ALBERO DEL MONDO
India. L'a., pur essendo fra і simboli letterariamente più frequenti e importanti dell'induismo, è assai di rado rappresentato in modo esplicito nelle sue arti figurative. Si può anzi dire che tale iconografia giunge a una compiuta esplicitazione soprattutto nelle arti del buddhismo e in quelle della c.d. India esterna, dall'Indonesia all'Indocina, dal Tibet alla Birmania. Ciò non di meno, tutti і presupposti mitici, simbolici e culturali di queste successive realizzazioni figurative sono principalmente hindu, ed è pertanto indispensabile riassumerne qui і tratti essenziali.
L'a. è menzionato già nelle più antiche Saṃhitā vediche, e il suo simbolismo viene ininterrottamente e coerentemente sviluppato nelle successive letterature buddhista e jaina, e in quella degli Itihāsa e dei Purāṇa hindu. È indispensabile considerare che, trattandosi di testi mitologici e non botanici, al di là delle differenti denominazioni, l'a. è, secondo il punto di vista mitopoietico indiano, essenzialmente sempre lo stesso, e che і diversi nomi o caratterizzazioni che gli si attribuiscono altro non sono che і significati che esso assume a seconda del punto di vista dal quale viene più particolarmente considerato, significati e aspetti peculiari simboleggiati nei testi, ma anche nelle immagini, da diverse specie arboree reali. Tutto ciò va completato con la precisazione che le piante «reali» sono considerate come discendenti dalla pianta o dalle piante mitiche originarie, e solo a tale titolo recano le «segnature» di quelle, sia pure a un livello inferiore. Le allusioni a trasferimenti mitici di piante celesti e paradisiache nel mondo dell'uomo a opera di diverse figure divine о semidivine devono essere intese come l'indicazione di ulteriori corrispondenze simboliche esistenti anche fra і diversi alberi e piante secondari di ciascun mondo, e questo dà un'idea della complessità di tale simbolismo. Com'è noto, il simbolo dell'«albero», che inteso come axis mundi si ritrova presso quasi tutte le culture più antiche, esprime sempre un'idea di «totalità», soprattutto per la sua capacità di significare la struttura a più piani paralleli sovrapposti del Cosmo. Nell'esemplificazione vedica di questa concezione arcaica, la «totalità», qui però intesa in senso universale e assoluto, fa dell'a. un simbolo del Brahman supremo (cfr. Ṛg Veda, x, 81, 4; Śvetāśvatara Upaniṣad, III, 9; Mahānārāyaṇa Upaniṣad 225-226). Nei testi vedici l'«albero-Brahman», o Brahmavṛkṣa, viene descritto sia «diritto», come negli esempi sopra citati, sia «rovesciato» (cfr. Taittirīya Āraṇyaka, i, 2, 5 Maitri Upaniṣad, vi, 4; Kaṭha Upaniṣad, ii, 6, 1; Bhagavad Gītā, xv, I). In realtà si tratta sempre dello stesso «albero», o meglio delle due metà sovrapposte del suo «tronco», l'una essendo il riflesso invertito dell'altra, come è affermato esplicitamente in Ṛg Veda, i, 24, 7 e Atharva Veda, II, 7, 3. L' «albero diritto» è simbolo del Brahman in sé, in quanto non manifestato, l'«albero rovesciato» è il Brahman manifestantesi nel Tribhuvana (Trimundio). D'altra parte c'è da osservare anche questo, e cioè che quando l'«albero» non è più simbolo del Brahman, bensì del complesso della manifestazione, anche in tal caso troviamo nei testi un «albero diritto» e uno «rovesciato». Ma mentre prima questi erano come uniti per la «radice», adesso lo sono per la «cima» (cfr. Jaiminīya Brāhmaṇa, i, 20, 3). Si tratta in realtà di due modi diversi di considerare l'origine della manifestazione, uno più metafisico e l'altro più cosmologico, a seconda cioè che l'«albero» sia visto come avente le sue radici nelle «acque inferiori» ovvero in prākṛti, la sostanza primordiale, e quindi «diritto», o nelle «acque superiori», il non manifestato, e quindi «rovesciato». È l'«albero diritto», corrispondente all'aspetto più basso della manifestazione, che si deve «scuotere» o «tagliare» per uscire dal Cosmo (cfr. Taittirīya Upaniṣad, I, 10 e Bhagavad Gītā, xv, 2-4).
Oltre all'idea dl Brahmavṛkṣa, fondamentale nei Veda è quella di Agni Vanaspati, ovvero dell'epifania del dio del fuoco sacrificale come «albero cosmico» sostanziato di luce e di fiamma (Kaṭha Upaniṣad, II, 4, 8). Nell'appellativo di Vanaspati (letteralmente «Signore della Foresta») gioca infatti l'ambiguità semantica del termine vana, significante a un tempo «albero» e «luce». Con un'immagine un po' insolita, ma simbolicamente significativa, il Ṛg Veda, II, 35, 8 descrive l'origine delle specie vegetali come se esse fossero rami fiammeggianti di quest'«albero centrale». L'«albero di fuoco» può dunque essere assimilato al vajra (fulmine), che è un aspetto di Agni, con le sue ramificazioni (Mahānārāyaṇa Upaniṣad, viii, 368-371).
Come si vedrà, il buddhismo non aggiunge praticamente nulla a queste fondamentali connotazioni metafisiche e cosmologiche dell'a., simbolo che significativamente compare in coincidenza delle principali tappe della biografia mitica dell'Illuminato, in particolare in occasione della nascita, dell'illuminazione e della morte. Anzi, nella prima fase aniconica dell'arte buddhista, quando l'albero appare frequentemente come simbolo dello stesso Buddha, e del Brahmavṛkṣa o di Agni Vanaspati che in realtà essenzialmente si tratta. È importante rilevare che in questi esempi figurativi l'albero della bodhi non è spesso altrimenti distinguibile se non per la vedikā (balaustra lignea) quadrangolare che lo racchiude. In effetti di simili alberi, così semplicemente resi «sacri» nel senso etimologico del termine, tanti se ne ritrovano in tutta l'India prebuddhista, e certamente non solo perché se ne adorava lo yakṣa o la yakṣī ivi residenti, bensì anche perché questo tipo particolare di hortus conclusus veniva inteso come equivalente simbolico dell'Uttarakuru, la residenza suprema e originaria dell'umanità posta sulla cima del monte Meru, della quale cima l'albero del jambū (eugenia jambolana) era, secondo i Purāṇa, il naturale prolungamento nella direzione dell'axis mundi (cfr. Ṛg Veda, v, 85, 2). L'a. in cima alla Montagna cosmica, l'uno e l'altra estremamente stilizzati, compare già sulle più antiche monete del periodo maurya e śuṅga. Del resto la concezione di un «albero centrale» і cui fìttoni, al modo delle radici aeree del ficus bengalensis, strutturano il cosmo sia in senso verticale che sul piano orizzontale, è perfettamente comune alle tradizioni hindu, buddhista e jaina, con minime varianti. Secondo tale concezione, sorta di stilizzazione geometrica dell'a., considerando il tronco di quest'ultimo come un asse verticale di lunghezza indefinita e і suoi rami come altrettanti piani orizzontali perpendicolari a quest'asse, ciascuno di questi piani viene a corrispondere a un mondo (kalpa), ovvero a un grado della manifestazione cosmica. L'asse verticale, come si è detto, può quindi essere considerato nella sua interezza o suddiviso in due o più sezioni, le quali, come è ovvio, presenteranno significati più specifici e particolari. In ciascuno dei piani o mondi attraversati da questo unico aśvattha, siano essi Inferni (pātāla), Paradisi (svarga) o il mondo dell'uomo, l'«albero centrale» a essi relativo si moltiplica in orizzontale e a raggiera in una serie, teoricamente indefinita, di altri alberi e piante simbolici. Per і mondi diversi dal nostro, і testi si limitano solitamente a indicare il solo «albero centrale» o, al massimo, gli altri quattro che, scaturendo da questo primo, si sviluppano orientati secondo і punti cardinali. Così i Pañcavṛkṣa («сіпque alberi») dello svarga, il cielo di Indra. Per i pātāla si può ricordare che due di essi prendono il loro nome dai rispettivi alberi centrali, l'asipattra e lo śālmali, entrambe piante spinose (cfř. Manusmṛti, iv, 90; Bhāgavatapurāṇa, V, 26, 7 e 15).
Si ritrovano le concezioni simboliche già relative ad Agni Vanaspati in numerose raffigurazioni dell'albero della bodhi reso come una «colonna fiammeggiante», in riferimento a talune azioni miracolose del Buddha trasfigurato o a sue particolari ipostasi. Ne abbiamo un ottimo esempio (probabilmente prima metà del I sec. d.C.) nel pilastro di sinistra del toraṇa N del complesso di Sāñcī. Qui l'a. simbolo del Buddha Amitābha, cinto dalla solita vedikā, è parzialmente antropomorfizzato dalla presenza, alla sua base, dell'impronta dei piedi del Buddha significanti la terra. Risalendo verso la sua sommità, troviamo il dharmacakra assimilabile al disco solare di cui quest'albero è il «raggio verticale» ovvero l'«unico piede» (ekapāda), e in cima il triśūla, qui inteso significare la parte superiore del vajra cui l'«albero di luce» è identificato. Ancora a Sāñcī, sulla porta O dello stūpa I, troviamo un aśvattha, sempre simbolo del Buddha, il cui tronco tripartito sorgente dal trono ha come radice un triśūla emanante dalla «ruota della legge».
È stato detto da alcuni studiosi che la stessa immagine antropomorfa del Buddha deriverebbe da quella dello yakṣa. Ci sembra invece che sia più esatto dire, sulla base del fondamentale antropomorfismo sotteso a tutta l'iconografia indiana, che esiste una perfetta equivalenza simbolica fra la figura del Buddha e l'albero del mondo. Non a caso molte volte, a connotare ulteriormente tale perfetta equivalenza, sono rilevate alla base di tale a. le impronte dei piedi del Buddha, e, più tardi, si daranno casi assai singolari, e sin qui male interpretati, di immagini del Buddha in padmāsana dalla sommità del cui capo sembra inaspettatamente scaturire la parte superiore dell'albero della bodhi. Riconducibile sempre a quest'ordine di significati è il fatto che in molte scene della natività del Buddha da sua madre Māyā nel parco di Lumbinī, quest'ultima atteggiata nella classica positura in bhaṅga delle yakṣī, sostituisce letteralmente con il suo corpo il tronco dell'albero śāla al quale, secondo le scritture, dovrebbe appoggiarsi per meglio sopportare lo sforzo del parto. Di tale tronco non vi è infatti visivamente più traccia, mentre le fronde superiori dello stesso sovrastano il capo della donna e sembrano quasi scaturire e svilupparsi da esso. Tale fatto è agevolmente riscontrabile sin dalle più antiche rappresentazioni di Sāñcī o di Amarāvatī, fino a quelle del Gandhāra e di Mathurā. Particolarmente chiaro è un esempio iconografico di Nāgārjūnakoṇḍa del II secolo d.C.
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