forte delle aspirazioni locali dell'aristocrazia romana. Sovrano effettivo di Roma e dello Stato della Chiesa, il principe lasciò che il papa continuasse ad esserne il sovrano nominale, e che il computo degli anni fosse fatto secondo quelli di dominio dei papi, e non secondo quelli del proprio, mentre su le monete si limitò ad aggiungere, al nome del papa, il proprio. Il papa, praticamente escluso dagli affari di carattere politico, conservò maggior libertà d'azione nel campo religioso. Ma certo anche qui A. dovette vegliare, in quanto l'opera dei pontefici potesse toccare l'efficienza del regime da lui instaurato. D'altra parte, l'azione da lui esercitata escludeva che potessero essere elette persone a lui non ligie. In tal modo, se teoricamente il papa rimase anche dopo la rivoluzione del 932 sovrano dello Stato della Chiesa, di fatto, più ancora della coesistenza in Roma di due poteri supremi, secolare e religioso, con un dualismo che si esprimeva nei due nomi coniati nelle monete, si ebbe una reale dipendenza dalla forte personalid del principe dei quattro papi, tutti romani, successi, durante il suo dominio, a Giovanni XI: Leone VII (936-939); Stefano VIII (939-942); Marino II (942-946); Agapito II (946-955). Ciò fu tanto più facile, in quanto A. stesso s'interessò vivamente del problema religioso più sentito del suo tempo: la riforma della vita monastica. Odone, abate di Cluny, recatosi a Roma, trovò in lui un deciso sostenitore, e da lui ebbe il proprio palazzo sull'Aventino, perché vi sorgesse un monastero in onore della Vergine, nonché la cura del monastero di Sant'Elia presso Nepi e la sorveglianza su tutti i monasteri prossimi a Roma. Diversi monasteri della città furono poi da A. restaurati e riccamente dotati, come S. Paolo, S. Lorenzo, S. Agnese fuori le mura, S. Andrea in clivio Scauri. Le stesse cure ebbe il principe per i monasteri del Soratte e di Subiaco, al quale, tra l'altro, assegnò in Roma il monastero di S. Erasmo sul Celio, abbandonato dai monaci. Con grande energia, sostenne, a Farfa, i fautori della riforma nelle loro lotte contro gli avversarî. Certo il principe ne traeva un vantaggio anche nel campo politico, in quanto allargava la cerchia dei suoi sostenitori, e, donando terre ai monaci, le sottraeva, non soltanto all'abbandono, ma anche al pericolo che divenissero possesso e strumento di potenza di famiglie rivali dell'aristocrazia romana.
A. anche nella politica esterna si dimostrò avveduto uomo di stato. Respinto nel 933 un tentativo di Ugo per rientrare in Roma, cercò un appoggio contro di lui nell'amicizia dell'imperatore d'Oriente, verso cui già la madre Marozia si era volta. A. trattò per avere in isposa una principessa bizantina e forse anche per ottenere il riconoscimento del regime da lui creato. Fallì il primo scopo; forse fu raggiunto l'altro. Infatti nella formula di saluto all'imperatore di Costantinopoli, prevista nel cerimoniale di Costantino VII Porfirogenito per gl'inviati di Roma, questi, dopo i voti a nome degli apostoli Pietro e Paolo, del papa e del clero romano, rendono omaggio all'imperatore stesso in nome del "gloriosissimo principe dell'antica Roma, insieme con gli ottimati e tutto il popolo al principe soggetto". Nel 936, A. respinse un nuovo tentativo di Ugo su Roma; ma Odone di Cluny poté conciliare i due avversarî, tanto che il re diede in moglie al principe la figlia Alda. Riconciliazione, tuttavia, precaria, nonostante l'instancabile opera pacificatrice di Odone: Ugo riprese le sue ostilità contro Roma, sempre fronteggiato con fortuna da Alberico. Questi poteva riconoscere il lontano imperatore orientale, non certo lasciar ricostituire, nella persona del re d'Italia, l'impero d'Occidente. Solo nel 946 i due avversarî fecero pace; ma Ugo rinunciava ai suoi disegni su Roma. Nel 951, anche Ottone I, disceso per la prima volta in Italia, si trovò di fronte A.; e vani furono i suoi passi presso papa Agapito II allo scopo di preparare la sua venuta a Roma per prendere la corona imperiale. Il papa, certo in omaggio alla volontà del principe, oppose un rifiuto. Ma A., se sapeva di potersi imporre al papa, avvertiva che anche il regime sorto per opera sua dalla rivoluzione del 932 era minato dal dissidio sempre latente fra il potere secolare e il potere religioso. Volle perciò conciliare in un certo senso il nuovo regime con l'antico, in quanto i due poteri ritornassero ancora a riunirsi nella sola persona del pontefice, ma questa d'altra parte avesse il sostegno di quelle forze che ad Alberico avevano dato il dominio di Roma e dello Stato della Chiesa. Prossimo a morte, il 31 agosto 954, il principe fece giurare alla nobiltà romana, riunita nella basilica di S. Pietro, che avrebbe portato a successore di Agapito il proprio figlio Ottaviano. Alberico II, che fu detto bello quanto il padre, ebbe senza dubbio vere qualità di uomo di stato. Il suo tentativo di superare la debolezza insita nella natura dello Stato della Chiesa, creando e poi modificando un nuovo sistema politico-religioso fondato sul concorso dell'aristocrazia romana e delle forze spirituali della Chiesa, fa di lui una delle figure più eminenti nella storia italiana della prima metà del sec. X.
Bibl.: Oltre alle opere generali sulla storia d'Italia in questo periodo, tra le quali speciale valore ha L. M. Hartmann, Geschichte Italiens im Mittelalter, III, ii, Gotha, 1911; e la ben nota storia di Roma del Gregorovius (Storia della città di Roma nel Medioevo, I), v. gli studî su lo Stato della Chiesa, tra cui specialmente L. Duchesne, Les premiers temps de l'État Pontifical, 3ª ed., Parigi 1911. Inoltre, le opere sulla marca di Spoleto, tra cui specialmente A. Hofmeister, Markgrafen und Markgrafschaften im Italischen Königreich in der Zeit von Karl dem Grossen bis auf Otto den Grossen, in Mitt. d. Inst. f. Öst. Gesch., VII Ergänzungb., 1907. Sull'aristocrazia romana di questo periodo, L. M. Hartmann, Grundherrschaft und Bureaukratie im Kirchenstaate vom 8. bis zum 10. Jahrhundert, in Vierteljahrschrift f. Sozial-und Wirtschaftsgeschichte, VII (1909), pp. 142-158. Importanza fondamentale hanno le Ricerche per la storia di Roma e del papato nel secolo X, di P. Fedele in Arch. d. r. Soc. rom. di storia patria, XXXIII (1910), pp. 177-247; e XXXIV (1911), pp. 75-115 e 393-423. V. L. Duchesne, Serge III et Jean XI, in Mélanges d'arch. et d'hist., XXXIII, 1913, pp. 25, 64. Studî particolari su Alberico I: G. Bossi, Alberico I duca di Spoleto. Contributo alla storia di Roma dall'888 al 932, Roma 1918, pp. 46 (estr. da L'Arcadia, II, 1918), da usare però con cautela; su Alberico II, W. Sickel, Alberich II und der Kirchenstaat, in Mitt. d. Inst. für. Öst. Gesch., XXIII (1902), pp. 50-126, lavoro importante, ma che si propone di definire giuridicamente il carattere della signoria di Alberico, piuttosto che tracciarne la biografia. Per le monete coniate sotto Alberico II, F. Gregorovius, Die Münzen Alberichs des Fürsten und Senator der Römer (a. 932-954), in Sitzungsberichte der philos.-philol. und hist. Classe der k. bayr. Akad d. Wissensch. zu München, 1885, pp. 27-45 (ristampato, in Kleine Schriften zur Geschichte und Kultur, Lipsia 1887); F. Labruzzi, Di una moneta di Alberico principe e senatore dei Romani, in Arch. d. r. Soc. rom. di storia patria, XXXV (1912), pp. 133-149. Si possono vedere anche i due articoli dedicti ai due Alberici da L. Bréhier, in Dict. d'hist. et de géogr. eccl., I, coll. 1404-1406.