GANDINO, Alberto
Nato a Crema (e non a Cremona, come ancora si legge in qualche moderna scheda biografica), presumibilmente tra il 1240 e il 1250, fu il maggiore dei "pratici" della sua età, contribuendo alla scienza giuridica a cavaliere del Trecento con importanti raccolte di quaestiones criminalistiche e di diritto statutario.
Il Diplovatazio, agli inizi del sec. XVI, lo indicava sbrigativamente come: "natione Lombardus, patria Cremonensis" ponendone la fioritura al tempo di Dino del Mugello (Dino Rossoni), Francesco d'Accorso e Iacopo Dell'Arena riassumendone, altrettanto succintamente, la carriera di pratico "Bononie, Senis et Florentie et alibi", sulla base delle scarne notizie autobiografiche sparse nell'opera a cui il G. deve principalmente la sua fama, il Libellus super maleficiis et causis criminalibus et statutis loquentibus de maleficiis et questionibus dependentibus a statutis, raccolta di quaestiones meglio nota col titolo di Opus maleficiorum o De maleficiis (l'errore "da Cremona" si legge nell'incipit tramandato da alcuni manoscritti). Appunto ripetendo l'incipit dell'opera ("cum assiderem Perusii") il Diplovatazio poteva, nel seguito della sua scheda, precisare l'origine della raccolta criminalistica nell'assessorato perugino del G.: "Et cum assideret Perusii, inchoavit pulchrum opus in officiis maleficiorum, quod postea ad utilitatem sui et advocatorum perfecit".
La sua attività, come assessore ad maleficia e come podestà, è attestata da una folta documentazione, censita, regestata e pubblicata da H. Kantorowicz. La prima testimonianza sicura è quella lucchese del 13 sett. 1281, relativa a un suo intervento in un giudizio civile, riguardante la divisione di un fondo rustico (Kantorowicz, 1907, p. 373). Ampiamente attestata nei Memorialia del Comune bolognese è poi, per il primo semestre del 1284, la sua attività come assessore del podestà Giovanni Palastrelli da Piacenza; è inoltre ripetutamente menzionato, tra il luglio e il novembre dello stesso anno, nel liber absolutionum del nuovo podestà di Bologna, Tebaldo Brusati da Brescia (ibid., p. 381).
Nel secondo semestre del 1286 e nel primo dell'anno successivo il G. proseguiva la sua attività di giudice a Perugia, dove fungeva da assessore del podestà Pietro Confalonieri da Brescia; l'ultimo documento perugino è del 14 marzo 1287 (ibid., pp. 381, 384). La carriera del G. doveva poi svolgersi a Firenze, nel secondo semestre del 1288 (come collaterale del podestà Antonio Fissiraga da Lodi) e, sempre come giudice ad maleficia accanto al Fissiraga, a Bologna per il primo semestre del 1289.
A quest'esperienza si riferisce il più alto numero di documenti (un centinaio circa, ibid., pp. 385-397) sull'attività di giusdicente del Gandino. Si tratta di una documentazione che getta una luce assai viva sulla vita sociale e politica nella Bologna dell'ultimo quarto del sec. XIII, con le sue tensioni e le lotte di parte, sfocianti non di rado nel delitto politico, e con la sua turbolenta presenza studentesca. Proprio al G. toccò infatti di condurre, tra il 13 e il 31 marzo del 1289, l'inquisizione contro numerosi scolari giuristi, per lo più provenzali, borgognoni e lorenesi, che avevano assalito quattro studenti tedeschi, uccidendone uno di nome Anselmo. L'episodio è celebre anche per l'ordine, dato dal G., di citare in giudizio gli inquisiti gridandone il nome "publica et alta voce, sono tube premisso" davanti alle loro abitazioni e "ante scholas" cioè davanti alle case in cui tenevano pubblica lezione i professori legisti e canonisti dello Studio, segnatamente Francesco d'Accorso, Martino Sillimani, Federico Delle Scale, Marsilio Manticelli, Uguccione de Urzellis e Guido "de Barxio", che il Kantorowicz (1907, pp. 290, 393) esitava a identificare senza avanzare dubbi col decretista Guido da Baisio.
Un'ulteriore e intensa attività del G. a Bologna è registrata dalla documentazione superstite per il periodo che va dal 5 ott. 1294 al 1° apr. 1295, data nella quale il G., come "iudex et assessor et vicarius" del capitano del Popolo "Milletus de Griffis", consegnava al sacrestano di S. Francesco gli atti del giudizio di sindacato del capitano medesimo, votato nel Consiglio cittadino in seguito al tumulto del mese precedente, provocato dalla corporazione dei calzolai contro la magistratura cittadina e lo stesso assessore (ibid., pp. 270-277, 279 s., 401). Non sappiamo se l'episodio sia da collegare con l'allontanamento del G. da Bologna; certo è che cinque anni più tardi lo si ritrova a Siena, come assessore del podestà bergamasco Totelmanno dei Totelmanni per il primo semestre del 1299 (il giuramento d'ufficio, nel quale il G. figura come primo nel seguito del podestà, porta la data dell'8 dic. 1298; ibid., pp. 193 s., 401).
L'ultima documentazione registrata dal Kantorowicz è quella relativa alla podesteria del G. in Fermo, tra il 12 maggio e il 12 luglio del 1305 (ibid., p. 404) che sarebbe seguita a un suo ulteriore soggiorno perugino, dal 1° maggio 1300 al 1° maggio 1301 (ibid.), e infine quella che riguarda un suo ufficio a Firenze, nel secondo semestre del 1310, come vicario del podestà padovano Pantaleone Buzzacarini (il sindacato del podestà e del suo seguito porta la data del 1° genn. 1311: Tractatus de maleficiis, ed. Kantorowicz, p. 435). Dopo questa data è dunque da porre la morte del Gandino.
Stando alla testimonianza contenuta nel suo Tractatus ("prefatum libellum reformare, corrigere et supplere previdi ad utilitatem et eruditionem Albicini et Iacobini, filiorum meorum […]" (ibid., pp. 1 s.) il G. aveva avuto due figli maschi studenti in diritto civile a Padova.
Al G. si deve, per tradizionale riconoscimento, il primo monumento processual-penalistico prodotto dalla scienza giuridica di ambiente italiano nell'ultimo quarto del sec. XIII. E. Cortese (1995, pp. 274 s.) ne ha collocato la genesi nel "clima bellicoso instaurato nelle città negli ultimi decenni del Duecento", clima che "non poteva fare a meno di stingere sul mondo dei tribunali e dei giuristi". Proprio in anni così turbolenti, stando al Cortese, videro la luce "importanti trattati di diritto e procedura penale: il penale è infatti il campo più frequentato dai giuristi nei periodi di sconvolgimenti. Né stupisce che si trattasse di opere che non nascevano nella scuola e non le venivano specialmente destinate - erano infatti richieste dalla prassi tumultuosa dei tempi, e si direbbe che ne erano impregnate - ma furono dovute alla penna di giudici; giudici comunque dotti i quali, se si preoccupavano delle esigenze forensi, attingevano però a piene mani dalla scienza accademica, e si rifornivano abbondantemente soprattutto di quaestiones disputatae confezionate nella scuola".
Il G. era effettivamente assessore a Perugia quando, nel 1286-87, approntò il suo De maleficiis in una prima stesura, che il Kantorowicz volle identificare "in una redazione che in due o tre manoscritti viene più o meno esplicitamente assegnata a Guido da Suzzara" (Cortese, 1995, p. 275 n. 37). Se incerta è la paternità di tale supposta prima stesura, contenente comunque quaestiones ex facto emergentes che furono effettivamente disputate nella scuola di Guido da Suzzara, certo è invece che il G. andò ampliando e aggiornando la sua raccolta proprio sullo scorcio del secolo e nelle sue peregrinazioni fra Bologna, Siena e Perugia. In realtà, se si eccettua una prima e breve sezione proemiale, "il De maleficiis non è altro che una collana di quaestiones tratte principalmente da quelle discusse negli auditorî di Odofredo [Denari] e di Guido da Suzzara, alle quali si aggiungono, nelle ultime redazioni, parecchi pezzi di Dino Del Mugello" (ibid., p. 276). Ne dava conto lo stesso G. nell'apertura della sua opera e prima di formulare, a mo' di sommario, la tavola delle materie trattate, sottolineando come: "Cum assiderem Perusii, ego Albertus de Gandino de Crema composui illum parvum libellum, qui quedam de ordine maleficiorum et plurimas questiones ad maleficia pertinentes continet et allegat; eumque sumpsi ex lectura domini Odofredi et ex scriptis et rationibus domini Guidonis de Suzaria et aliorum […]. Circa cuius libelli correctionem et continentiam talem intendo ordinem observare: ante omnia premittendo quod de maleficiis cognoscitur quinque modis, videlicet per accusationem, per denuntiationem, per inquisitionem et exceptionem, et quando crimen est notorium" (Tractatus de maleficiis, ed. Kantorowicz, pp. 1 s.). Stando sempre al Cortese, essendo il De maleficiis una collana, "in quanto tale elastica e aperta all'inserimento di questioni nuove e alla sostituzione di questioni vecchie", esso fu anche oggetto di interventi con relative rielaborazioni spurie, "di cui tre confluirono nelle prime edizioni incunabole e cinquecentesche" (Cortese, 1995, p. 276).
Complessa, e necessariamente velata di incertezza, è dunque la genesi dell'opera, e caratterizzata da una struttura altrettanto aperta ed esposta agli interventi e agli apporti della tradizione. Non è certamente casuale che il G. usi, nel breve proemio del Libellus, della formula "reformare, corrigere et supplere", alludendo così esplicitamente al complesso delle tecniche proprie dell'interpretatio e che si applicano più a una consolidazione che a un puro testo di dottrina. La stessa espressione "talem intendo ordinem observare" rinvia, e non solo per un gioco allusivo, all'ordo iudiciorum, dunque a un ordine dispositivo che ripercorre necessariamente l'ordine dei giudizi. Di qui la doppia natura del Libellus, la connessione che esso rivela fra gli intenti scientifico-speculativi e pratico-professionali; doppia natura che lo strumento dialettico e problematico della quaestio sottolineava ed esaltava.
Il testo del De maleficiis si articola dunque, nella sua redazione compiuta, nelle seguenti quaestiones, poste sotto titoli allusivi di volta in volta a quelli della tradizione romanistica così come a quelli delle più abituali rubriche contenute nei libri degli statuti criminali: dell'accusa; del potere di accusare; della formalizzazione dell'accusa; dell'ufficio degli avvocati nel procedimento accusatorio; della denuncia; del procedimento inquisitorio; dell'eccezione; della notorietà del delitto; della fama e dell'infamia; delle cause dell'infamia; della prova dell'infamia; degli effetti dell'infamia; della presunzione e degli indizi sufficienti a procedere alla tortura; della presunzione e degli indizi sufficienti a procedere alla condanna; della pubblica voce; della cognizione dei delitti notori; della citazione; dell'ufficio del procuratore; del procedimento in contumacia e dei banditi; della tortura giudiziaria; della difesa; delle transazioni; delle pene in genere, delle percosse e delle ingiurie; dell'omicidio; del furto, della grassazione e del favoreggiamento dei delinquenti; del falso; del potere di punire; dell'entità della pena; dei beni dei delinquenti; di diverse questioni extravaganti occorrenti nei giudizi; del divieto di esportare merci proibite; degli statuti e della loro osservanza.
L'aspetto formularistico, tipico in certo modo della precedente produzione processual-penalistica, non viene dunque meno del tutto nella complessa raccolta del G., ma si può forse dire, rovesciando un giudizio del Cortese su Guido da Suzzara, che la tecnica forense venga forzata spesso verso l'esegesi scolastica. Dalla scolastica proviene al G. certamente la disposizione a utilizzare la quaestio come strumento principe "per ragionar di fattispecie concrete in termini di scienza" (Cortese, 1982, p. 123). E dalla scolastica provengono al G. gli argomenti della dottrina civilistica e canonistica.
A questo proposito il Cortese ha opportunamente ricordato che il ricorso alle fattispecie de facto emergentes - ossia prese a prestito dalla prassi forense - nelle quaestiones e nelle loro raccolte non comportò una immediata irruzione del diritto canonico nell'argomentazione civilistica, e che proprio nella ricca e ordinata raccolta penalistica del G., se i canoni non sono assenti, "non si può dire che pesino un gran che" (Cortese, 1992, p. 60). Spiccano certamente le allegazioni (non frequenti) della glossa al Decretum e (queste più frequenti) al Liber Extra, e, naturalmente, di Innocenzo IV e del contemporaneo Speculum iudiciale di Guillaume Durand, ma sono poco più che episodi rispetto alla costante presenza della glossa accursiana e dei dottori civilisti come Azzone, Odofredo, Guido da Suzzara, Iacopo Dell'Arena, Dino del Mugello, e ancora Riccardo Malombra, Tommaso di Piperata, Lambertino Ramponi, Martino Del Cassero (Martino da Fano), Francesco d'Accorso e Federico Delle Scale.
A queste autorità si accompagnano quelle "extragiuridiche", corredo usuale di una letteratura che si compiaceva ancora di richiami letterari e filosofici, ma senza andare oltre un modesto armamentario di dicta dal sapore quasi proverbiale e pressoché sempre tolti di peso dai dottori più frequentati. Il solo passaggio di un certo interesse sembra quello in cui, tanto nella rubrica De praesumptionibus et indiciis dubitatis, quibus proceditur ad tormenta (§ 2, ed. Kantorowicz, p. 76), quanto nella rubrica De quaestionibus et tormentis (§ 14, ibid., p. 160), si legge il "dictum Philosophi: qualis est quisque, talium consortium delectatur"; il Kantorowicz avanzò infatti, con un esitante punto interrogativo, l'ipotesi di un richiamo ad Aristotele "an unbekannten Ort" (ibid., p. 76 n. 16). Si tratta in realtà di un luogo dell'Ethica ad Nicomachum (IX, 12, 1172a) destinato a passare in adagio e a entrare, come tale, nella grande silloge erasmiana.
Di molto maggior peso, com'è ovvio, è nel Libellus del G., la memoria dell'esperienza di pratico, tanto nella turbolenta Bologna e nella Siena dei primi anni del "buon governo" dei Nove, quanto nella Firenze della giovinezza di Dante. All'esperienza fiorentina si deve infatti, in massima parte, la ricca casistica esposta nell'ultima rubrica dell'opera, De multis quaestionibus maleficiorum provenientibus a statutis. Si tratta di una chiusa dalla quale emerge nettamente la destinazione del De maleficiis ai tribunali (come bene ha notato il Cortese, 1982, in part. p. 127).
Emblematico di tale finalità è uno dei titoli più importanti del De maleficiis, quello in cui è disposta la materia dei tormenti: si tratta infatti, anche in questo caso, di una raccolta di quaestiones che doveva circolare già autonomamente e che, nota appunto come tractatus de tormentis, "compare con varianti sotto molti nomi diversi e viene incorporata anche in altri manuali penalistici" (Cortese, 1995, p. 277). Non a caso, proprio riferendosi al G. e al supposto "primato" della sua compilazione criminalistica, in tempi assai recenti D. Maffei ha affermato che "la trattatistica del diritto penale fra Due e Trecento è ancora tutta da ordinare" e che "il solo Alberto Gandino, il pater practicae, ha ricevuto una sistemazione adeguata nel giro intricato della cronologia della sua attività e degli ambienti in cui operò" (Maffei, 1979, p. 1). A parere del Maffei, il Kantorowicz nel compiere la sua vasta disamina sul G. e la sua opera non si è però soffermato in modo più incisivo nell'illustrare "i rapporti che necessariamente dovettero intercorrere fra la sua opera e la giurisprudenza contemporanea e posteriore. La mancata considerazione critica di tali relazioni, e delle reciproche influenze e dipendenze, ha comportato un duplice ordine di conseguenze: il relativo isolamento dell'opera del G., l'accettazione piena dei dati della tradizione con riguardo ad altri noti trattati e trattatisti" (ibid.).
In particolare il Maffei ha notato che abitualmente nella trattatistica di diritto penale del Trecento campeggiano due nomi, "quelli di Iacopo di Belviso e di Bonifacio Vitalini", e che se l'estremo declinare del Duecento avrebbe visto sostanzialmente conchiusa la fatica del G., "non dopo il 1308 sarebbe stata redatta la Practica del Belviso", e poco avanti la metà di quello stesso Trecento "il Vitalini avrebbe dato fuori la sua opera" (ibid., p. 2). Contestando decisamente tale successione cronologica, il Maffei ha potuto smentire vivacemente la paternità tradizionalmente attribuita a queste opere, e ricondurre, da una parte, il testo dello pseudo-Vitalini "ad un'opera composta verosimilmente negli anni di quella del Gandino", l'autore della quale "va sicuramente identificato con il giurisperito mantovano Bonifacio Antelmi", mosso "dalle stesse esigenze e dallo stesso ambiente del giudice di Crema". D'altra parte anche la Practica pseudo-belvisiana non solo è posteriore "al termine ante quem del 1308, tradizionalmente accolto" ma è ormai certo per le ricerche del Maffei che la sua attribuzione "ha luogo in quella grande epoca delle falsificazioni editoriali che fu il primo Cinquecento" (ibid., p. 3).
In ogni modo il ruolo e la collocazione del G. alle stesse origini della trattatistica penale risultano con ciò posti nuovamente in discussione, al di là di una facile e pacificante prospettiva che continua a guardare a lui come all'iniziatore e al capostipite di una generazione tutta intiera di trattatisti della pratica criminale e alla sua opera come alla prima "in cui il diritto e il processo penale siano trattati come autonoma disciplina" (così l'anonimo compilatore della breve voce nel Novissimo Digesto italiano). Il Cortese ha pertanto giudicato che proprio nell'opera del G. "si scorge uno dei punti d'arrivo esemplari d'un secolo di svolgimenti delle summae quaestionum", ricordando, con parole del Bellomo, come i più imponenti dei cosiddetti trattati dello scorcio del sec. XIII "consistano in realtà di raccolte di quaestiones di diversi autori, coordinate tra loro e disposte secondo una piano sistematico" (Cortese, 1992, p. 69).
Ciò spiega appunto il gran numero di redazioni successive del De maleficiis del G.: "almeno tre di mano dell'autore tra il 1286-87 e il 1301" (ibid., p. 70). Nella difficoltà estrema di risalire a una sicura paternità delle redazioni originarie, sempre il Cortese ha detto una parola definitiva su una questione di metodo nell'analisi su di una fonte come quella gandiniana, dove confluiscono complesse e disparate raccolte di quaestiones, come dimostra la presenza nella sua opera di "un'altra collana di quaestiones dedicata al tema specifico della tortura: è il famoso De tormentis ch'ebbe circolazione a sé ed è a sua volta composto di tante unità che risalgono ad autori diversi […]. La sola prima parte, svolta con tono didattico, conserva una sufficiente stabilità del testo. Nella seconda la natura raccogliticcia è evidente; si sa poi che talune quaestiones ebbero una storia indipendente; comunque se ne eliminarono e aggiunsero parecchie nelle varie scuole e nella prassi. L'ordine stesso in cui si susseguivano poté essere mutato a seconda dei gusti: sicché appare naturale che il De tormentis abbia costituito un inutile rompicapo per la storiografia che si è ostinata a ricercarne una paternità illusoria" (ibid., p. 71).
Non stupisce dunque, per usare ancora parole del Cortese, che sul diritto penale si sia costruito, tra il tardo Duecento e il primo Trecento, "il maggior ponte gettato tra la prassi statutaria e la scienza" (ibid.). E occorrerà naturalmente riconsiderare, con ciò stesso, l'idea a volte affacciata, che i primitivi passi della scienza penal-processualistica - pur rivelando un'accentuata sensibilità della scuola per la vita forense e rispondendo, nel corso del sec. XII e nei primi decenni del Duecento, a una domanda venuta dai tribunali con una folta produzione di trattatelli de actionibus, di arbores actionum e di ordines iudiciorum per ricondurre i riti giudiziari correnti entro le forme del diritto giustinianeo - consistano di una pura esegesi romanistica.
L'opera del G. si situa insomma, come prodotto conclusivo e punto d'arrivo più che di partenza, in un solco già lungamente tracciato, in cui forti segni "della tendenza a riunificare il ceto dei giuristi" (ibid., p. 73), a riavvicinare il teorico al pratico, si accompagnano all'intensificazione dello sviluppo del procedimento inquisitorio, alla diffusione di istituti come il bando e a un accentuato interesse del giurista dotto verso il diritto criminale.
Da questo punto di vista si può ben dire che abbia colto nel segno il Kantorowicz nell'additare l'esemplarità della vita e dell'opera del G., nelle quali si compendiano tutti i motivi e i temi salienti della "scolastica" del diritto penale. Ed è giudizio che può estendersi anche alla raccolta, curata sempre dal G. intorno al 1284, delle Quaestiones statutorum (edita da A. Solmi in Bibliotheca iuridica Medi Aevii, a cura di A. Gaudenzi, Bononiae 1903, pp. 157-214) dove "la materia della validità degli statuti, del loro fondamento giuridico, e tutte le altre questioni giuridiche che dalla materia statutaria solevano più frequentemente nascere in pratica, viene per la prima volta sistemata e approfondita" (Calasso, 1954, p. 546). Il filtro attraverso il quale, con il G., passavano le concezioni dei grandi maestri della sua età era così destinato ad aprire la strada alle grandi trattazioni del Tre e del Quattrocento, nell'uno e nell'altro campo, da Alberico da Rosate ad Angelo Gambiglioni.
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