VOLPI, Albino. –
Nacque a Lodi il 21 settembre 1889 da Carlo. Il nome della madre è ignoto.
Volpi era falegname ma, pluripregiudicato per reati comuni, il 25 ottobre 1910 fu condannato a venticinque giorni di prigione per oltraggio alla forza pubblica, il 30 gennaio 1914 gli vennero inflitti nove mesi per tentato scasso e il 4 settembre 1914 fu condannato a un anno per tentato furto. Subì anche una condanna dal Tribunale di Napoli per diserzione, per la quale venne amnistiato nel dicembre del 1919.
Partecipò alla Prima guerra mondiale ed entrò a far parte del corpo dei ‘caimani del Piave’, arditi che dopo Caporetto si erano specializzati nell’attraversamento del fiume a nuoto, di notte, per uccidere a coltellate le sentinelle austriache. Nel gennaio del 1919 fu tra i fondatori della Federazione nazionale arditi d’Italia (FNAI), dalla quale con una scissione dette vita, nel 1921 insieme a seicento dei vecchi soci della stessa Federazione, al Gruppo arditi di guerra fascisti, di cui divenne il comandante. Fu tra i partecipanti alla riunione di fondazione dei Fasci di combattimento di piazza San Sepolcro a Milano. Il 15 aprile 1919 partecipò all’assalto e alla devastazione del quotidiano socialista Avanti!. Nel capoluogo lombardo si rese protagonista di clamorose azioni teppistiche, come schiaffeggiare pubblicamente alcuni assessori socialisti, sparare contro le finestre che esponevano bandiere rosse o tagliare a Giacinto Menotti Serrati la sua fluente barba mentre il malcapitato veniva immobilizzato da altri squadristi. Il 17 novembre 1919, su ordine di Benito Mussolini, lanciò una bomba su un corteo socialista che percorreva via San Damiano per festeggiare la vittoria del Partito socialista italiano alle recenti elezioni politiche, fortunatamente provocando solo feriti. Il 21 marzo 1921 prese parte alla devastazione del circolo socialista di Foro Bonaparte, nel corso della quale fu ucciso l’operaio Giuseppe Inversetti. Processato per l’omicidio, Volpi fu assolto grazie alla deposizione di Mussolini che testimoniò davanti ai magistrati come il responsabile della morte di Inversetti fosse un altro squadrista, nel frattempo deceduto. Da allora, Volpi divenne docile e fedelissimo strumento nelle mani del capo del fascismo, il quale, come depose in seguito Emilio De Bono davanti ai magistrati inquirenti del delitto Matteotti, arrivò a definirlo «la pupilla di uno dei miei occhi» (Archivio di Stato di Roma, Corte d’appello di Roma, Procedimento giudiziario..., 9 luglio 1924).
Era stato assunto nel frattempo dal Fascio milanese con mansioni non chiare, che gli fruttarono uno stipendio di mille lire al mese. Tra le carte sequestrategli dai giudici istruttori nell’ambito dell’inchiesta sul delitto Matteotti, vi è un tesserino a lui intestato rilasciatogli dal Fascio milanese del Partito nazionale fascista (PNF) con l’autorizzazione del questore di Milano, da cui Volpi risulta capo squadra di una sedicente ‘polizia politica fascista’.
Nell’agosto del 1922 partecipò all’assalto di palazzo Marino, sede del potere municipale milanese, l’ultima spallata alla giunta socialista di Angelo Filippetti che provocò la caduta della giunta e il commissariamento del Comune.
De Bono lo definiva l’enfant gâté dello squadrismo milanese, precisando che a lui, «senza tema di errare molto», si potevano «imputare tante delle azioni illegali commesse in Milano e nei dintorni» (ibid., deposizione De Bono del 9 luglio 1924)
Nell’estate del 1923 Cesare Rossi, capo dell’Ufficio stampa di Mussolini, chiamò Volpi a Roma per affiancarlo ad Amerigo Dumini, lo squadrista toscano che era stato messo da poco a capo del primo embrione della Ceka fascista, la polizia politica voluta da Mussolini per intimorire e aggredire gli avversari politici a lui particolarmente invisi.
Insieme a Dumini, Volpi fu protagonista delle prime azioni della Ceka, come la feroce aggressione, avvenuta il 12 marzo 1924 alla stazione ferroviaria di Milano, del deputato Cesare Forni, il ‘ras’ della Lomellina passato nelle file del dissidentismo fascista. Due giorni dopo, insieme a Dumini, Volpi aggredì il giornalista Alberto Giannini, direttore del settimanale Il becco giallo, in quel periodo aspro avversario del governo fascista.
Volpi era sicuramente con Dumini in Francia nel settembre e nel novembre del 1923, in due delle tre missioni segrete condotte all’estero dalla Ceka: missioni dagli scopi poco chiari. In quella eseguita in novembre, che durò dal 12 al 17 e terminò con il rientro precipitoso in Italia del gruppetto dei provocatori, sembra che uno degli obiettivi fosse un attentato dinamitardo ai danni del giornale comunista L’Humanité. Volpi vi si recò con un passaporto falso intestato a Giuseppe Paini, rilasciatogli l’11 settembre 1923 dalla Prefettura di Roma. Dumini in seguito confessò a Mussolini di sentirsi tranquillo solo quando a guardargli le spalle vi era Volpi.
Il 21 maggio 1924 Volpi entrò formalmente nel piano criminale messo in atto dalla Ceka per eliminare il deputato Giacomo Matteotti, segretario del Partito socialista unitario. Volpi venne infatti convocato da Dumini a Roma, dove giunse il 22 maggio conducendo con sé un gruppetto fidato di arditi milanesi, tra cui Amleto Poveromo, anch’egli un ex ‘caimano del Piave’, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Filippo Panzeri, che furono gli esecutori materiali della cattura e dell’assassinio di Matteotti. Il gruppo prese alloggio all’hotel Dragoni, che divenne il loro quartier generale. Nei giorni successivi alcuni dei suoi membri iniziarono i pedinamenti del deputato socialista, che da quel momento venne costantemente tallonato mentre la sua abitazione veniva strettamente sorvegliata giorno e notte.
Fu quasi certamente Volpi – nei concitati minuti successivi al sequestro di Matteotti sul lungotevere Arnaldo da Brescia, mentre all’interno di una Lancia Lambda gli uomini della Ceka cercavano di sopraffarlo definitivamente – a vibrare la coltellata omicida che pose fine alla vita del deputato.
Ricercato per l’assassinio, Volpi, nel tentativo di sottrarsi alla cattura, poté giovarsi della complicità del fascismo milanese. Fermato una prima volta la sera di venerdì 13 giugno, facendosi forte della presenza di un nucleo di fedelissimi arditi armati che lo spalleggiavano, oppose sulle prime una certa resistenza. A un certo momento sembrò convinto di lasciarsi arrestare, ma chiese agli agenti, prima di essere assicurato alle carceri, di essere condotto presso la sede del Fascio milanese per un colloquio con il segretario Mario Giampaoli. Lì, mentre un gruppo di fascisti ostacolava gli agenti, Volpi fuggì da una porta secondaria involandosi su un’auto della Federazione fascista. Quindi, con l’aiuto di alcuni amici arditi, trovò rifugio in un albergo di Bellagio, sopra Lecco, pronto a raggiungere la Svizzera. Quando venne arrestato gli trovarono addosso circa cinquemila lire e un passaporto falso, quello rilasciatogli nel settembre del 1923 in occasione di una delle due missioni in Francia come agente della Ceka.
L’istruttoria, sottratta ai due magistrati originari, Mauro Del Giudice e Umberto Tancredi, che puntavano all’accusa di omicidio premeditato, venne affidata ai più compiacenti Alberto Albertini e Nicodemo Del Vasto, quest’ultimo cognato di Roberto Farinacci, che dal gennaio del 1925 fu segretario del PNF. I due nuovi magistrati orientarono l’istruttoria verso il delitto preterintenzionale e la loro sentenza del 1° dicembre 1925 sostenne infatti la natura involontaria del delitto, provocato da una maldestra esecuzione di sequestro di persona attuato per scopi politici.
La corte d’assise di Chieti, con sentenza del 24 marzo 1926, condannò i soli Dumini, Volpi e Poveromo a cinque anni, undici mesi e venti giorni di reclusione, dei quali un anno e nove mesi già scontati. I tre avrebbero dovuto quindi affrontare ancora quattro anni e due mesi di carcere, ma l’art. 4 del decreto legge n. 1277 del luglio 1925, che concedeva l’amnistia per i reati politici e che fu opportunamente promulgato qualche mese prima della sentenza istruttoria, prevedeva nel caso di omicidio un condono della pena fino a quattro anni. In tal modo i tre videro ridotto a due mesi il periodo da trascorrere ancora in carcere e perciò tornarono in libertà alla fine di maggio del 1926.
Riacquistata la libertà, Volpi credette di poter tornare a comandare come una volta il gruppo degli arditi fascisti milanesi, ma il regime non tardò a fargli comprendere come fosse interesse di tutti che si mantenesse estraneo all’ambiente del fascismo milanese. Fallito un tentativo di capeggiare un gruppo dissidente di arditi, Volpi si acconciò alla condizione, preferita dal regime, di questuante. Nel 1930 scrisse a Mussolini invocando il suo aiuto per un’occupazione. Rammentò al capo del fascismo che «ossequiente al desiderio di V.E.» aveva abbandonato ogni attività politica, ma che era suo vivo desiderio «potere ridare prova della fedeltà intangibile per l’E.V. e verso il regime» (Roma, Archivio centrale dello Stato, Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato, b. 97). Ma ciò che interessava Volpi era più esplicitamente espresso nella lettera della moglie, Asmara Norchi, che accompagnava la sua e in cui era espressa la richiesta della gestione delle stalle del nuovo macello milanese. Quella particolare domanda non fu accolta, ma per personale interessamento di Mussolini vennero concessi a Volpi, nel 1931, la gestione del servizio di foraggiamento del bestiame in sosta e i servizi di stallazzo del mercato di frutta e verdura di Porta Vittoria, per una media di proventi annui di almeno trentamila lire. Nel 1936 le concessioni ottenute da Volpi al mercato salirono a sei-sette. La subconcessione gli permetteva lucrosi guadagni. Aprì inoltre, sempre tollerato dalle autorità di polizia, un cosiddetto ufficio di recupero crediti, offrendosi ai commercianti del Verziere per il recupero dei loro crediti, che in genere finivano per il 60-70% nelle sue tasche. Non di rado Volpi mise a tacere le lagnanze dei danneggiati convocandoli e malmenandoli nella sede del gruppo rionale fascista. Insomma, un vero ras del Verziere, a capo di una sorta di racket di un pizzo ante litteram. Naturalmente frequenti erano le lamentele sull’operato di Volpi che giungevano alle orecchie di Mussolini, il quale tuttavia non interveniva mai a porgli un freno.
Quando il 7 agosto 1939 Volpi morì, Mussolini inviò al suo funerale una vistosa corona di fiori rossi con il nastro a colori della marcia su Roma e la scritta «Il Duce».
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Roma, Corte d’appello di Roma, Procedimento giudiziario per il delitto Matteotti; Roma, Archivio centrale dello Stato, Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato, b. 97, f. Albino Volpi; Ministero dell’Interno, Direzione generale di Pubblica sicurezza, Divisione polizia politica, Fascicoli personali, b. 1450, anno 1922, b. 135, f. Milano - Fascio di combattimento.
M. Canali, Cesare Rossi. Da rivoluzionario a eminenza ‘grigia’ del fascismo, Bologna 1991, ad ind.; Id., Documenti inediti sul delitto Matteotti: il memoriale di Rossi del 1927 e il carteggio Modigliani-Salvemini, in Storia contemporanea, 1993, n. 4, pp. 549-631; Id., Il delitto Matteotti, Bologna 1997 (2004, 2015, 2020), ad ind.; G. Mayda, Il pugnale di Mussolini, Bologna 2004, ad indicem.