Einstein, Albert
Fisico tedesco naturalizzato svizzero e statunitense (Ulma 1879 - Princeton, New Jersey, 1955).
Di famiglia ebrea, trascorse i primi anni della sua vita a Monaco e, dopo un breve soggiorno a Milano, si trasferì con i suoi in Svizzera. A Zurigo completò gli studi secondari e frequentò l’università conseguendo nel 1905 il dottorato. Nel 1909 ottenne il primo incarico accademico all’univ. di Zurigo, dove rimase, salvo una parentesi all’univ. di Praga, fino al 1914, quando fu chiamato a Berlino per divenire membro dell’Accademia prussiana delle scienze, direttore del Kaiser-Wilhelm-Institut e professore universitario. Berlino era sede di uno dei più prestigiosi centri di ricerca fisica del tempo, dove operavano anche M. Planck, W. Nernst e, successivamente, E. Schrödinger e M. von Laue. Con la conferma sperimentale di alcune previsioni della relatività generale, ottenuta in occasione dell’eclissi solare del 1919, le concezioni teoriche di E. si affermarono definitivamente e la sua fama si diffuse presso il largo pubblico. Nel 1921 gli fu conferito il premio Nobel per la fisica per la teoria dell’effetto fotoelettrico, formulata nel 1905. Nonostante i ripetuti attacchi di una parte dei fisici tedeschi e una sempre più accesa campagna antisemita contro la sua persona e le sue idee, E. restò a Berlino fino al 1933. Con l’ascesa al potere di Hitler, abbandonò la Germania per recarsi a Princeton, presso il nuovo Institute for advanced study, dove proseguì l’attività di ricerca fino agli ultimi giorni della sua vita.
Nel 1905 gli Annalen der Physik pubblicarono tre brevi memorie di E. sulla natura della radiazione, il moto browniano, l’elettrodinamica dei corpi in moto. I temi trattati, pur appartenendo a domini apparentemente separati dalla fisica teorica, nascono da uno stesso progetto di ricerca, sorretto dalla necessità di ridefinire principi e fondamenti concettuali della meccanica, dell’elettromagnetismo e della termodinamica. Nella prima memoria (Über einen die Erzeugung und Verwandlung des Lichtes betreffenden heuristischen Gesichtspunkt), egli giunse a una generalizzazione delle ipotesi quantistiche di Planck rimettendo in discussione uno dei risultati più consolidati della fisica ottocentesca: la natura ondulatoria della luce. Il punto di vista euristico di E. comporta, infatti, che la luce vada considerata, contro ogni precedente evidenza sperimentale, come un insieme discreto di elementi di energia, i «quanti di luce», come egli li chiama, o «fotoni», come sono stati ribattezzati da G. Lewis (1926). E. trae questa conclusione dai metodi della termodinamica e della meccanica statistica, sviluppando un’analogia tra alcune proprietà dell’entropia della radiazione di corpo nero e l’entropia di un gas. Ma il risultato sorprendente della derivazione teorica della natura corpuscolare della radiazione sta proprio nelle sue conseguenze sperimentali, che permettono di spiegare alcune proprietà della fluorescenza e della fotoionizzazione e, soprattutto, di risolvere l’enigma dell’effetto fotoelettrico. Da questo lavoro di E. trasse origine il lungo e spesso vivace dibattito attorno al cosiddetto problema del dualismo onda-corpuscolo che trovò soluzione solo nel 1927, con la formulazione della meccanica quantistica.
Non meno radicale e privo di un’apparente necessità teorica è l’approccio ai problemi dell’elettrodinamica seguito da E. nella terza memoria, Zur Elektrodynamik bewegter Körper. Sembrava infatti che H.A. Lorentz fosse riuscito, con la teoria degli stati corrispondenti, a spiegare esaurientemente l’impossibilità di ricavare da alcuni effetti elettromagnetici un’evidenza sperimentale del previsto moto della Terra rispetto al sistema di riferimento assoluto, identificato con l’etere. L’attenzione di E. veniva attratta dai paradossi che sorgono in alcuni esperimenti mentali dall’applicazione delle concezioni di Maxwell e Lorentz e da asimmetrie fisicamente immotivate, da cui esse sarebbero viziate. Per es., a giudizio di E., non esistono ragioni plausibili perché, nello studio del fenomeno di induzione elettromagnetica, la teoria classica debba ricorrere a due forme di spiegazione differenti, a seconda che si consideri in moto il magnete oppure il circuito. Alla radice di questo tipo di difficoltà, e degli stessi tentativi lorentziani di introdurre ipotesi ad hoc e aggiustamenti formali per salvare il concetto di etere, E. vede il permanere di un preconcetto: l’idea newtoniana di uno spazio e di un tempo assoluti. Si trattava dunque di estendere il concetto meccanico di relatività alle equazioni del campo elettromagnetico e di riformulare i concetti della cinematica in modo da renderli coerenti con le nuove conoscenze fisiche. La memoria di E. si apre con l’enunciazione di due postulati: il principio di relatività, secondo il quale «le leggi dell’elettrodinamica e dell’ottica sono valide in tutti i sistemi di riferimento [inerziali], per i quali sono soddisfatte le leggi della meccanica»; e la costanza della velocità della luce nello spazio vuoto, indipendentemente dallo stato di moto della sorgente. Orbene, si dimostra facilmente che queste due asserzioni non possono essere contemporaneamente vere, qualora si assuma che le trasformazioni delle coordinate spazio-tempo tra due sistemi di riferimento in moto inerziale siano quelle di Galileo: i postulati einsteiniani sono, quindi, incompatibili con l’immagine del mondo della fisica classica. E. giunge a definire il nuovo sistema di trasformazione delle coordinate, attraverso semplici ragionamenti ‘operativi’, che tengono conto dell’esistenza di un limite, fissato dalla velocità della luce, per il tempo necessario a trasferire informazione tra due osservatori inerziali. Le trasformazioni che rendono invarianti le leggi dell’elettrodinamica sono le stesse trovate anni prima da Lorentz in modo puramente formale; ma il risultato di E. comporta, tra l’altro, che non abbia più senso presupporre l’esistenza di una scala temporale assoluta e che l’idea di simultaneità di due eventi distanti dipenda dallo stato di moto dell’osservatore. Nonostante la sua portata concettuale ed epistemologica, fortemente innovativa, a differenza del precedente lavoro sulla radiazione, la teoria della relatività speciale non conteneva implicazioni sperimentali immediate che permettessero di dimostrare la sua superiorità rispetto agli schemi interpretativi rivali. Ciò spiega, almeno in parte, lo scetticismo e l’ostilità con cui vasti settori della comunità scientifica accolsero le sue idee. Questo non gli impedì, tuttavia, di sviluppare alcune conseguenze di rilievo della nuova teoria e di dichiarare nell’articolo del 1907, Über das Relativitätsprinzip und die aus demselben gezogenen Folgerungen, l’equivalenza concettuale tra massa ed energia, espressa dalla famosa equazione E = mc2. Gli anni tra il 1907 e il 1916 videro E. impegnato nel tentativo di generalizzare le sue concezioni relativistiche, delle quali ben presto colse la portata universale e i limiti dell’originaria formulazione, laddove si tende a privilegiare, a suo avviso arbitrariamente, il ruolo dei riferimenti inerziali. L’obiettivo divenne allora quello di estendere la teoria fino a includere i fenomeni gravitazionali. Nella grande memoria sulla relatività generale del 1916, Grundlagen der allgemeinen Relativitätstheorie, E. spiegava il fenomeno della precessione del perielio di Mercurio e prevedeva, tra l’altro, l’esistenza di effetti della gravitazione sulla traiettoria dei raggi luminosi. Il formidabile impegno richiesto per condurre a termine il suo programma relativistico non gli impedì di contribuire allo sviluppo della fisica quantistica. Basti citare i suoi lavori sul calore specifico dei solidi e l’importante memoria, pubblicata nel 1917, Zur Quantentheorie der Strahlung, dove, sulla base di semplici ipotesi probabilistiche circa i processi di emissione e di assorbimento della radiazione da parte dell’atomo, riusciva a derivare la legge di Planck per l’energia del corpo nero. Così come sono degni di particolare menzione sia il ruolo svolto da E. nella elaborazione della meccanica ondulatoria di de Broglie e di Schrödinger, sia la formulazione di una nuova statistica valida per un gas di quanti di luce, che prese il nome di statistica di Bose-Einstein. A partire dal 1927, E. assunse una posizione critica, che divenne poi di aperto dissenso, nei confronti degli esiti indeterministici della meccanica quantistica, rifiutando l’interpretazione di M. Born, secondo la quale il formalismo della teoria ammetterebbe unicamente previsioni di carattere probabilistico. A N. Bohr e alla cosiddetta scuola di Copenaghen rimproverava di aver rinunciato prematuramente alla difesa di una dimensione realistica della fisica. Nel 1935 E., insieme a B. Podolski e N. Rosen, ritenne di aver individuato implicazioni paradossali nel formalismo e negli apparati concettuali della nuova meccanica, giustificabili, a suo avviso, solo ammettendone l’incompletezza, ovvero l’esistenza di elementi della realtà non rappresentati nella teoria. Negli ultimi anni della sua vita, lavorò intensamente, e senza successo, alla costruzione di una teoria unitaria dei campi che fosse rigorosamente causale, convinto «della possibilità di un modello della realtà, vale a dire di una teoria che rappresentasse le cose stesse e non soltanto la probabilità della loro esistenza».
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