Alchimia
Dall'arabo al-kīmiyā', disciplina che, sulla base del ragionamento analogico, ricava dall'esperienza della pratica metallurgica, fittile o tintoria i presupposti teorici di una concezione che vede l'universo pervaso dall'anima mundi e l'uomo-microcosmo teso al raggiungimento della massima elevazione spirituale.
di Mario Bussagli
Il 'sapere' alchimistico si forma per gradi in un processo che affonda le proprie radici nella metallurgia delle origini e si evolve in base alla formulazione di dottrine che presuppongono una materia suscettibile di evoluzione ('maturazione' dei metalli). La materia stessa è, perciò, dotata (entro certi limiti) di vita, mentre si forma l'idea di un universo sessualizzato e si afferma l'esistenza di due 'poli', lo zolfo e il mercurio, che generano una dialettica dei contrari costruita con il sistema delle corrispondenze analogiche: un sistema, questo, proprio di gran parte del pensiero umano non misurativo. La riflessione sui metalli, la crescente specializzazione dei fabbri-maghi fonditori e, forse, le esperienze sciamaniche sono la spinta principale per la genesi del pensiero alchemico.
L'elaborazione di valori sacrali e magici relativi ai metalli si incentra sul ferro meteoritico che, per la sua provenienza celeste (gr. σίδεϱοϚ, 'stella', ma anche 'ferro'; di qui siderurgia, siderurgico, ecc.), è considerato più prezioso dell'oro oltre a essere più raro. Si risale, così, a un'epoca anteriore alla vera e propria età del Ferro che nasce con l'invenzione e la diffusione di fornaci adatte a fondere minerali ferrosi (ematite e magnetite) che rendono possibile la produzione di rilevanti quantità di questo metallo. Uno dei testi principali di questa proto-a. è un'opera metallurgica della biblioteca di Assurbanipal (668-626 a.C.) nella quale - nonostante le molte difficoltà e controversie interpretative - è certo che si ipotizza la 'nascita' e la 'crescita' dei metalli nel ventre della terra (Eisler, 1926-1927). Come si vede l'idea della vita e della mutabilità dei metalli è già chiara, così come il concetto di vita è già esteso all'universo (si pensi alla petra genitrix) che appare sessualizzato. Quale dato collaterale il fabbro - come il vasaio prima di lui e come l'alchimista più tardi - è già considerato un 'maestro del fuoco' e, per conseguenza, padrone di una forma particolare di energia.
Dunque alcune componenti teoriche dell'a. (il nome di questa dottrina è più tardo perché è certamente arabo) preesistono alla configurazione tradizionale dell'a. stessa. Il che è di sostegno per alcune interpretazioni del pensiero alchemico in chiave psicanalitica. Esiste però anche un problema propriamente storico. Infatti i primi testi alchimistici sembrano comparire quasi contemporaneamente nel mondo ellenistico-egiziano e in Cina. In India, invece, l'a. compare alquanto più tardi, se non si è tratti in inganno dall'incertezza di alcuni dati e - soprattutto - dalle ipotesi sulla datazione di alcuni testi. Tuttavia la sua massima fioritura coincide con quella della stessa 'scienza' sia in Cina, sia in Egitto. In Cina, allo stato attuale delle ricerche, sembra probabile una continuità diretta fra la mistica metallurgica dei bronzisti Shang-Yin e Chou e la speculazione alchimistica. Del resto alcuni simbolismi adottati sui bronzi rivelano una speculazione religiosa complessa e raffinata con implicazioni sviluppabili in senso alchemico. Così il motivo ricorrente della larva della cicala, asessuata e sviluppantesi sotto terra, allude al principio unico e unitario dell'essere che solo in un secondo momento dà origine alla dialettica dei contrari: maschio e femmina, caldo e freddo, secco e umido, ecc., riassunti nella contrapposizione tipica dei due principi: yang maschile, yin femminile. Una dialettica che diviene essenziale per il taoismo, corrente religiosa particolarmente seguita dalle confraternite dei fonditori, che accoglie e sviluppa le teorizzazioni e le intuizioni precedenti da cui nasce l'alchimia. Si noti che l'a. cinese - tesa al perfezionamento di se stessi fino al raggiungimento dell'immortalità, scopo supremo, ma sostanzialmente utopico e come tale considerato - non solo è taoista, ma è addirittura una branca del taoismo. Le sue analogie con quella occidentale sono stringenti. Gli elementi di base, zolfo e mercurio (anche se quest'ultimo è indicato con il cinabro, il minerale da cui si estrae il mercurio), sono gli stessi ed è analogo lo sforzo di coordinare le qualità opposte della materia, unica e indistruttibile, sia pure nell'ambito di un universo dominato dallo yang e dallo yin.
Per prudenza si può dire che l'a. cinese ha origini cronologicamente incerte. Lao-tzŭ, il 'vecchio maestro' cui si fa risalire l'origine del pensiero taoista, sarebbe stato quasi contemporaneo di Confucio (seconda metà del sec. 6° a.C. o poco dopo), ma in realtà non è altro che una figura sfumata nella leggenda. L'opera principe a lui attribuita, il Tê-tao-ching - versione antica della più nota Tao-tê-ching - è databile al sec. 3° avanti Cristo. La copia pervenuta è del 206 a.C. e proviene da una tomba databile con certezza al 168 a.C. (Lao-tzŭ, Il libro delle Virtù e della Via). Lao-tzŭ è certamente figura mitica e se vi fu una realtà umana che diede origine alla leggenda, questa è ormai perduta per sempre. È certo invece che all'epoca di Chuang-tzŭ alcune pratiche alchimistiche erano già in uso, come dimostrano vari passi delle sue opere. Il che fa risalire la datazione alla fine del sec. 4° o al principio del 3° avanti Cristo. Per Chuang-tzŭ, però, la ricerca dell'immortalità, sia pure su un piano etereo, ha un posto molto secondario nel suo sistema. Traspare così una lenta maturazione del pensiero alchemico cinese che risulta pienamente formato nel corso del sec. 2° avanti Cristo. La ricerca, ormai, è diretta al prolungamento della vita perché l'alchimista abbia più tempo per migliorare se stesso, per staccarsi da ambizioni e desideri terreni e per aderire a una forma di vita superiore, ossia per divenire un Hsien-jen (cioè saggio-immortale). Perfino la fabbricazione dell'oro (metallo perfetto, pari soltanto al mercurio) serviva solo per poter disporre di un oro commestibile che trasfondesse, in colui che sapeva nutrirsene, la sua perfezione, la sua inalterabilità e - soprattutto - la forza pura del suo yang. Agli inizi della nostra era, una reazione alle inevitabili distorsioni che minacciavano di alterare profondamente il taoismo diede origine a tre scuole diverse, fra cui quella detta Lou Huo (fuoco delle fornaci) mantenne e sviluppò la tradizione alchimistica vera e propria. Ne sono rappresentanti di spicco due grandi personalità. La prima è Wei Poyang (sec. 2° d.C.) a cui si deve la più antica opera cinese di argomento propriamente alchemico che sia pervenuta: il Ts'an t'ung ch'i, cioè trattato delle Tre scuole apparentate. La seconda - che è la figura centrale e più famosa dell'a. cinese - è Ko Hung (inizi del sec. 4°), meglio noto con il suo pseudonimo che è anche titolo della sua opera: Pao-p'u-tzŭ (cioè 'Il maestro che ha abbracciato la semplicità'). Quanto agli atteggiamenti specifici dell'a. cinese basti accennare al fatto che essi sono sostanzialmente di carattere mistico e meditativo, da un lato, medico-dietetico dall'altro. Anche in India esistono presupposti remoti per la formulazione di dottrine alchemiche, ivi compresa una particolare concezione atomistica della materia, diffusa in alcune correnti filosofiche e religiose. L'a. indiana, però, presenta notevoli interferenze con lo yoga (Hathayoga) e con la speculazione gnostico-mistica del tantrismo, il che ne riconduce valore ed effetti all'interno dell'animo umano. Nagarjuna, filosofo buddhista del sec. 2° d.C., fondatore della scuola Madhyamika e assertore della dottrina del 'vuoto' e della 'verità del vuoto assoluto' (śunyatva) che nega gli estremi di ogni realtà (per es. tanto l'essere quanto il non essere), è ritenuto l'autore di molti trattati d'alchimia. Impostata sul valore esoterico del mercurio (rasāyana) l'a. indiana spinge i suoi adepti a 'proiettare' la propria ascesi sulla materia, sottoponendo, per analogia, i metalli a processi di 'purificazione' e a 'torture' ritenuti simili, nell'intento, a quelli cui si sottopone lo yoghin in vista del proprio miglioramento. Perché, anche se l'oro è l'immortalità (poiché riflette lo Spirito puro, libero e immortale), fra "il più vile metallo e l'esperienza psico-mentale più raffinata non c'è soluzione di continuità" (Eliade, 1956). Naturalmente anche in India si ha una contrapposizione dello zolfo al mercurio in un bipolarismo che implica la complementarietà dei due princìpi. Ma questa stringente corrispondenza con l'a. cinese e con quella occidentale non modifica il fatto che la corrente alchemica indiana - interferente sia con il Buddhismo, sia con lo Scivaismo - è quella nella quale il rapporto fra lo spirito dell'operatore e la materia su cui egli opera è più evidenziato. Il che riduce a valori ristretti la probabilità di un consistente apporto arabo nella sua evoluzione, oltre quello documentato.
In definitiva, mentre non si può escludere un'origine cinese dell'a., che appare però molto improbabile per ragioni di 'trasmissione', sembra che in gran parte dell'Europa sia fiorita, nei primi secoli della nostra era, una ricerca consimile che si estendeva dall'Egitto all'India e alla Cina, attraverso anelli intermedi non facilmente identificabili e, se mai, ipotizzabili solo per indizi e intuizioni. Questa speculazione si rivela come frutto di un interesse sapienziale che, muovendo dalla tecnologia dei metalli, elabora teorie consimili sulla costituzione e sulla vita della materia, sul rapporto fra spirito e corpo, oltreché fra spirito e materia. Di queste tre aree, è soprattutto quella egizio-mediterranea che sviluppò in seguito nuove tecniche e nuovi strumenti, assumendo un atteggiamento parzialmente protoscientifico sicché non mancano scoperte chimiche vere e proprie (come quella della birra, inventata da Zosimo di Panopoli), senza però tradire lo scopo principale dell'alchimista che è il miglioramento spirituale di se stesso. Per di più l'a. d'Occidente (greca, araba, bizantina e medievale) non solo ebbe assai più lunga durata (Isaac Newton era un alchimista prima che un fisico), ma lasciò segni e simboli indelebili nella produzione figurativa sia del Medioevo, sia del Rinascimento, mescolandosi e interferendo con la magia e l'astrologia in varie forme e maniere. Il che non toglie che essa sia rimasta sempre autonoma e identificabile nelle infinite modulazioni assunte di volta in volta, a seconda delle epoche e del modificarsi delle conoscenze.
Bibliografia
Fonti:
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Letteratura critica:
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C.G. Jung, Psychologie und Alchemie, Zürich 19522 (1944).
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T. Burckhardt, Alchimie, sa signification et son image du monde, Bâle 1974.
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di R. Halleux
L'a. si diffuse in Occidente dalla metà del sec. 12° grazie alla traduzione in latino di testi arabi di contenuto alchimistico e conobbe uno sviluppo autonomo dal 13° al 15° secolo.
I rapporti fra l'a. e l'arte medievale pongono due fondamentali problemi: l'iconografia dei manoscritti alchimistici e l'influenza dell'a. sull'arte medievale (architettura, pittura, scultura). Il primo a interessarsi ai manoscritti alchimistici illustrati conservati in Italia è stato Carbonelli (1925), ma spetta a Jung (1936; 19522; 1957) l'aver messo in luce un gran numero di documenti e formulato una interpretazione psicologica dell'a. come simbolo del processo di individuazione. Priva di intenti storicistici, l'analisi di Jung mira piuttosto a individuare per l'a. i presupposti psicologici comuni alle diverse epoche. Tra gli altri studiosi che si sono occupati di a., lo storico dell'arte Hartlaub (1937; 1959) ha analizzato numerosi manoscritti della fine del Medioevo e del Rinascimento; Telle (1980) si è interessato dell'iconografia del Rosarium e Obrist (1982) dei cicli del Magister Constantinus, del Libro della Santa Trinità e dell'Aurora consurgens; più di recente infine Van Lennep (1984) ha tentato una sintesi riccamente documentata, anche se non sistematica. È necessario considerare, tra l'altro, che non essendo l'illustrazione alchimistica specifica, è difficile distinguere, senza tenere anzitutto presente il testo, ciò che è alchimistico e ciò che non lo è. Si deve poi tener conto che cicli che si supponeva fossero medievali, come per es. quello di Nicolas Flamel (Halleux, 1983), risultano in realtà apocrifi.
Mentre i lapidari, i bestiari, gli erbari, i manoscritti di magia e di astrologia sono riccamente illustrati fin dalle origini, l'iconografia alchimistica è limitata nel tempo e nei tipi. I manoscritti greci e arabi di a. contengono soltanto illustrazioni più o meno schematiche di apparecchi. Fanno eccezione, nei codici greci, la figura dell'ouróboros (il serpente che si morde la coda) e, fra quelli arabi, il trattato di Muhammad ibn Umayl al-Tamīmī (il Senior Zadith dei latini) che presenta la figura di un vecchio seduto, circondato da aquile, con in mano una tavola di pietra. Nelle prime traduzioni dall'arabo al latino e nella maggior parte dei manoscritti dal sec. 13° al 14° le sole illustrazioni presenti sono le abbreviazioni pittografiche delle sostanze (per es. i segni planetari dei metalli) e degli strumenti o degli schemi degli apparecchi. Nei codici di lusso questi ultimi possono essere raggruppati in piccole scene di genere che rappresentano l'alchimista nel suo laboratorio (per es. nell'Ordinal of Alchemy di Thomas Nort; Londra, BL, Add. Ms 10302; sec. 15°). D'altro canto, nei manoscritti contenenti testi alchimistici pseudolulliani si trovano diagrammi (quadrati, cerchi, triangoli, 'alberi della scienza') ove le strutture del pensiero e del mondo sono interpretate secondo l'ars lulliana: un sistema metafisico - la cui validità, secondo il mistico catalano Raimondo Lullo, poteva essere universale - basato sulla conoscenza degli attributi divini che sembrano pervadere l'intero creato. I concetti fondamentali della conoscenza vengono disposti in tavole combinatorie, le cui diverse possibili posizioni consentono di ottenere meccanicamente tutte le varietà dei concetti sottesi alle fondamentali verità di fede.
Con il sec. 14°, nel quadro di una mutazione epistemologica della riflessione alchimistica, comparve l'iconografia simbolica. Il ragionamento discorsivo, già applicato nel sec. 13° dall'a. scolastica, appariva ormai uno strumento inadeguato per esprimere la realtà occulta e soprannaturale; di conseguenza l'immagine venne a sostituirsi al linguaggio, considerato ingannevole. L'immagine alchimistica era costituita dalla trasposizione pittorica dei nomi in codice (Decknamen) e delle parabole o dei racconti allegorici presenti fin dall'origine come tecniche di occultamento. Il repertorio appare attinto da parecchie fonti, soprattutto dalle Sacre Scritture, reinterpretate in senso alchimistico (per es. l'immagine dell'incoronazione costituisce un argomento analogico per la transustanziazione). L'attribuzione di 'colori' ai metalli, ai pianeti, alle fasi dell'opus favorì la codificazione pittorica, ma non esisteva un codice fisso e il rapporto significante-significato non era mai univoco: il significato di un simbolo dipendeva quindi dal contesto.
Un manoscritto del sec. 14° (Vienna, Öst. Nat. Bibl., 2372) contiene una traduzione dal latino all'olandese (dovuta al Magister Constantinus) dell'opera di Senior Zadith, un Libro dei segreti della mia signora Alchimia (Parigi, BN, lat. 14006; Hannover, Landesbibl., IV 339) e inoltre un trattato alchemico-magico di Gratheus filius philosophi e una Sapientia Salomonis magica. Constantinus sviluppa un discorso teologico ed enciclopedico sulla creazione del mondo e dell'anima e sul suo rapporto con il corpo, discorso che può essere letto in senso alchimistico (Dio corrisponde all'argento vivo) e privilegia l'immaginazione quale mezzo per apprendere una realtà sovrasensibile. L'illustrazione, legata al testo, è cosmologica (Dio creatore, Gerusalemme celeste, fiumi del paradiso, anima e natura) e astrologica (personificazioni dei metalli).
Il trattato di Gratheus espone per suo conto una a. tecnica (fabbricazione dei vasi) e astrologico-magica, con liste di stelle e di congiunzioni. L'iconografia è cristologica (resurrezione di Cristo), tecnica (figure di apparecchi) e sessuale (il re e la regina uniti in un vaso alchimistico, procreazione del drago e del puer philosophicus): metafore sessuali derivanti da un testo arabo-latino, la Visio Arislei (Obrist, 1982). La Sapientia Salomonis infine rappresenta Salomone come maestro di magia, con i demoni chiusi in fiale e il combattimento fra fides e fallacia.Il Libro della Santa Trinità (Buch der heiligen Dreifaltigkeit) - il più celebre dei trattati alchimistici illustrati, scritto fra il 1410 e il 1419 probabilmente da un illuminato francescano chiamato Ullmannus - è conosciuto grazie a numerosi manoscritti, il più antico dei quali si trova a Norimberga (Germanisches Nationalmus., 80061). L'opera non può essere compresa se non si tiene conto del quadro ideologico e politico del Concilio di Costanza, nonché dell'interesse che i margravi di Brandeburgo e la corte di Sigismondo V avevano per l'alchimia. Di fatto si tratta nello stesso tempo di un'opera profetica, che annuncia la nascita e la disfatta dell'Anticristo e la venuta dell'Imperatore salvatore, e di un trattato di a. estremamente preciso e tecnico, inteso a indicare all'imperatore il modo di procurarsi i mezzi con cui lottare contro il male. L'iconografia si basa sull'elaborazione figurativa del concetto di trinità, le sofferenze di Cristo patiens, il culto di Maria (immacolata concezione, incoronazione), le profezie imperiali (Anticristo, aquila imperiale, blasone di Federico), il culto francescano (stimmate di s. Francesco). In un gioco di corrispondenze minuziose, ogni particolare dell'illustrazione rimanda a una sostanza o a un procedimento specifico. Per es. l'ermafrodito dalle ali a membrana che tiene in mano dei serpenti, in piedi su due rocce dove crescono alberi, è il simbolo della pietra filosofale bisessuata che fa crescere l'oro e l'argento; l'Anticristo ermafrodito segnato dalla corona dei sette vizi rappresenta la materia impura; l'incoronazione della Vergine da parte del Padre e del Figlio fra i simboli degli evangelisti rappresenta le operazioni di decomposizione e ricomposizione della materia (Peters, 1893; Ganzen Müller, 1939; Buntz, 1968; 1977; Obrist, 1982, pp. 117182; Van Lennep, 1984, pp. 70-78).
L'Aurora consurgens, trattato attribuito a s. Tommaso d'Aquino da von Franz (1957), è più probabilmente opera trecentesca. Si divide in due parti: la prima è una interpretazione alchimistica della Bibbia che avvicina passi dal Libro della Sapienza e dal Cantico dei Cantici a passaggi alchimistici in qualche modo comparabili, ripresi soprattutto dal testo di Senior; la seconda consiste in una serie di paragoni della pietra filosofale con esempi tratti dal regno vegetale, minerale, animale e dalla sfera dell'umano. L'opera non era stata concepita per essere illustrata e di fatto il più antico manoscritto con illustrazioni (Zurigo, Zentralbibl., Rh. 172) risale al 1420-1430. Il programma iconografico, relativamente indipendente dal contenuto dell'opera, è di ispirazione profana e, attingendo oltre che dal testo anche da altre fonti, risulta in definitiva difficile da interpretare (per es. l'ermafrodito che rappresenta la dualità stabile-mobile; il vecchio seduto in una chiesa con una tavoletta sulle ginocchia e intorno alcune aquile, motivo ripreso da Senior, che illustra l'antico tema ermetico del saggio sepolto con i suoi segreti; il torneo della luna e del sole, motivo astrologico, e così via). La seconda parte illustra metafore del testo: la procreazione umana (una coppia in un letto ed entro un vaso la formazione del feto), la procreazione animale, il basilisco (motivo tratto dai bestiari), gli alchimisti al lavoro, l'albero d'oro, i mostri compositi che simboleggiano le forme e le azioni del mercurio. Viene data inoltre grande importanza alla codificazione dei colori (von Franz, 1957; Obrist, 1982, pp. 183-246).
Il Donum Dei, datato alla fine del sec. 15° e conosciuto in diciannove manoscritti, è una compilazione alchimistica attribuita con molti dubbi vuoi a un certo Franciscus vuoi a Georg Aurach di Strasburgo. L'illustrazione comprende dodici figure costruite tutte sullo stesso schema, e cioè all'interno di un vaso alchimistico, dove compaiono l'unione del re e della regina, la nascita del puer, i diversi colori relativi agli stati della materia nell'opus, il fiore d'oro, l'elisir bianco e rosso personificati in re e regina (Buntz, 1968, p. 36; Van Lennep, 1984, pp. 87-88).
L'alchimista inglese George Ripley (1415-1490) che scrisse il Compound of Alchymy (1471) è anche autore di un trattato di a. illustrato, il c.d. Ripley Scrowle, in forma di rotolo, di cui si conservano due manoscritti del sec. 15° (Cambridge, Fitzwilliam Mus., 276; Oxford, Bodl. Lib., Bodl. Rolls I 2794) e tre del 16° secolo. L'iconografia consiste nella trasposizione pittorica dei Decknamen del testo, sicché si trovano le figure simboliche del pellicano, del rospo, del puer philosophicus, della coppia alchemica, dell'albero, della fontana, dei leoni verde e rosso (Robbins, 1958).Fra le numerose opere intitolate Rosarium, un poema tedesco del sec. 15°, il Rosarium philosophorum dedicato agli amori del sole (l'oro) e della luna (l'argento), venne illustrato posteriormente (forse nel sec. 16°) sia in manoscritti, sia in edizioni a stampa (1550). Il ciclo iconografico, estremamente particolareggiato, mostra l'unione del sole e della luna che riprende quella del Donum Dei, la nascita dell'ermafrodito, l'incoronazione della Vergine e la resurrezione di Cristo sul genere delle immagini presenti nel Libro della Santa Trinità (Telle, 1980).
Esiste una corrente di studi che ritiene che l'arte medievale, specialmente nei portali delle cattedrali, rechi il segno, almeno da un punto di vista iconografico, delle idee alchimistiche (Halleux, 1983). La tesi, avanzata anzitutto dall'ermetista francese Fulcanelli (1926; 1930; pseudonimo di uno sconosciuto) e dal suo discepolo Canseliet (1945) - secondo i quali i portali di Notre-Dame di Parigi, delle cattedrali di Amiens e di Tolosa, il palazzo di Jacques Coeur a Bourges, il castello di Plessis-Bourré, per citare alcuni esempi emblematici in un quadro ben altrimenti vasto, sarebbero, per così dire, intessuti di figure di valore alchimistico - venne confutata da Tervarent (1961).Il problema è di difficile soluzione: l'iconografia alchimistica è infatti in buona parte non specifica e attinge, come si è visto, ad altri campi (religione, mitologia, araldica, bestiari, vita di corte). Di conserto, gli elementi più propriamente alchimistici (strumenti, fornelli, diagrammi) non appaiono come tali nell'arte medievale né d'altra parte esistono documenti contemporanei attestanti in modo esplicito l'influenza nell'arte del tempo dell'affatto specifico campo degli studi alchimistici.
Bibliografia
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di A. Bausani
Nei primi anni del sec. 8°, secondo Ibn al-Nadīm, autore del Fihrist (sec. 10°), o non molti anni dopo questa data, secondo altri storici ed eruditi musulmani medievali, le prime conoscenze di a. fecero il loro ingresso nell'Islam con una serie di traduzioni effettuate soprattutto dal greco, dal siriaco e dal copto, negli ambienti che gravitavano intorno alla corte omayyade di Damasco. Scrive al-Nadīm: "Essendo egli stesso [Khālid Ibn Yazīd, nipote del primo califfo omayyade Mu'āwiya] uno studioso, era grandemente interessato alle scienze. Era particolarmente attratto dall'Arte [dell'a.]: così ordinò che venissero convocati alcuni filosofi greci che vivevano nella città di Miṣr [Il Cairo] e che avevano una buona conoscenza dell'arabo e li incaricò di tradurre in arabo libri sull'Arte dalla lingua greca e copta. Questa fu la prima traduzione da una lingua in un'altra nell'Islam". Anche se è poco probabile che il testo di al-Nadīm possa essere preso alla lettera per quanto riguarda nomi e date, in esso sono tuttavia presenti almeno due affermazioni che possono essere accettate senza dubbio alcuno: il fatto che la nuova disciplina sia stata una delle più precoci acquisizioni 'scientifiche' dell'Islam e il fatto che gran parte delle prime notizie sia giunta all'Islam da un'area mediorientale di lingua greca. Testi alchemici in lingua araba, siano essi traduzioni od opere originali di autori musulmani, compaiono infatti nella cultura islamica già a partire dal sec. 2° a.E. (sec. 9°) e molti sono i termini di origine greca presenti, fin dai primi tempi, nel linguaggio alchemico arabo. La disciplina viene detta ṣinā'a, san'a (τέχνη, ποίησιϚ), al-ṣana'a al-ilāhī (ἡ ἱεϱὰ τέχνη), al-'amal al-a'zam (τὸ μέγα ἔϱγον). Greco sembra essere anche - a meno che non si accetti la derivazione di questa parola dal copto khme, 'terra nera' - il termine kīmiyā' (χημεία; χύμα, 'corpo fuso'), sicuramente non arabo, che in seguito, preceduto dall'articolo arabo al, diede origine al latino e poi italiano a.: tale termine, utilizzato classicamente per indicare la disciplina nel suo complesso, conserva in molti testi arabi il significato concreto (affine al greco χύμα) di 'composto', 'preparato nel procedimento', sinonimo di al-Iksīr (elisir), e si trova in espressioni del tipo 'ilm al-kīmiyā', ṣana'at al-kīmiyā, che possono essere lette indifferentemente 'scienza, arte dell'alchimia' o 'scienza, arte (della preparazione) del composto'.
L'a., che a partire dal sec. 8° giunse a conoscenza dei musulmani e venne assimilata al punto da essere ancora oggi da molti considerata una scienza autenticamente islamica, è un insieme di conoscenze teoriche e sperimentali di diversa provenienza. Nella prima metà del sec. 8°, essendo la capitale omayyade Damasco e il centro del mondo musulmano la Siria, sembra più rilevante l'acquisizione di conoscenze teoriche e sperimentali di derivazione greco-egiziana (Alessandria d'Egitto), filtrate attraverso la cultura bizantina e arricchite probabilmente da componenti ebraiche: esoterismo e gnosi. Ebbero inoltre importanza per la formazione di tale disciplina la filosofia greca, soprattutto stoica e neoplatonica; le teorie prearistoteliche e aristoteliche sulla costituzione della materia; l'idea di identità o almeno di armoniosa interazione tra microcosmo e macrocosmo o tra uomo e natura, propria tra l'altro del Corpus Hermeticum (Poimandres, ecc.) e un vistoso contributo di tecnica chimica legata all'artigianato (metallurgia, arte della ceramica e del vetro, tintura delle stoffe), anch'esso, come e forse più della conoscenza 'esoterica', legato a esigenze di segretezza, vissuto e conosciuto nell'ambito di gruppi di artisti attenti a non lasciar trapelare segreti al di fuori della bottega di appartenenza. Quando, a partire dalla seconda metà del sec. 8°, la capitale del califfato si trasferì con la dinastia abbaside a Baghdad, divennero probabilmente più sensibili, nell'a., gli influssi più orientali: dalle zone iraniche (nell'a. islamica molte parole sono e rimangono, nel tempo, di origine iranica), dalla stessa Mesopotamia, dalla Cina (forse) e dall'India. Ai miti dell'ermetismo alessandrino, alle tecniche prodigiose dei metallurgisti egiziani, dei vetrai del tempio di Serapide e delle coste siriane, si aggiunsero le allegorie degli zoroastriani, le immagini dei taoisti, la metallurgia mesopotamica, la fabbricazione delle pietre preziose sintetiche, tanto frequente in India. I musulmani assorbirono idee e tecniche con la prontezza e la capacità che era loro propria e, nel loro grande amore per la sperimentazione, migliorarono l'antico, ricercarono il nuovo, aggiunsero alle terminologie e ai miti ricevuti termini in lingua araba e persiana - come si è visto - e storie tratte dalla loro stessa tradizione, sì che, dopo circa due secoli dall'ingresso ufficiale dell'a. nel mondo islamico, questa disciplina era ben sviluppata in ogni regione del califfato, in Oriente come in Occidente, in Mesopotamia e in Iran come in Spagna. Se però la trasmissione delle tecniche non conobbe praticamente soluzione di continuità - perché tutto quello che era avvenuto è che erano diventati musulmani gli esperti - è reale il fatto che l'a., come insieme di tecnica e di sistema di pensiero, nell'ambiente culturale islamico giunse al suo momento di massima maturità.
Disciplina allo stesso tempo teorica e sperimentale, popolare e colta, praticata indifferentemente a corte o nella fabbrica, l'a. islamica si presenta come un fenomeno molto complesso; e anche se al momento attuale lo stato degli studi è ancora alquanto insoddisfacente, si possono individuare in essa almeno tre componenti: l'a. degli ambienti per così dire 'intellettuali'; l'a. dei c.d. 'esoterici' o 'mistici'; l'a. degli artigiani e dei lavoratori prevalentemente 'pratici' (compresi i falsari).
Il primo gruppo è quello che forse, fino a questo momento, è stato sottoposto a un'indagine più approfondita. A livello di ricerca intellettuale si discutevano teorie sulla costituzione della materia (la teoria generalmente accettata è quella dei quattro elementi: aria, acqua, fuoco e terra; e delle quattro qualità a essi associate: caldo, freddo, secco e umido); dotti e meno dotti scrivevano trattati elencando apparecchiature di laboratorio, reagenti, procedimenti tentati, falliti o riusciti. A questi autori, forse solo apparentemente più comprensibili, si sono spesso appoggiati gli storici favorevoli a dare alla ricerca alchemica una qualche connotazione 'moderna', ma giova qui ricordare che, nonostante l'illusoria modernità della loro esposizione, tutti questi autori partecipavano comunque dell'atmosfera culturale del loro tempo, nel senso che la teoria associata alla loro sperimentazione era sempre filosofica e non assolutamente chimica nel senso moderno del termine. Il primo nome ragguardevole, in ordine di tempo, sembra essere quello di Jābir Ibn Ḥayyān (il Geber dei latini), di cui d'a notizia una tradizione rimasta vivissima nell'Islam per vari secoli, da Ibn al-Nadīm (sec. 10°) all'alchimista al-Jildaqī (sec. 14°). Secondo tale tradizione, Jābir Ibn Ḥayyān sarebbe nato a Tūs (nel Khorasan, vicino all'od. città di Mashad) verso il 720. Mandato in giovanissima età dalla famiglia in Arabia, si sarebbe in seguito stabilito per qualche tempo a Kūfā, poi a Baghdad, presso la corte del califfo abbaside Hārūn al-Rashīd. Uomo colto e promotore di cultura, studioso di varie scienze, tra cui la matematica, l'astronomia e la medicina, sarebbe stato amico del sesto Imam sciita Ja'far al-Ṣādiq. Dopo un lungo periodo passato a Baghdad, poiché i Barmecidi, dai quali era appoggiato, avevano perso la loro influenza presso il califfo Jābir, sarebbe infine tornato nella città natale Ṭūs, dove sarebbe morto intorno all'830. I numerosi scritti attribuiti a Jābir sono da ritenersi, nella loro totalità o in gran numero, di dubbia autenticità, sì che è stata persino posta in forse l'esistenza di un'unica personalità di nome Jābir. Molti tra i testi attribuitigli sembra siano stati scritti verso il sec. 10° in ambienti vicini all'ismailismo o al cristianesimo e quelli che sembrano risalire a un'epoca precedente potrebbero non essere opera di un solo autore. Tra i numerosi trattati del c.d. Corpus Gabirianum sono da ricordare: i CXII Libri, i LXX Libri, i CXLIV Libri (o Libri delle bilance), i D Libri, trattati isolati in cui vengono ripresi alcuni problemi dei Libri delle bilance. Nei Libri delle bilance, oltre ai soliti concetti di derivazione ermetica e comunque antica presenti anche e soprattutto nei CXII Libri, è esposta una interessante teoria sulla costituzione della materia, in particolare dei metalli. Secondo tale teoria, l'esistenza in natura dei diversi metalli è da attribuirsi alle diverse percentuali secondo cui lo zolfo (caldo-secco) e il mercurio (freddo-umido) si combinano nella miniera. In particolare nell'oro, il più perfetto dei metalli, sarebbe massimo l'equilibrio, mentre il piombo, il più lontano dalla composizione dell'oro, sarebbe anche il più lontano dalla perfezione. Ogni metallo avrebbe poi due 'composizioni', una superficiale e una profonda. L'oro, per es., sarebbe all'esterno caldo e umido e all'interno freddo e secco. Da queste idee sulla composizione dei metalli deriva la possibilità per l'alchimista di trasmutare un metallo in un altro: se fosse possibile infatti risolvere un metallo nei suoi elementi, per ottenere da un metallo un altro metallo non si dovrebbe far altro che variare in modo opportuno i rapporti secondo i quali sono mescolati (o combinati) i suoi componenti. Anche se la teoria di Jābir sembra avere in sé qualcosa di 'scientifico', non è tuttavia da considerarsi moderna in senso proprio. Infatti, per decidere dei rapporti secondo i quali sarebbero combinati elementi e qualità, il trattato sembra affidarsi ai valori numerologici delle lettere che costituiscono il nome di ogni metallo ed è evidente che, su una tale base, un metallo conosciuto in arabo sotto due nomi diversi creava non poche difficoltà nei confronti della sua collocazione 'chimica'.
Se per Jābir, o per il Corpus Gabirianum, la trasmutazione era senz'altro possibile, per altri non era certo così. Avversario dichiarato della trasmutazione fu, per es., sempre in area mesopotamica, il filosofo al-Kindī (m. 870), cui la tradizione attribuisce un'opera, divisa in due parti, intitolata Kitāb ibṭāl da 'wā l-mudda'īn ṣan'at al-dhahab wa-l-fiḍḍa min ghayr ma'ādinihā (Confutazione dei pretesi metodi di fabbricazione artificiale dell'oro e dell'argento). Furono favorevoli alla possibilità della trasmutazione al-Fārābī e al-Rāzī (sec. 10°), contrario invece (sec. 10°-11°) Ibn Sīnā (Avicenna), come risulta da una sezione del Kitāb al-shifā' (Libro della guarigione), passata in latino nel sec. 13° come opera di Aristotele. La polemica, accesa, veniva in ogni caso condotta con argomenti filosofici e coinvolgeva spesso non solo i diretti interessati, ma anche eruditi e storici, da al-Mas'ūdī (Murūj al-dhahab, Le praterie d'oro, sec. 10°) a Ibn Khaldūn (sec. 15°) che nella sua Muqaddima (Prolegomeni) stigmatizzava violentemente la trasmutazione e coloro che sostenevano di praticarla.
Il fatto che negli scritti degli alchimisti del primo gruppo compaiano discussioni su questioni di tale genere, non deve far pensare che essi fossero soltanto teorici. Non mancano infatti qua e l'a numerose ricette, evidentemente sperimentali, per la preparazione di composti e descrizioni di apparecchiature di laboratorio, che mostrano il volto pratico anche dell'alchimista più teorico. Nel Kitāb al-asrār (Il libro dei segreti) di al-Rāzī, per es., l'autore cataloga ordinatamente ciò che il suo laboratorio contiene. Anche il fatto che molti medici (al-Rāzī, Avicenna e lo stesso Jābir) si siano interessati di a. denota l'esistenza di una a. pratica particolare che, parallela all'a. 'inorganica', per suo conto volta all'ottenimento di corpi inanimati più puri, si volgeva al risanamento o al miglioramento del corpo dell'uomo. Al medico al-Rāzī sono tra l'altro attribuiti i primi tentativi di reazioni con composti organici di origine naturale, secondo la più antica tradizione che chiama indifferentemente jasad (corpo) sia il corpo inorganico (in particolare il metallo) sia il corpo umano.
Anche nei paesi occidentali del califfato, che a partire dalla seconda metà del sec. 8° si resero sempre più indipendenti da Baghdad, l'a. si diffuse e prosperò, soprattutto nella Spagna e nel Maghreb degli Almoravidi e degli Almohadi (secc. 12°-13°). Tra le opere alchemiche scritte in Occidente, una citazione particolare merita la Rutbat al-ḥakīm (Il passo del saggio), attribuita, pare erroneamente, a Maslama b. Aḥmad al-Majrīṭī (m. 1007). In ogni caso costui, che come quasi tutti gli alchimisti si occupò anche di altre discipline, quali la matematica e l'astronomia, compose certamente le Ṭabaqāt al-'ulamā' (Le assise dei saggi). Il periodo almohade riveste una grande importanza nella storia dell'a., prima di tutto perché dalla Spagna molti testi alchemici, tradotti in latino, presero la via dell'Occidente cristiano e inoltre perché si venne a creare in quei luoghi, soprattutto nel Maghreb, una scuola di a. che ha continuato ininterrottamente la sua tradizione anche in epoca moderna e contemporanea.
Studiando la storia dell'a. arabo-islamica, si ha l'impressione che nei primi tempi (secc. 8°-9°) siano più numerosi i trattati dichiaratamente basati sulla sperimentazione, le ricette e le disquisizioni teoriche e che, con l'andar del tempo (dopo il sec. 12°), diventino sempre più numerosi i trattati di forma, se non di sostanza, 'esoterica'. Considerato lo stato attuale, non molto soddisfacente, della conoscenza della letteratura alchemica negli studi orientali, non è ancora possibile dire se questo andamento storico sia un fatto reale o se sono troppo pochi i testi tradotti finora. Certo è che sono molti, soprattutto a partire dal sec. 12°, gli autori di forte connotazione 'esoterica' idealmente collocabili nel secondo gruppo della nostra divisione. I testi di questo gruppo hanno tutti almeno due caratteristiche comuni, così che si può dire che appartengono a una stessa famiglia e lo confermano le numerose citazioni, reperibili presso ogni autore, di coloro che lo hanno preceduto nello stesso filone. Caratteristica comune è in primo luogo il fatto che questi testi, più di tutti gli altri, si richiamano a Hermes (Ermete Trismegisto) e a tutta una lunga serie di opere, in generale pseudoepigrafiche, attribuite ad autori preislamici spesso illustri: Apollonio di Tiana (Balīnūs), che avrebbe scritto tra l'altro il Kitāb al-aṣnām al-sab'a (Il libro dei sette idoli), Zosimo, Democrito, Cleopatra, Maria la Saggia eccetera. L'insegnamento trasmesso da tali libri sull'autorità dei suddetti autori sembra poi essere sempre uno e uno solo: le modalità del procedimento (tadbīr) della 'Grande Opera'. Il testo, oscuro e fondamentale, intorno al quale tutto sembra ruotare, è quello della Tabula Smaragdina (Tavola di smeraldo) posta nelle mani di Hermes, presente, nella sua più antica versione araba, in appendice al Sirr al-khalīqa (Il segreto della creazione) attribuito ad Apollonio di Tiana, in cui sarebbe descritta la 'Grande Opera' nella sua interezza. I testi degli alchimisti ermetici sono stati in generale forse meno studiati degli altri, probabilmente per questa loro grande difficoltà di interpretazione; non è detto che a un esame approfondito, condotto mettendo a confronto un gran numero di essi, non si scopra alla base di tali opere qualche cosa di autenticamente sperimentale, qualche procedimento antichissimo e ambìto, avvolto per oscuri motivi nelle tenebre di allegorie e similitudini.
Ben poco è dato comprendere dalla descrizione del procedimento. Da due componenti iniziali, denominati zolfo e mercurio (o sole e luna), chiusi insieme a unirsi in una oscurità che è al tempo stesso talamo e tomba, viene generato un figlio (o figlia) che racchiude in sé le qualità del padre e della madre: il suo corpo è bianco come la luna e il mercurio, la sua anima è rossa come il sole e lo zolfo; è acqua e allo stesso tempo fuoco e ha il potere di far rivivere ciò che è morto e di risuscitarlo per sempre (identità tra corpo inorganico e corpo vivente). Di questo racconto esistono nei testi infinite varianti e, a detta degli stessi alchimisti, molti nomi diversi sono attribuiti a ogni fase e a ogni agente dell''Opera'. La decifrazione del codice è difficile e l'impressione che si ricava da tutte queste trattazioni (anche sulla base dei nomi e delle similitudini usate) è che gli autori musulmani cercarono di comprendere e di ordinare un complesso di informazioni che, derivate in gran parte dal mondo alessandrino, creavano anche a loro grossi problemi di interpretazione. Tali problemi erano inoltre aggravati dalle difficoltà inerenti alla comprensione di testi spesso antichi di secoli, scritti in lingue straniere ed elaborati su una base culturale (quella della religione e del mito greci) particolarmente difficile da assimilare per un monoteismo come quello islamico. Tra gli autori e le opere più noti di questo gruppo sono degni di particolare menzione: Ibn Umayl al-Tamīmī, vissuto in Egitto sembra nel sec. 10°, autore tra l'altro di un poema in versi intitolato Risālat al-shams ilā al-hilāl (Epistola del sole alla luna crescente) e di un commento in prosa al poema al-Mā' al-waraqī wa al-arḍ al-najmiyya (L'acqua d'argento e la terra stellata); Ḥusain ibn 'Alī al-Tughrā'ī (m. 1121), calligrafo e poeta alla corte dei Selgiuqidi Malikshāh e Muḥammad (Mafātīh al-rahma wa maṣābīḥ al-ḥikma, Le chiavi della misericordia e i lumi della sapienza); Abū'l-Ḥākim al-Kāthī (sec. 11°; Kitāb 'ayn al-ṣan'a wa 'awn al-ṣana'a, L'essenza dell'Arte e l'aiuto agli artefici); Abu'l-Ḥasan ibn Arfa' Ra's (m. 1197; Shudhûr al-dhahab, Le particelle d'oro); Abu'l-Qāsim al-'Irāqī (m. 1300; Kitāb al-'ilm al-muktasab fī zirā'at al-dhahab, La scienza acquistata sulla semina dell'oro); infine, 'Alī ibn Aydamir al-Jildaqī (m. 1342 ca.), che commenta le opere degli autori precedenti - in particolare le citate opere di Ibn Arfa' Ra's e al-'Irāqī - ed è ricco di citazioni degli autori più antichi, anche preislamici.
Questo sguardo di insieme, dedicato all'a. arabo-islamica, non sarebbe completo - specie dal nostro punto di vista - se all'a. dei 'colti' e degli 'esoterici' non si aggiungesse l'a. dei tecnici dichiarati, degli artigiani e degli artisti, di coloro che operavano manifestamente, nei laboratori e nelle industrie, affidando spesso agli stessi prodotti del loro lavoro e a una rigogliosa tradizione orale la continuità delle arti e delle tecniche apprese dai predecessori. A detta di alcuni storici dell'a., gli appartenenti a questo terzo gruppo non avrebbero diritto di cittadinanza nelle scienze alchemiche, collocandosi essi piuttosto al di fuori di quelli che classicamente vengono riconosciuti come i temi fondamentali dell'a. (la purificazione di sostanze vili, la produzione dell'oro, ecc.). Vien fatto però di chiedersi se, al contrario, lungi dall'essere isolato e forse estraneo al discorso generale dell'a., proprio questo terzo gruppo non costituisca invece l'aspetto più inquietante dell'unico e indiviso corpo di questa scienza proteiforme, aspetto senza il quale, oltretutto, è impossibile comprendere gli altri due. È infatti proprio dalle osservazioni del cercatore di minerali, dall'abilità dell'imitatore di pietre preziose, dall'esperienza del distillatore di profumi e del tecnico delle arti del fuoco, dal confronto tra il prodotto naturale e l'oggetto sintetico che possono prendere forma l'idea, il tentativo sperimentale e anche, almeno in parte, il linguaggio stesso della 'Grande Opera'; e poiché tutte queste attività conducono spesso, con perizia ed esperienza, a un prodotto molto puro o a una vera e propria opera d'arte, il prodotto finale (il metallo più lucente, il cristallo più puro, il profumo più persistente, l'inchiostro più fine) può a ragione e a pieno diritto essere chiamato con il nome di òro'. La chimica 'pratica' dei musulmani raggiunse, già a partire dall'epoca abbaside, alti gradi di perfezione nei campi più disparati. Da ricordare soprattutto la lavorazione dei metalli; la preparazione di inchiostri per testi e miniature (tutto ciò che riguarda i libri, nell'Islam, religione fondata su un Libro, è 'arte maggiore'); la produzione di ceramiche smaltate anche in bianco, a imitazione della porcellana cinese, o decorate con le tecniche del lustro e della cuerda seca; l'estrazione delle essenze dai petali dei fiori; la fabbricazione di pietre preziose false, molto apprezzate perché decorative, ma di poco prezzo e quindi compatibili con il tenore di vita semplice raccomandato dal Profeta; la preparazione di sapone, di unguenti e di medicine. Alcune attività 'chimiche' pervennero poi, nell'Islam, a livelli di produzione più ampi, quasi industriali, come la distillazione dell'acqua di rose, i cui stabilimenti, nella regione di Shiraz, furono in alcuni periodi soggetti a imposte, o come l'estrazione e la purificazione dello zucchero di canna.Intorno alla metà del sec. 12°, con le prime traduzioni latine effettuate probabilmente in Sicilia e in Spagna, l'a. islamica iniziò il suo viaggio verso l'Occidente cristiano; di qui, alcuni secoli dopo, mosse i primi passi la chimica. L'eredità dell'a. islamica è ancora oggi, per la cultura contemporanea, fatta di molte cose. Di linguaggio, anzitutto. Molti termini alchemici arabi, come è noto, passati nei testi latini come tali, o con qualche deformazione, sono tuttora di uso comune nella terminologia chimica: alcali (al-qilī), arsenico (al-zarnīkh), zucchero (sukkar), alcool (al-kuhl), anche se in origine tale termine indicava il pigmento nero adoperato per tingere gli occhi; distillazione, dal lat. distillatio, calco di taqtīr; sublimazione, dal lat. sublimatio (tas'īd), e così via. Non di minore importanza è il passaggio all'Occidente di apparecchiature, alcune ricevute dai predecessori e migliorate dagli stessi musulmani, altre elaborate originalmente negli ambienti islamici: vari tipi di bagnomaria, distillatori anche a diversi piani per la distillazione in contemporanea di liquidi diversi, mortai, crogioli, sublimatori, anche molto sofisticati, dispositivi complessi per la purificazione di sostanze fusibili. L'arrivo dell'a. arabo-islamica costituì però forse soprattutto, per l'Occidente cristiano dei secc. 12°-13°, un primo incoraggiamento a quella osservazione, a quella manipolazione e in definitiva a quella partecipazione attiva al 'fare scienza' che vide il suo definitivo affermarsi nei secoli successivi.
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