ALBERO (dal lat. arbor; fr. arbre; sp. árbol; ted. Baum; ingl. tree)
Per albero s'intende in generale una pianta legnosa che ha un fusto principale dritto, perenne, solitario, o per mancata ramificazione, o per perdita dei rami, il quale all'altezza di 4-5 m. protende rami e ramoscelli fogliferi, ovvero porta soltanto un ciuffo di grandi foglie. Segno convenzionale per indicare nelle flore un albero è &mis4;R.
Il fusto unico, che a guisa di colonna sopporta i rami o il ciuffo di foglie, si dice tronco, e il sistema dei rami o il ciuffo di foglie che lo coronano, costituiscono la chioma. Il tronco ingrossa via via che aumenta il peso da sopportare, e le dimensioni e solidità di esso sono sempre in stretto rapporto col peso della chioma.
Tronco. - Ha una forma tipicamente cilindro-conica od anche un po' prismatica, e quando rassomiglia a una colonna sormontata da un capitello di grandi foglie (Palme, Cicadacee, Felci arboree), prende più propriamente nome di stipite. Nei bambù arborei il tronco a nodi rilevati e compatti e internodî cavi in tutta la loro lunghezza si chiama culmo. Altre forme, che s'allontanano dalla tipica, s'incontrano in questa o quella pianta, ad esempio nelle Bombacee - tutte esotiche (Bombax, Chorisia) - dove il tronco è gonfio a guisa di botte.
Il tronco varia pure per lo stato della superficie e pel colore, in rapporto con la scorza o ritidoma che lo riveste, e col suo modo di staccarsi: a lamine bianche membranose (Betula), a placche grigie di contorno irregolare (Platanus), ad anelli e a nastri fibrosi giallo-bruni (Hydrangea, Vitis), a placche brune profondamente e variamente screpolate e più o meno lungamente persistenti (Quercus, Castanea, Ulmus).
Chioma. - Il numero, la forma, la disposizione, il diverso sviluppo e la direzione dell'accrescimento dei rami e delle foglie imprimono alla chioma dei diversi alberi una particolare fisionomia, un portamento determinato che si chiama habitus della pianta, essendovi chiome strette quasi in forma di cono, altre allargate a mo' di cupola od ombrello e persino spioventi all'ingiù. In armonia con tali caratteri, si distinguono alberi a chioma normale coi rami principali protesi a guisa di braccia obliquamente verso l'alto; alberi a chioma piramidale o fastigiata, in cui i rami si stringono di più al fusto, diventando quasi verticali (Populus italica); alberi piangenti, i cui rami sono reflessi all'ingiù in piena antitesi con quelli piramidali (Salix babylonica, Sophora pendula). Vi sono poi forme intermedie come quella ad ombrello o umbraculifera coi rami diretti più o meno verso l'alto, ma che con la loro estremità s'incurvano verso terra (Catalpa umbraculifera) e quella di certe Conifere (Cedrus atlantica, Araucaria brasiliensis) coi rami orizzontali formanti tanti piani o palchi sovrapposti.
Le piante arboree che hanno foglie aghiformi, cioè lunghe e strette in forma di ago, son chiamate aghifoglie (Pinus, Larix); quelle invece che le hanno larghe, laminari, son dette latifoglie. Nelle prime, le foglie sono di regola persistenti, cioè durano parecchi anni (anche 10-12) sulla pianta, che è perciò detta anche sempreverde (Pinus, Abies, Juniperus), e solo eccezionalmente cadono ogni anno nell'autunno per rinnovarsi a primavera (Larix); nelle latifoglie, si verifica il caso opposto, cioè predominano le foglie caduche, e sono più rari gli alberi sempreverdi (Laurus, Magnolia, Ligustrum).
Dimensioni. - La statura degli alberi, oltre che variare specificamente, può anche in una stessa specie variare limitatamente nei singoli individui a seconda delle condizioni dell'ambiente: terreno pingue o arido, confacente o no, umido o secco, ecc. Gli alberi son diffusi su tutta la terra, sempre più frequenti dai poli all'equatore, ma nell'estremo nord e nelle grandi altitudini sono sostituiti da forme fruticose. L'altezza di certi alberi può raggiungere proporzioni tanto imponenti che si parla allora di "giganti della vegetazione".
Il nanismo degli alberi si può ottenere con l'arte, nella quale son maestri insuperati i giardinieri giapponesi, che riescono ad allevare in angusti vasetti per decennî e anche per oltre un secolo, tramandandoseli di padre in figlio, alberi d'alto fusto (Pinus, Thuya, Juniperus, Podocarpus e altre conifere specialmente, ma anche Acer, Pirus, Wistaria, Cerasus, ecc.), ridotti a modestissime proporzioni di 50 cm. o poco più. Gli artifizî per ottenere questi strani "alberetti giapponesi" sono molteplici, ma soprattutto, oltre all'angustia del vaso e alla scarsità del terreno magro e compatto, l'inaffiamento scarsissimo, per cui la pianta viene a trovarsi in uno stato di fame permanente, a cui si aggiungono l'asportazione della radice e del fusto principali, le potature frequenti, la piegatura e torsione dei rami, onde questi alberetti si presentano in forma, oltre che di nani, anche di storpi. Anche la grossezza del tronco, specialmente alla base, può essere cospicua, ma non sta in rapporto diretto all'altezza, come risulta dall'annessa tabella.
Età. - Mentre l'altezza dell'albero e il diametro e la circonferenza del tronco si possono misurare direttamente con sufficiente precisione, l'età di essi non si può calcolare che in linea di approssimazione, tranne i pochi casi in cui si tratta di "alberi storici" dei quali si conosce la data in cui vennero piantati a ricordo di avvenimenti storici importanti (v. tabella).
Bibl.: G. Savi, Trattato degli alberi della Toscana, Pisa 1801; G. B. Sartorelli, Degli alberi indigeni ai boschi dell'Italia superiore, Milano 1816; A. Reali, Gli alberi e gli arbusti dell'Appennino Camerte, Camerino 1871; A. Cantani, Pro sylvis, Torino 1893; L. Piccioli, Le piante legnose italiane, Firenze 1890; H. Correvon, Nos arbres, Ginevra 1906; E. G. Lissone e L. Roberto, Le piante a fusto legnoso indigene e naturalizzate nel Piemonte e comuni in quasi tutta la penisola e nelle isole, Saluzzo 1926.
Gli alberi nelle religioni.
Nei tempi primitivi, quando il divino era concepito impersonalmente come una forza misteriosa diffusa nella natura, fu localizzato anche negli alberi, specialmente in quelli di aspetto meno comune, o straordinario. Questa forza divina si cercava di accrescere con mezzi ed operazioni magiche, come, presso i Greci, con l'unzione dell'olivo, o, come presso alcuni popoli selvaggi nonché presso gli antichi Germani, con l'appendere ai rami i corpi dei nemici sconfitti, ovvero col circondare il tronco con le viscere delle vittime. D'altra parte si cercava di utilizzare la forza misteriosa così accumulata nella pianta, col diffonderla all'intorno, perché andasse ad accrescere la forza vitale degli esseri circostanti, compreso l'uomo. Questo spiega l'uso dei Romani di porre all'anno nuovo - cioè il 1° marzo - alle porte delle case un ramo di alloro, detto strena (onde il nostro strenna); l'uso dei Germani, continuato fino ad oggi, di innalzare nel mezzo dei villaggi un palo di betulla e d'introdurre una betulla o altro albero consimile nella corte della casa (onde il costume nordico dell'albero di Natale); l'uso di molti popoli (cfr. Genesi, XXXV, 8; Platone, Leg., XII, 947 E) di seppellire i morti presso una pianta verde, quasi per comunicare all'anima la forza di sopravvivere più lungamente (onde la comune usanza di piantare il cipresso nei cimiteri). Il mezzo migliore di appropriarsi la forza divina inerente alla pianta era naturalmente l'estratto del suo frutto; per questo l'olio si versava dai Cananei e dagli Ebrei sulle persone e sugli oggetti che si volevano consacrare, il vino era bevuto dai baccanti per entrare in estasi e mettersi in stretta comunione con la divinità. Assai diffusa troviamo altresì tra i popoli - Babilonesi, Irani, Indiani, Germani - la credenza nell'esistenza di un albero della vita, del quale chi arriva a mangiare non muore mai. Di tal natura era l'albero della vita che secondo il Genesi (III, 22) stava nel mezzo del paradiso terrestre, dal quale Dio cacciò l'uomo, appunto perché non mangiasse più del frutto di esso, e quindi dovesse morire (cfr. anche Apocalisse, II, 7; XXII, 2, 14).
Col prevalere poi della concezione personale del divino, le piante che per essere prive di vita autonoma mal si prestavano ad essere concepite come numi esse stesse, furono considerate come la residenza di esseri divini. Così i più antichi luoghi sacri furono i boschi come quelli che all'ombra dei rami o nel cavo dei tronchi offrivano ricetto ad un nume. Anche quando, più tardi, agli dei si alzarono templi, questi furono provvisti (Egitto, Babilonia) di boschi sacri.
Dei Semiti si sa che intorno ai loro templi si estendeva talora per più miglia, una cinta detta haram o hima, entro la quale uno spazio era coltivato ad alberi ed erba, che sarebbe stato sacrilegio abbattere o radere. La Palestina è un paese povero di alberi, pure i Cananei e, dietro il loro esempio gli Ebrei, sceglievano i luoghi per il culto sulle alture "all'ombra di ogni albero verdeggiante" (Deuteronomio, XII, 2; Geremia, II, 20, ecc.). Analogamente Greci e Romani solevano consacrare boschi agli dei e proteggerli con leggi speciali: Erisittone è rimasto tristamente celebre come sacrilego distruttore del bosco di Demetra. Apollo aveva intorno ai suoi santuarî boschetti di alloro e Pallade Atena di olivi. A Roma la dea Dia dei fratelli Arvali aveva per residenza un bosco, finché poi nel medesimo le fu costruito un tempio; e sui sette colli a varie divinità erano sacri dei boschi, che però, col tempo, estendendosi sempre più l'abitato, dovettero restringersi e alcuni anche sparire. Della venerazione degli antichi Germani per le selve e i boschi come sacri agli dei abbiamo testimonianza in Tacito (Germ., IX).
Come i boschi, così singoli alberi si credettero posseduti ed abitati da qualche nume. Nel culto privato degli Egiziani avevano gran parte alcuni alberi: palme innalzanti le loro cime superbe al cielo, sicomori cresciuti sul margine del terreno coltivato ovvero lungi dalla vallata, come per miracolo, in un letto di sabbia - ai quali si portavano in dono frutti e acqua fresca; non gli alberi per sé stessi ma allo spirito che in essi risiedeva. E così presso molti altri popoli. Tra gli alberi che più sono stati venerati religiosamente è la quercia: in ciascuna i Greci vedevano una ninfa (Dryas, Hamadryas) il cui fato era legato a quello dell'albero; Omero ricorda in più luoghi le due quercie di Zeus innanzi alle porte Scee; ma è soprattutto celebre la quercia di Dodona, da cui Zeus dava gli oracoli per mezzo del muoversi e dello stormire delle fronde. Secondo alcuni la quercia o, meglio, il terebinto di Abramo a Sichem, detto Moreh cioè "dell'indovino", dovette essere in origine un albero-oracolo (Gen. XII, 6; cfr. Giudici IX, 37).
Infine col progressivo spiritualizzarsi della religione, il nume, dapprima congiunto all'albero stesso (cfr. presso i Greci la denominazione, data ad alcuni dei, di δενδρεύς o ἔνδενδρος o δενδρίτης, da δένδρον "albero") se n'è distaccato del tutto, divenendo semplicemente il protettore dell'albero, come l'albero è divenuto il simbolo del dio. Questo processo in Grecia cominciò assai presto, a quanto pare fin dall'epoca minoica, giacché nelle rappresentazioni, da essa provenienti, si vede la divinità semplicemente assisa all'ombra di una pianta, ovvero in atto di cogliere il suo frutto.
Bibl.: J. W. Hauer, Die Religionen, I, Das relig. Erlebnis auf den unteren Stufen, Stoccarda 1923; W. Mannhardt, Antike Wald- und Feldkulte, Berlino 1905; L. Weniger, Altgriechischer Baumkultus, Lipsia 1919; A. Wünsche, Sagen vom Lebensbaum und Lebenswasser, Lipsia 1905; Uno Holmberg, Der Baum des Lebens, 1922; O. Kern, Die Religion der Griechen, Berlino 1926, I; E. Lehmann, in Chantepie de la Saussaye, Lehrbuch der Religionsgeschichte, 4ª ed., Tubinga 1924, I, p. 34 segg.