ALBINAGGIO (fr. droit d'aubaine; sp. derecho de forasteros; ted. Fremdlingsrecht; ingl. escheatage)
Nell'età barbarica lo straniero non godeva protezione dalle leggi, eccettuato il caso ch'egli avesse ottenuta la protezione del re. In questo caso, lo straniero conservava l'uso della propria legge d'origine e godeva piena capacità giuridica. Egli però vedeva limitata la sua successione, giacché soltanto i suoi discendenti potevano ereditare i suoi beni, e, in difetto di questi, alla sua morte, i beni cadevano in possesso della corte regia, cioè del fisco. Si forma così a favore del re il cosiddetto diritto d'albinaggio (droit d'aubaine), che grava sui beni degli stranieri chiamati aubains (probabilmente da un *alibanus derivato da alibi); tale diritto passò poi ai signori feudal1, e più tardi ancora ai comuni, ma esso ebbe un'estensione che lo rese assai più gravoso, giacché taluni signori e comuni non vollero riconoscere neppure ai figli il diritto all'eredità paterna. Così, in Francia, alcune consuetudini feudali attribuiscono al signore feudale metà della eredità dell'albinus, se questi ha figli, mentre l'eredità gli deviene per intero, se non ne ha. In Italia, in generale, il diritto del fisco si esercita soltanto in mancanza di discendenti diretti.
La Chiesa reagì contro il diritto di albinaggio, escludendolo dai proprî territorî; Federico II, poi, emanò nel 1220 la celebre costituzione Omnes peregrini, nella quale stabiliva che i beni degli stranieri dovessero seguire le regole comuni della successione, e si facesse luogo ad una successione fiscale soltanto ove non ci fossero eredi. Tale costituzione fu inserita dai giureconsulti della scuola bolognese di diritto nel codice giustinianeo con l'intenzione che l'applicazione ne divenisse universale. Ma la costituzione non sortì l'effetto desiderato e il diritto di albinaggio continuò a sussistere, con maggiore o minore estensione secondo i tempi e i luoghi. Nei comuni italiani esso è moderato dai trattati frequentissimi, conclusi tra l'uno e l'altro di questi, nei quali si assicura benevolo trattamento ai rispettivi sudditi. Lo stesso veniva stabilito nei trattati conclusi con potenze straniere: così nel 1494 Carlo VIII concedeva ai Fiorentini dimoranti nel regno di Francia di disporre dei loro beni sia per atti fra vivi, sia con atti d'ultima volontà. In Francia, invece, il diritto d'albinaggio si svolge ampiamente e si formano le regole, che l'albino non può testare, che l'albino non può succedere. Così gli si negavano il diritto di fare testamento e quello di ricevere i beni dei quali altri avesse disposto a suo favore.
Questo diritto così esteso suscitò reazioni e proteste. Nella Francia meridionale, gli stati di Linguadoca ottennero dal re la sua abolizione già nel 1484, e anche nel rimanente del regno esso fu molto limitato sia dai trattati, sia dai privilegi accordati dal re a stranieri esercitanti determinate professioni, arti, ecc. In Italia il diritto d'albinaggio fu soppresso da alcuni principi per certe località, allo scopo di favorire la venuta degli stranieri e l'estensione del commercio: così, ad es., fecero i duchi di Savoia per gli stranieri abitanti a Torino, sino dal 1632. Altre limitazioni avvennero per trattato, come quello celebrato nel 1762 tra il re di Sardegna e l'imperatrice Maria Teresa per i sudditi dei rispettivi stati. Una tendenza assai diffusa negli statuti italiani dei secoli XIV e XV è quella della reciprocità del trattamento degli stranieri: si accorda, cioè, agli stranieri dimoranti in uno stato lo stesso trattamento che lo stato originario accorda ai connazionali ivi abitanti. Questo principio fu accolto poi nel codice civile napoleonico, che in questo fu seguito da gran parte dei codici della restaurazione. Il nostro Codice civile pareggiò invece gli stranieri ai nazionali (art. 3), ritornando ai principî della Costituente francese, che soppresse il diritto d'albinaggio col decreto 6-18 agosto 1790. Lo stesso, del resto, era avvenuto in Francia con la legge 18 luglio 1819.
Bibl.: A. Pertile, Storia d. dir. priv., 2ª ed., Torino 1892-902, III, p. 187 seg.; P. Viollet, Précis de l'hist. du droit français, I, Parigi 1895, p. 311 seg.