Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Alberto Giacometti, svizzero di nascita ma parigino d’elezione e di formazione, è tra gli artisti più rappresentativi della scultura del Novecento. Partendo dall’esperienza di Rodin, filtrata da Émile Bourdelle, la sua scultura evolve attraverso il contatto con l’arte primitiva e oceanica. Dopo una breve esperienza surrealista, raggiunge la maturità espressiva alla fine degli anni Quaranta con le sue celebri figure filiformi, fragilissime icone della modernità.
Gli inizi
Alberto Giacometti, figlio di un pittore di paesaggi alpini, inizia a scolpire e dipingere in giovanissima età. Fra i primi soggetti vi è il fratello Diego, presenza costante nella vita e nella produzione dell’artista.
Nel 1925 si trasferisce a Parigi, da quel momento sua città d’elezione e di formazione. È qui infatti che inizia a frequentare Costantin Brancusi e Jacques Lipchitz, grazie ai quali entra in contatto con l’arte africana e oceanica, la cui influenza si percepisce in alcuni bronzi come Donna cucchiaio o Uomo e donna (Zurigo, Kunsthaus), entrambi del 1926. In Donna cucchiaio gli aspetti del femminile vengono sintetizzati attraverso forme astratte, talvolta d’ispirazione esotica. Il ventre della donna ha la forma di un cucchiaio tipico della Costa d’Avorio, che l’artista aveva potuto osservare al Musée de l’Homme di Parigi. Il grembo è il perno attorno a cui ruota la composizione e, in quanto simbolo di fertilità, è volutamente sovradimensionato. Giacometti infrange la proporzione anatomica: la testa è minuscola, stilizzata e mancano le braccia. L’assenza degli arti accentua ulteriormente la sproporzione del ventre, conferendo all’opera un’oscillazione vitale tra le rotondità naturali della donna e le spigolosità degli elementi geometrici. In Donna cucchiaio la lezione di Brancusi è evidente sia nella lucidatura del bronzo, che permette alla luce di scivolare sui volumi, sia nelle gambe scolpite in un unico blocco che ritroviamo nei piedistalli utilizzati dallo scultore rumeno sin dal primo decennio del secolo.
Dagli anni Trenta Giacometti partecipa alla stagione surrealista di cui sviluppa soprattutto i temi della violenza e del conflitto sessuale. Donna sgozzata, scultura che lo accredita come artista surrealista, è tra le opere più drammatiche esposte nel 1932 alla galleria parigina di Pierre Colle. La figura è smembrata in ogni sua parte, il costato è aperto, le gambe divaricate e il climax è raggiunto nei dettagli, quali la ferita sul collo e la bocca spalancata. Con questo bronzo Giacometti riprende la tematica del rapporto conflittuale con la donna e con la morte, già oggetto di interventi dello scultore sulle riviste surrealiste parigine. La figura femminile è trasformata in forma di insetto o di crostaceo. Lo stesso Giacometti alcuni anni più tardi riconoscerà: “Qualcuno della cui presenza non mi ero ancora accorto schiacciò il ragno con un lungo bastone o una pala, con due colpi violenti e io potevo sentire”. Donna sgozzata si impone come presenza forte: per quanto deformata, la figura è concreta, mostra i segni di una violenza e giace al suolo senza la mediazione di alcun supporto.
La figura
L’orrore della storia è sotto gli occhi di Giacometti; la guerra lo costringe ad abbandonare Parigi e quando vi fa ritorno nel 1945 la sua scultura affronta un periodo di profondi mutamenti. In Il naso, Testa su stelo (Zurigo, Kunsthaus) e L’uomo che cammina (Zurigo, Kunsthaus) – sculture realizzate nel 1947 – Giacometti torna a un’attenta osservazione della figura seguita da una modellazione pastosa che caratterizzerà la sua opera matura. Il naso definisce bene questo momento di passaggio. È una scultura polimaterica che dipende ancora una volta da una fonte visiva primitiva: la deformazione iperbolica del naso infatti occhieggia una maschera mortuaria della Nuova Britannia (Nuova Guinea), connotata da un’estroflessione della bocca. Resta la gabbia che ha caratterizzato alcune fra le più importanti opere del periodo surrealista ma in questo caso la struttura in metallo ha solamente il valore del limite fisico da violare. Il naso infatti evade dalla gabbia con una dirompenza tale da imporsi come una forza vitale. Questo gesso è strettamente legato a Testa su stelo che, come ha dimostrato il critico Jean Clair, recupera l’immagine della maschera mortuaria per alludere all’esperienza traumatica della morte cui l’autore assiste nella sua stessa abitazione nel 1946. Giacometti al contempo è attento all’espressività del volto, evidente nella smorfia beffarda della bocca, e inizia a plasmare il gesso per tocchi, così come modellerà la creta delle Donne di Venezia, serie di sculture con cui si presenta alla Biennale di Venezia del 1956.
Giacometti lavora alle nove sculture dal gennaio al maggio del 1956 utilizzando un unico scheletro sul quale, sempre nella stessa creta, plasma le figure fino a ottenere la forma voluta; quindi chiede al fratello Diego di farne un calco in gesso per la fusione in bronzo. Ritenendo che il processo creativo appartenga alla materia e sia indipendente dalle intenzioni dell’artista, Giacometti pubblica uno scritto intitolato “Delle mie sculture posso parlare solo indirettamente”. La reiterazione nella rappresentazione del soggetto porta a una frantumazione della forma, metafora esplicita della perdita d’identità dell’individuo. Jean Genet, amico, scrittore e biografo di Giacometti visitando l’atelier dell’artista, ricorda come Donne di Venezia procurino una strana sensazione, “non finiscono mai di avvicinarsi e di indietreggiare, in un’immobilità sovrana”. Le figure filiformi di Giacometti sembrano la traduzione formale di temi affrontati dalla coeva letteratura esistenzialista, come l’inacessibilità degli oggetti e l’incomunicabilità tra gli individui. Non a caso il catalogo della sua prima mostra newyorchese, nella galleria di Pierre Matisse, ha una presentazione di Jean-Paul Sartre.
Materia e pittura
Dopo il 1956 inizia una terza e ultima fase della carriera di Giacometti che ripropone sculture monumentali. Nel 1959 l’architetto Gordon Bunshaft gli commissiona un’opera di grandi dimensioni da installare di fronte al grattacielo newyorkese della Chase Manhattan Bank. Il monumento non verrà mai realizzato ma nel progetto di Giacometti doveva rappresentare la summa di tutte le sue ricerche: prevedeva la presenza di figure in cammino, di una donna stante e di una testa posta sopra uno zoccolo.
L’ultimo Giacometti si dedica con molta più energia alla pittura, con poche variazioni nel corso degli anni. Il tema del ritratto è dominante: soggetti ricorrenti sono i genitori, in particolare l’amata madre, ancora il fratello Diego, la moglie Annette, gli amici e l’ultima sua modella, la giovanissima Caroline, conosciuta nel 1960 in un bar di Montparnasse. Giacometti colloca la figura frontalmente, in un unico piano, in assenza di profondità. La figura è costruita attraverso un tratteggio incisivo e un rapporto costante con lo spazio, dove il vuoto diviene presenza. Il corpo della ragazza appare di una materia differente dal volto, cromaticamente distinto. Gli incarnati vengono resi con colori freddi, innaturali. Il punto per Giacometti non è restituire la verosimiglianza della sua modella ma piuttosto rappresentarne l’essenza e quel sentimento di precarietà che l’artista avverte attorno a sé. Ricorda Jean Genet come “ai volti dipinti da Giacometti sembra non resti più un solo secondo da vivere, né un movimento da fare”. Alberto Giacometti muore a Parigi nel gennaio del 1966, nello stesso anno la Kunsthaus di Zurigo inaugura una fondazione a suo nome.