Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’alchimia bizantina dell’XI secolo poggia su una solida tradizione di ricettari che testimoniano il persistere di un’attività di carattere operativo e si distingue principalmente per il carattere erudito delle proprie opere e per aver sviluppato temi e teorie di natura esoterica e mistica che risalgono a Zosimo di Panopoli e a Stefano di Alessandria. In questa duplice prospettiva, al contempo pratica ed erudita, si colloca l’opera di Michele Psello.
Perfettamente in linea con la tradizione erudita che fa capo a Zosimo e Stefano di Alessandria è l’opera di Michele Psello, il cui trattato sulla trasmutazione, dal titolo Crisopea, si presenta come un esercizio letterario eseguito per soddisfare la curiosità del patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario. Psello è certamente la figura di maggior spicco sul piano culturale della seconda fase del cosiddetto umanesimo bizantino, quel periodo compreso tra la fine della dinastia macedone e il consolidarsi di quella comnena. Psello è uno studioso dai molteplici interessi, erudito di cultura classica e dotato di spiccato senso filosofico e capacità di insegnamento; mostra un vivo interesse per le scienze naturali. Volgendosi all’alchimia si prefigge di comprenderne il grado di scientificità attraverso un approccio di tipo teorico, con il quale cerca di determinare quali siano le cause delle trasformazioni dei metalli.
Psello ricerca queste cause nella filosofia naturale e individua il fondamento razionale della trasmutazione di specie nella teoria degli elementi aristotelica. Nel trattato sulla Crisopea sono illustrate varie ricette alchemiche per la moltiplicazione e la fabbricazione dell’oro artificiale, sintomo, questo, dell’interesse di Psello anche per i risultati pratici di quest’arte: una delle ricette prevede la miscelazione di sabbia, argento e piombo attraverso operazioni di triturazione, l’imbibizione con acidi e la fusione. Un’altra ricetta prevede un numero maggiore di ingredienti (sandaracca, vetriolo blu, orpimento, zolfo, cinabro) che, una volta tritati e cotti, producono una pasta che passata al crogiolo con argento dà come risultato l’oro. In un’altra ricetta ancora è previsto l’utilizzo della magnesia bianca, una sostanza che nella tradizione alchemica alessandrina assume un valore cosmico e simbolico, ma che per Psello costituisce soltanto un ingrediente da usare nel processo di produzione dell’oro. Nella sua Crisopea Psello distingue tra riproduzione dell’oro e trasmutazione delle altre specie metalliche in oro e, mentre nel primo caso riporta una serie di ricette chiare che mirano alla riproduzione delle qualità superficiali dell’oro, nel secondo, trattandosi di un mutamento essenziale delle sostanze metalliche, adotta un linguaggio ermetico che proietta la descrizione delle procedure tecniche in un contesto simbolico-mitologico: Psello ricorre ad esempio a una figura come quella di Afrodite per indicare il rame, metallo di partenza per la trasmutazione, e richiama chiaramente l’iniziazione misterica come requisito necessario per comprendere i segreti della trasmutazione. In generale, da una lettura della Crisopea di Psello emerge chiaramente come la ricerca alchemica venga associata alla speculazione filosofico-religiosa e mistica di matrice gnostica, dando origine a un orientamento che successivamente viene recuperato e percorso dagli alchimisti rinascimentali.
Oltre allo studio dei metalli nel contesto dell’alchimia, Psello redige anche alcuni testi di mineralogia che mantengono il carattere compilativo frutto delle sue ampie letture e nei quali, nonostante rimanga qualche eco di natura ermetica, l’autore cerca di estromettere qualsiasi riferimento di carattere alchemico. L’opera principale dedicata ai minerali è il De lapidum virtutibus, scritto dopo la sua partenza dal monastero del monte Athos nel 1055. L’opera è scritta nella forma di lettera, indirizzata probabilmente a Michele Cerulario, ed espone i concetti di mineralogia in forma erudita e nozionistica, interessandosi alle pietre preziose come oggetti da esposizione e per le loro proprietà mediche. Una delle fonti principali del De lapidum virtutibus, per ammissione dello stesso Psello, è l’astrologo Teucro di Babilonia che descrive vari materiali artificiali derivati dal trattamento di minerali come il nitro, il litargirio, la sandracca e l’allume, dai quali è possibile produrre pietre contraffatte come il giacinto, la sardonica e lo smeraldo. Notizie sui minerali simili a quelle del De lapidum virtutibus si trovano anche in una lettera indirizzata dallo stesso Psello a un certo Costantino, nipote di Michele Cerulario. Qui, concentrandosi prevalentemente su argomenti di interesse geologico e meteorologico – come i terremoti, le comete e i tuoni – lo studioso giunge alla conclusione che i regni animale, vegetale e minerale sono caratterizzati da forze comuni le quali, però, non sono chiare e comprese da tutti.
Anche se non è semplice individuare le fonti della cultura mineralogica di Psello, nel suo pensiero hanno certamente avuto un ruolo importante gli autori classici del periodo greco-romano, in particolare un certo Senocrate del quale sappiamo che fu una fonte anche per la mineralogia di Plinio.
Diversamente dalla sua opera filosofica, la mineralogia di Psello non sembra avere influenza né sulla scienza contemporanea né postuma. Da quello che sappiamo il De lapidum virtutibus ha una circolazione ristretta, limitata alla sola Costantinopoli e, come mostra ad esempio la totale assenza di riferimenti nel catalogo di gemmologia di Teodoro Meliteniote che descrive ben 224 gemme, l’opera di Psello non sembra aver lasciato tracce in nessuna delle opere successive; soltanto nel 1636 il nome dello scienziato e filosofo bizantino viene inserito come autorità antica nel manuale di gemmologia del de Boot, per poi tornare nuovamente a essere dimenticato.