CLEMENTI, Aldo
Nacque a Catania il 25 maggio 1925. Il nonno Gesualdo Clementi, noto chirurgo, si laureò a Napoli nel 1871 e completò la sua formazione in varie sedi all’estero; professore universitario, preside di facoltà e rettore dell’Università di Catania (1903-1905), a Vienna fu in contatto con Theodor Billroth, chirurgo che apparteneva alla cerchia degli amici musicofili di Johannes Brahms. Il padre, Ignazio Clementi, fu ingegnere; dal matrimonio con Concettina Bonajuto, nobildonna catanese, nacquero quattro figli: Rosina nel 1921, laureata in lettere e insegnante di letteratura tedesca; Dora nel 1922, laureata in lettere e insegnante di francese; Silvia nel 1923; infine Aldo. L’economia della famiglia, benestante e di tipo nobiliare, si basò, oltre che sulle attività professionali del capofamiglia, su proprietà terriere e agrumeti. Le prime impressioni musicali di Aldo Clementi furono prodotte dalle esecuzioni domestiche del padre, violinista dilettante.
Iniziò lo studio del pianoforte a tredici anni con Vito Marchese, e lo proseguì sedicenne con Giovanna Ferro, allieva di Alfredo Casella. Catania negli anni Trenta aveva una vita musicale promossa dagli ambienti colti e nobili della città. In quel periodo furono attivi alcuni musicisti e pianisti locali appassionati: tra gli altri il russo Ilija Grinstein, poi emigrato negli Stati Uniti nel 1939 a seguito delle leggi razziali, Emilia Miozzi e Carla Gemmellaro. Clementi frequentò i concerti privati in casa della pianista Eugenia Zappalà e di Franca Damiani Timpanaro, che possedeva un buon pianoforte a coda. In queste occasioni avvennero le prime esibizioni pianistiche del musicista.
Lo studio della composizione fu avviato dapprima da autodidatta e in seguito con lezioni ricevute da Giovanni Pennacchio, direttore della banda civica di Catania, e dal compositore e direttore d’orchestra catanese Gianni Bucceri. Grazie a contatti familiari favoriti dalle sorelle maggiori, nel 1945 Clementi cominciò a frequentare il compositore catanese Alfredo Sangiorgi, docente nel Conservatorio di Bolzano: con il nuovo maestro avviò studi regolari di composizione, aperti in particolare alla conoscenza della musica contemporanea. «Era un’apatica sera del novembre 1945; ero con due mie sorelle che lo conoscevano già. In Sicilia la guerra era finita da due anni; le bombe sul Conservatorio di Bolzano avevano fatto sì (per mia fortuna!) che il Maestro si ritrovasse in Sicilia disoccupato» (Clementi, 1994, p. 10).
Sangiorgi aveva studiato nel 1922 a Vienna con Arnold Schönberg, e attraverso di lui Clementi poté avere un primo contatto con le musiche dei principali compositori contemporanei: Debussy, Ravel, Schönberg, Stravinskij, Berg, Hindemith, Webern, Dallapiccola, Petrassi ecc. Come ebbe a riconoscere in seguito, l’atonalità, studiata sui Sechs kleine Klavierstücke di Schönberg, esercitò su di lui una forte attrazione, anche se non comportò, nell’immediato, una coerente e unitaria applicazione creativa.
A questo periodo risalgono le prime composizioni: il Preludio per pianoforte (1944) e Due poesie per voce e pianoforte (1946), su testi rispettivamente di Rainer Maria Rilke e Victor Hugo, eseguite a Vienna nel 1947 dal soprano russo Lydia Stix, che viveva a Catania, e dal pianista Erik Werba. Questi pezzi, e in genere la prima produzione, furono influenzati, in modo eclettico, dal gusto e dallo stile delle pagine pianistiche studiate e da autori contemporanei scoperti in quegli anni. I pezzi mettono in evidenza vari influssi, da Debussy a Mario Castelnuovo-Tedesco, con «armonie sporcate», come Clementi a volte le definiva in conversazioni informali ricordando i suoi esordi, e un uso della dissonanza che proveniva dai primi contatti con le opere della Scuola di Vienna. Tra il 1944 e il 1947 frequentò l’Università di Catania, dove seguì con particolare interesse le lezioni di storia dell’arte di Stefano Bottari. Nel 1946 si diplomò in pianoforte nel Conservatorio di Santa Cecilia a Roma.
L’anno successivo partecipò ai corsi di perfezionamento tenuti da Pietro Scarpini all’Accademia musicale chigiana di Siena. Il repertorio pianistico che presentò al corso comprendeva i Sechs kleine Klavierstücke di Schönberg, la Sonata (1924) di Igor’ Stravinskij e le Due Sonatine op. 54 di Sergej Prokof’ev. Alla forte attrazione per il pianoforte, che sarebbe rimasta costante per tutto il suo itinerario creativo, si aggiunse il crescente interesse per la composizione, sempre più centrale nella sua attività.
Finita la guerra, Sangiorgi riprese servizio al Conservatorio di Bolzano, dove insegnava dal 1940. Clementi, poco soddisfatto dell’insegnante che gli era stato assegnato d’ufficio a Santa Cecilia, lo seguì e portò avanti studi regolari in quella città dal 1945 al 1952. A Bolzano frequentò con profitto anche i corsi di musica da camera tenuti da Libero Lana, violoncellista del Trio di Trieste.
Dall’assemblaggio di pezzi composti durante il periodo di apprendistato nacque la Suite per pianoforte (1945-46), nei movimenti Preludio, Minuetto, Sarabanda, Gavotta, Berceuse e Toccata; fu poi trascritta per flauto, due clarinetti, fagotto, violino e violoncello nel 1949-50 in occasione di un saggio scolastico. Per un’analoga circostanza, l’anno successivo scrisse Tre piccoli pezzi (Omaggio a Bartók) per pianoforte a quattro mani, che testimoniano l’ingresso del compositore ungherese negli interessi e nell’orizzonte formativo del musicista.
Nel 1951 Clementi incontrò Goffredo Petrassi, che a Bolzano era stato invitato a far parte della giuria del Concorso pianistico internazionale Ferruccio Busoni. Gli sottopose la nuova Sonatina per pianoforte (1951), «che era in quel momento l’unico lavoro del quale non mi vergognassi» (Clementi, in Pozzi, 1986, p. 21). Petrassi lo accettò nella sua classe, e nel 1952 Clementi si trasferì a Roma, di nuovo a Santa Cecilia, dove ebbe per compagni di studio, tra gli altri, Boris Porena, Domenico Guaccero ed Ennio Morricone. E a Roma prese casa. Lì conobbe nel 1952 Anna Birgit Ohlin, cantante svedese venuta in Italia per studiare canto, che sposò poi a Milano il 26 aprile 1962. Dalla loro unione nacquero due figli: Anna nel 1958, cantante e musicista, oggi residente a Berlino, e Mario nel 1964, farmacologo e fotografo, oggi residente a Värmdö, vicino Stoccolma.
Si diplomò in composizione nel 1954. Questa fase di formazione scolastica, caratterizzata da una ricerca ancora ibrida che coniugava influenze provenienti dalle poetiche neoclassiche moderniste e dalla Scuola di Vienna, si chiuse con alcune composizioni: i Tre piccoli pezzi per flauto, oboe e clarinetto (1955), la Sonata per tromba, chitarra e pianoforte (1955), gli Studi per tromba, violino e pianoforte (1956) di impronta weberniana, e il Concertino in forma di variazioni per nove strumenti (1956) dedicato a Petrassi.
Risale al 1954 la Cantata per voce recitante, soprano, coro e orchestra da camera su un frammento dalla Vida es sueño di Calderón de la Barca, che due anni dopo gli fruttò un primo importante riconoscimento: l’esecuzione ad Amburgo, nel ciclo 'Das neue Werk'. A Milano, dal 1955 frequentò lo Studio di fonologia; lì, tra il 1955 e 1956, avvennero numerosi incontri con Bruno Maderna, che determinarono una svolta nel suo percorso artistico. In una prima occasione, a Roma nel 1955, Maderna gli consigliò di recarsi a Darmstadt per seguire i Ferienkurse. L’anno dopo, nel novembre 1956, gli spiegò, durante una lezione, alcuni principi dello strutturalismo postweberniano: «Rammento un pomeriggio nel quale finalmente riunì tre, quattro allievi, tra i quali io stesso e ci espose i procedimenti compositivi di ciò che allora si chiamava puntillismo o strutturalismo, se si preferisce, che si basavano sul “quadrato magico” di ascendenza weberniana. Maderna parlò per mezz’ora, forse un’ora al massimo, ma io rimasi stupito e affascinato dalla sua esposizione. […] Queste scoperte furono determinanti per me e, con l’entusiasmo del neofita, cambiai il mio modo di comporre» (ibid.). All’interesse per l’atonalità di Schönberg, per la scrittura ritmica di Stravinskij, per l’elaborazione dodecafonico-seriale di Webern, fece seguito, grazie all’incontro-chiave con Maderna, una decisa adesione al postwebernismo.
L’opera di svolta furono i Tre studi per orchestra da camera (1956-57), eseguiti nel 1957 ai Ferienkurse di Darmstadt, ch’egli frequentò dal 1955 al 1962. In questa composizione, grazie all’insegnamento ricevuto da Maderna, adottò un procedimento compositivo di natura grafico-visuale. Esso produceva «una serialità frammentata, strutture cioè di 3-4-5 suoni alla volta che si intercalavano. […] Avevo così finalmente capito come lo strutturalismo smarrisse il senso originario della serie: questa, frammentata e attraverso innumerevoli interpolazioni, si perdeva alla fine in una molteplice girandola caleidoscopica» (Clementi, in Cresti, 1990, p. 132).
La natura grafico-visuale del processo compositivo adottato nei Tre studi, concepiti «usando la carta millimetrata e non il pentagramma», l’accoglimento della geometrica rarefazione sonora della musica di Webern e gli stimoli offerti dai Ferienkurse di Darmstadt entrarono in convergenza con il crescente interesse di Clementi per la pittura contemporanea. Esso era iniziato nella seconda metà degli anni Quaranta, al tempo degli studi universitari, proseguì con la scoperta di Paul Klee (alla Biennale di Venezia, 1948) e si fissò con i contatti e l’amicizia (a Roma, anni Cinquanta) con Piero Dorazio, Gastone Novelli, Achille Perilli, Ugo Sterpini, artisti del gruppo d’avanguardia Forma 1. Anche la consuetudine coltivata dal suo maestro, Petrassi, che amava collezionare opere d’arte, contribuì ad alimentare la ricerca e la riflessione sui rapporti tra pittura e musica.
La qualità grafico-visuale dello strutturalismo su base musicale cromatica scoperto da Clementi emerse poi nelle «accelerazioni o decelerazioni misurate» di Composizione n. 1 per pianoforte (1957), nel continuum delle «immagini sonore» di Ideogrammi n. 1 per 16 strumenti (1959) e Ideogrammi n. 2 per flauto e 17 strumenti (1959), nel ‘montaggio’ della composizione elettronica Collage 2 (1960). In quest’ultima affiorano inoltre processi creativi casuali che rivelano la recezione, in Clementi, del dibattito sull’alea apertosi nel 1957-58 ai Ferienkurse di Darmstadt. In questa fase cruciale per l’individuazione della propria poetica, il modello e l’apporto della pittura furono decisivi. «Dalla pittura di Perilli all’Informale di Tàpies, Burri e Fautrier fu per me tutto un seguito di ricerche sui problemi di affinità lessicali tra musica e pittura» (Clementi, 1977).
Nello stesso periodo il compositore affrontò, in stretta relazione con la visualità pittorica delle opere strumentali, la dimensione teatrale con Collage (1961), azione musicale in un atto su soggetto e materiale visivo di Achille Perilli. «Lo spunto della trama», scrisse Perilli, con il quale il musicista collaborò, «deriva da una vecchia tradizione alchemica: dalla prima materia distrutta, dal caos, sorge una nuova immagine della natura e all’interno di questa nasce l’omuncolo, origine e inizio dell’uomo. A questa interpretazione della creazione io ho aggiunto una ulteriore possibilità di racconto seguendo l’uomo nel suo contatto con la realtà, con il movimento, con il suono, con la società che lo circonda, e che alla fine lo annienta, riportandolo a se stesso, alla sua memoria: una memoria fatta di oggetti, immagini, strani incubi. Questo scheletro di vicenda si realizza mediante sculture mobili, sagome in movimento, film, proiezioni di lanterna magica, giochi di luci, scene dipinte e costruite. Tutto questo insieme di oggetti e di effetti e di movimenti richiede allo spettatore una partecipazione più attiva e più intensa» (Perilli, 1961, p. 42).
Per Clementi Collage fu un ‘balletto’ astratto che nel titolo richiamava le tecniche dell’assemblage e del papier collé cubo-dadaista di Braque, Picasso e Schwitters. L’opera risultò senza «né voci né personaggi», ciò che «costituiva una differenza rispetto al normale teatro musicale non solo apparente, ma sostanziale». Secondo il musicista, «il percorso (di ogni materiale) dev’essere autonomo, ma, anzitutto, per la condizione-base di evitare i parallelismi, che sono di per sé descrittivismo. […] I materiali di varia origine devono essere tutti movibili per entrare anch’essi legittimamente nella dimensione primaria della musica, il Tempo» (Clementi, 1964, p. 61).
Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta crebbero i riconoscimenti internazionali e la partecipazione ai festival e alle rassegne di musica contemporanea. Nel 1959 Clementi vinse il secondo premio nel concorso bandito dalla Società internazionale di musica contemporanea, e nel 1963 il primo. Agli inizi degli anni Sessanta partecipò alla fase fondativa e alle prime attività dell’associazione romana Nuova Consonanza, assieme al compositore Francesco Pennisi, suo conterraneo e amico.
L’approfondimento della riflessione sulla pittura informale, cui si aggiunse, durante i Ferienkurse del 1961, quella fornita dalla frequentazione delle lezioni di Karlheinz Stockhausen, innescò nuovi sviluppi. Clementi stesso definì il processo compositivo che caratterizza le composizioni dei primi anni Sessanta come «informale materico». «Il bisogno di non sentire il singolo intervallo o qualsiasi altro dettaglio, e la necessità di annullare qualsiasi tipo di articolazione pervennero ad una sorta di materismo statico: ciò attraverso un fitto contrappunto attorno a un cluster che faceva da continuo Totale-Cromatico» (Clementi, 1973, in Mollia, 1979, p. 49; il compositore si riferisce alla tecnica del ‘grappolo’, appunto cluster, di note contigue suonate simultaneamente). L’informale materico emerse nei tre Informel (n. 1 per percussione e strumenti a tastiera, 1961; n. 2 per 15 esecutori, 1962; n. 3 per orchestra, 1961-63), nei quali, come già in Collage 2, le costellazioni sonore, prodotte mediante procedimenti casuali e grafici, vennero sottoposte a rotazioni e a un continuo mutamento ispirato ai mobiles di Alexander Calder.
Nel 1963-64 i Clementi acquistarono un terreno nella contea di Stoccolma, a Värmdö, dove avviarono la costruzione di una casa che fu poi il buen retiro estivo del compositore per tutta la vita. Lì trovò condizioni ideali per comporre, alternate ad attività di tempo libero dedicate alla progettazione e all’ampliamento della proprietà.
Con le Varianti (B per 36 strumenti, 1963; A per 72 voci e 72 strumenti, 1964) il musicista si indirizzò, richiamandosi alle trame coloristiche di Dorazio e di Mark Tobey, verso una radicale abolizione dei contrasti, delle dinamiche d’intensità, della dialettica articolativa e degli opposti, tutti elementi presenti nella sintassi tradizionale e segnatamente nella forma-sonata. Questa poetica vira dall’«informale materico» a un «informale ottico» o, come meglio lo definì Clementi, «a-formale ottico». Vi si registra l’influenza della ricerca visuale illusionistica della Optical Art di Victor Vasarely. Da questi modelli nacque nella seconda metà degli anni Sessanta un gruppo di nuove composizioni in cui «la forma doveva essere assolutamente appiattita e i suoni dovevano vivere solo del loro contrappunto. Ciò doveva valere anche per l’intensità, senza crescendi o diminuendi, in modo che i contatti sonori molto vicini non dessero il risultato di ondate dinamiche come si era verificato negli Informel» (Clementi, in Cresti, 1990, p. 137). Questa ulteriore evoluzione del pensiero compositivo comparve nella serie dei Reticoli (:11 per 11 strumenti, 1966; :4 per quartetto d’archi, 1968; :12 per 12 archi, 1970) e dei Concerti (per orchestra di fiati e 2 pianoforti, 1967; per pianoforte e 7 strumenti, 1970; per pianoforte, 24 strumenti e carillons, 1975; per violino, 40 strumenti e carillons, 1977).
La nota predilezione di Clementi per il pianoforte trovò conferma nella presenza dello strumento in alcuni momenti-chiave del suo itinerario creativo: «La posizione privilegiata del pianoforte nella grande letteratura musicale classico-romantica non è certo casuale. Il pianoforte come strumento in bianco e nero è in grado di disegnare come in un’acquaforte trame e geometrismi sonori ma in più offre, rispetto ad esempio all’arpa, al clavicembalo, alla chitarra, una cantabilità e una pluralità di modi di attacco assolutamente unica» (Clementi, in Pozzi, 1986, p. 22).
Da B.A.C.H. per pianoforte (1970) prese avvio una nuova fase compositiva. Fino ad allora le opere di Clementi erano state caratterizzate da un’elaborazione contrappuntistica di serie cromatiche. Con B.A.C.H. il compositore iniziò a far uso di materiali di partenza diatonici. L’esperimento non fu una deviazione transitoria ma la prima manifestazione di un’evoluzione stilistica che dominò il suo cammino successivo. Oltre alla quattro note corrispondenti alle lettere del cognome di Johann Sebastian Bach (Si bemolle, La, Do, Si naturale) il nuovo pezzo inglobò due frammenti tratti dalla Fantasia e fuga in Do minore BWV 906. Sia il procedimento della crittografia (l’estrazione di cellule melodiche dalle lettere alfabetiche dei nomi di musicisti o dedicatari), sia il ricorso alla citazione figurale di incisi o ‘temi’ tratti da musiche della tradizione o contemporanee furono procedimenti compositivi costanti nella produzione del cosiddetto periodo diatonico di Clementi. Ne sono esempio, tra numerose altre opere nell’arco di una produzione di oltre trent’anni: la Sinfonia da camera per ensemble (1974), che trae spunto dal finale della Sinfonia K 551 di Mozart; GiAn(ca)rlo CArDini per pianoforte preparato (1978), dal nome dell’interprete e dal song I got rhythm di Gershwin; Elegia per flauto e 12 fiati (1981), dall’assolo del fagotto nel Sacre du printemps di Stravinskij; Interludi per coro e orchestra (1992), dal cosiddetto ‘Epitaffio di Sicilo’; 1492 per 16 strumenti (1992), da un Kyrie di Jean Mouton; Blues per pianoforte (2001), da Thelonious Monk.
Va sottolineato che nel musicista la pratica dell’intertestualità svolse funzioni diverse e sovente ambivalenti. Il ricorso frequente ai Corali di Bach – si pensi alla citazione di Jesu, meine Freude in Variazioni per viola (1979) o nell’opera Es (1980) – indica un richiamo al grande maestro del contrappunto, ma anche la ricerca di un materiale più disponibile a un trattamento diatonico. D’altra parte, trarre spunto da cellule di Brahms, come in Intermezzo per 14 fiati e pianoforte preparato (1977), o da Schubert, come in Rapsodia per soprano, contralto e orchestra (1994), rappresentò un modo per richiamare il mondo culturale e musicale austro-tedesco che Clementi amò in modo particolare (anche in virtù del compiaciuto ricordo dei contatti avuti dal nonno a Vienna con la cerchia brahmsiana, spesso evocati nelle sue conversazioni).
Crebbe negli anni anche l’attività didattica. Dopo gli incarichi di insegnamento della composizione nel Conservatorio di Pesaro, dove gli venne affidato nel 1971 anche il corso di musica elettronica, dal 1971 al 1992 fu docente di teoria musicale nel corso di laurea in DAMS dell’Università di Bologna.
L’accostamento al teatro musicale inaugurato con Collage del 1961 proseguì con vari lavori scenico-visuali tra gli anni Sessanta e Settanta: Collage 3 (Dies irae), composizione elettronica (1966-67); Silben-Merz per una cantante, un’attrice e un baritono (1970); Blitz, azione musicale per un torneo di scacchi (1973; di questo gioco combinatorio Clementi fu acceso cultore); Collage 4 (Jesu, meine Freude), azione mimo-visiva (1979). La visione del teatro perseguita da Clementi si concretizzò in un’opera, Es, «rondeau in un atto», composta nel 1980 e rappresentata al teatro La Fenice di Venezia nel 1981; ne trasse il libretto da una commedia di Nello Saito. Constatata la perdita della dimensione del comico nella musica contemporanea, Clementi intendeva in origine comporre un’operetta. Alla fine Es ebbe tutt’altro approdoe sviluppò le premesse dei precedenti lavori scenici, al cui centro rimane un’«accentuata analogia con le arti visive, la tendenza a creare fenomeni musicali visualizzabili o stimolati da alcuni tipi di intrichi ottici. […] Vicenda e libretto possono semplicemente essere sostituiti dalla sola temperatura drammaturgica che fa sì che i personaggi esprimano senza dire: vittima del groviglio sonoro ogni protagonista galleggia come un relitto». Il risultato finale è «una musica concepita anzitutto come meccanismo. Apparizioni, ritorni e ancora ritorni come nella poesia meccanica di un carillon» (Clementi, 1984, pp. 158 s.).
Il «meccanismo» dell’opera, che nel titolo allude alla psicoanalisi, rimanda ai miti di Sisifo e Don Giovanni: di quest’ultimo propone una sorta di rovesciamento ‘negativo’. Sono infatti al centro della vicenda non il seduttore, bensì tre donne – Tuni, una segretaria; Rica, una casalinga; e Mina, un’artista – che inseguono un uomo inesistente. Le loro fantasie non approdano a nulla e girano a vuoto, richiamando la circolarità evocata dal sottotitolo dell’opera. L’ingranaggio drammaturgico e musicale è realizzato attraverso una geometria basata sul numero tre e relativi multipli: tre donne (con due sosia ciascuna), sei scene, tre gruppi di organico orchestrale, un contrappunto canonico di quattro cori a nove parti che struttura le singole scene dell’opera, a loro volta formalmente tripartite in moduli scena-danza-berceuse. In Es il meccanismo non produce tuttavia alcun dramma. L’opera mette in scena l’annientamento degli attori, una rappresentazione musicale statica del vortice psichico inconcludente delle tre donne.
Il 1992 fu per Clementi un anno ricco di avvenimenti. La composizione di Interludi: musica per il mito di Eco e Narciso, opera per 12 voci e 24 strumenti a fiato su testi del compositore, subito eseguita alle Orestiadi di Gibellina, gli valse l’attribuzione del Premio Abbiati della critica musicale italiana. Contemporaneamente la Scala di Milano gli commissionò un nuovo lavoro teatrale. Clementi rispose alla commissione con Carillon, opera in un atto, traendone il libretto dalla commedia Der Schwierige (L’uomo difficile) di Hugo von Hofmannsthal. Terminata nel 1993, venne eseguita nel 1996, in forma di concerto alla Biennale di Venezia, ma solamente nel 1998 andò in scena alla Scala.
La drammaturgia di Es, passando per l’azione lirica del 1984 Finale e il coevo Interludi, trovò conferma e ulteriore sviluppo in Carillon. La vicenda della pièce di Hofmannsthal si svolge durante la fase conclusiva della prima guerra mondiale e ha per protagonista un quarantenne aristocratico, il conte Hans Karl Bühl, figura dall’allure decadente, dotata di fascino, ma inattiva e distaccata. Bühl vive in un ambiente mondano, vacuo, in cui prevalgono rapporti irrisolti e progetti mancati. Il libretto di Clementi, in modo ancor più radicale rispetto a Es, è basato su frasi frammentarie e schiva la rappresentazione lineare del dramma. Diviso in cinque scene inframezzate da tre Intermezzi e Danze, Carillon, fedele al titolo, propone ancora una volta, come in Es, un ingranaggio meccanico che esprime il circolare vaniloquio dei dodici personaggi in scena. Questa drammaturgia di teatro meccanico viene costruita attraverso un’elaborata sovrapposizione canonica, nello specifico un canone polimetrico di canoni (una complessa stratificazione ritmico-imitativa) che avvicina entrambe le opere ai procedimenti compositivi posti in atto da Clementi nei coevi lavori sinfonico-cameristici.
Dopo Carillon la produzione del compositore, fino alla seconda metà del primo decennio del nuovo secolo, con opere quali Ottetto per 8 esecutori (2001), Quasi niente per 20 strumenti (2003), Aus tiefer per coro femminile e strumenti dal Salmo 130 (2004), Momento per quartetto d’archi (2005), Vertigo per 14 strumenti (2005), rivelò nell’insieme un uso duttile e vario di quanto progressivamente sperimentato e acquisito a partire dagli anni Cinquanta. Esso conferma la forte continuità che sottende le mutazioni osservate nel suo itinerario creativo. L’evoluzione – dalle serie cromatiche della fase strutturalista al continuum indifferenziato delle trame dell’a-formale ottico fino all’ultima fase diatonica – esalta in termini sempre più netti il ruolo della percezione musicale dell’ascoltatore nel processo compositivo. Il percorso va da un grado basso o assente di intelligibilità delle componenti a un gioco di densità sonore che, attraverso «ispessimenti» ed «evidenze», rimetta in gioco qualche principio di contrasto.
«L’informale è una poetica che non ho inventato io (pensa a Vedova, Fautrier, Tàpies), nella pittura fa parte del gioco, c’è la non percezione dei dettagli, il fatto materico implica una specie di confusione, di caos. Io man mano ho modificato questa posizione drastica dell’inizio […] Mi interessano i poli estremi, l’alternarsi tra l’incomprensibile sonoro e il comprensibile, quello che io chiamavo assorbimenti ed evidenze: man mano che assorbi nascondi, seppellisci gli oggetti originali di questa musica che hai costruito; man mano che assottigli vengono a galla. Questa alternanza mi interessa. La maggiore evidenza è legata alla scelta del diatonismo, che per natura propria è più chiaro, perché si rifà alla melodia, alla cantabilità dell’oggetto sonoro» (Clementi, in Petazzi, 1992, p. 100).
In vari momenti Clementi ha manifestato per iscritto la visione estetica da lui perseguita nel suo cammino di compositore. Le prime riflessioni, a metà degli anni Cinquanta, misero in evidenza la netta presa di distanza dal neoclassicismo e l’adesione all’avanguardia postweberniana. Recensendo nel 1955 il XVIII Festival internazionale di musica contemporanea di Venezia, annotò con disappunto come quasi tutto il festival avesse programmato «musica di epigoni: di un neoclassicismo, nel senso più ampio che a questo termine si può dare oggi, svuotato del primitivo significato». Stroncando la prima dell’opera di Ennio Porrino L’organo di bambù segnalò l’urgente necessità di dar vita a una rassegna che si facesse portavoce della «reale situazione europea» e indicò in tal senso le esperienze esemplari di Pierre Boulez, Karlheinz Stockhausen e Luigi Nono (Clementi, 1955, p. 34). Due anni dopo, nel 1957, in un articolo intitolato Dopo la dodecafonia, verso un nuovo stile, mosse una critica (che rivela radici ‘darmstadtiane’) alla dodecafonia di Schönberg, nella quale individuò una forma di pensiero musicale «stranamente romantico-neoclassica». Punti di riferimento ineludibili dovevano essere Webern e Olivier Messiaen, quest’ultimo visto come «vero anello di congiunzione tra Webern e la nuova generazione» (Clementi, 1957, p. 45).
Alla critica del neoclassicismo e all’adesione al postwebernismo si associò l’insorgenza di un pensiero negativo nel quale si rileva l’influenza della filosofia di Theodor W. Adorno. A questo proposito, in una lettera indirizzata a Giacomo Manzoni il 4 settembre 1977, Clementi ebbe a dire: «Se nella mia musica mancano il teatralismo, l’effettismo, l’ottimismo neoclassico e ogni inutile positività, ciò è dovuto in gran parte all’influenza esplicita o sottintesa del pensiero di Adorno. Sono anch’io convinto che è importante ciò che sta dietro le note e che l’artigianato fine a se stesso è da scartare» (Clementi, in Pozzi, 2008, p. 69).
In Clementi la concezione della forma non dialettica, le trame contrappuntistico-canoniche statiche, l’illusionismo sonoro a fondamento logico-geometrico, che richiama gli analoghi procedimenti di Maurits Cornelis Escher, l’uso di natura nostalgica (anche se mai consolatoria né rétro) di frammenti musicali della tradizione d’arte, sono caratteristiche di un artigianato nel contempo solido e disincantato, che esprime un’estetica non genericamente negativo-pessimistica bensì nichilista. Il nichilismo filosofico costituì il nucleo generativo ideale del pensiero compositivo di Aldo Clementi. Rispondendo nel 1970 a un questionario di Gianfranco Maselli, il compositore presentò l’inquieta aspirazione dell’uomo contemporaneo come indirizzata «ad essere unicamente riflesso ed emanazione della dissoluzione del mondo, dell’inesorabile marcia verso l’annientamento (Vernichtung)» (Clementi, in Maselli, 1970). Nel 1973, in un passo di un Commento alla propria musica, dichiarò: «Da vari anni la mia convinzione è che la Musica (e l’Arte in generale) debba avere semplicemente l’umile compito di descrivere la propria fine, per lo meno, il suo lento estinguersi» (Clementi, in Mollia, 1979, p. 48). Proprio quest’idea di un lento estinguersi si presenta con evidenza sonora e visiva nelle iterazioni circolari in rallentando o dilatate presenti in numerose sue composizioni.
Nel 2005, in occasione dell’ottantesimo anniversario della nascita, il compositore ricevette numerosi omaggi e concerti monografici in festival e rassegne nazionali e internazionali. L’Università di Bologna gli assegnò il Premio speciale DAMS alla carriera. La facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Catania promosse un convegno di studi, cui seguì nel 2008 il conferimento della laurea honoris causa in filologia moderna.
Morì a Roma, nella sua casa di famiglia, in via Cassia 595, il 3 marzo 2011, all’età di 85 anni.
I manoscritti e la biblioteca di Aldo Clementi sono conservati nella Fondazione Paul Sacher di Basilea. Gli scritti e le interviste del compositore sono raccolti in Entropie sonore. Scritti e interviste, a cura di R. Pozzi, Lucca 2018 (in corso di stampa). I passi riportati sono tratti da: A. Clementi, Musica a Venezia, in La Rassegna. Mensile di arte, letteratura, bibliografia, XXIV (1955), p. 34; Id., Dopo la dodecafonia, verso un nuovo stile, in L’Esperienza moderna, I (1957), pp. 45 s.; A. Perilli, “Collage”, in Sipario, 1961, n. 183, p. 42; A. Clementi, Alcune idee per un teatro musicale contemporaneo, in Il Verri, VIII (1964), pp. 61-66; G. Maselli, Intervista ad A. C., 1970 (in Entropie sonore, 2018); A. Clementi, Musica e pittura, in Paese sera, 1° maggio 1977; Id., Commento alla propria musica (settembre 1973), in Autobiografia della musica contemporanea, a cura di M. Mollia, Milano 1979, pp. 48-55; Id., Ancora sul teatro musicale, in Musica/Realtà, 1984, n. 14, pp. 157-161; R. Pozzi, Specchio delle mie brame. Note sull’opera per pianoforte di A. C., in Piano Time, 1986, n. 36, pp. 20-22; R. Cresti, Intervista ad A. C., Milano 1990, pp. 131-140; P. Petazzi, A proposito di Carillon, Finale e Interludi. Intervista con A. C., programma del Festival di Gibellina, 23 luglio 1992, pp. 96-100; A. Clementi, Ricordo di Alfredo Sangiorgi, in Alfredo Sangiorgi nel centenario della nascita (1894-1994), Catania 1994, pp. 10-12; Id., Lettera a Giacomo Manzoni (4 settembre 1977), in R. Pozzi, Meditazioni sulla musica offesa. Influsso del pensiero negativo di Adorno sull’estetica nichilista di A. C., in Canoni, figure, carillons, 2008, cit. infra, pp. 61-77.
Per la bibliografia critica su Aldo Clementi fino al 1991 si rimanda a: Clementi. Saggio bibliografico, catalogo delle opere. Bibliografia generale, a cura di B. Passannanti, in Archivio. Musiche del XX secolo, I (1991), pp. 77-133. Degli studi precedenti si ricordano: F. d’Amico, Castiglioni, C., Nono, in I casi della musica, Milano 1962, pp. 408-412; M. Bortolotto, Fase seconda. Studi sulla Nuova Musica,Torino 1969, pp. 170-192; D. Osmond-Smith, Au creux néant musicien: recent work by A. C., in Contact: today’s music, inverno 1981, n. 23, pp. 5-9. In seguito: A. Verrengia, Intervista ad A. C., in Piano Time,1992, n. 109, pp. 24-27; M. Lenzi, Vie dell’astrattismo. Alcune osservazioni su Feldmann, C. e la pittura, in Musica/Realtà, 1995, n. 47, pp. 79-93; G. Mattietti, Geometrie di musica. Il periodo diatonico di A. C., Lucca 1996; Id., Il teatro musicale di A. C.: dal collage al meccanismo, programma di sala della prima rappresentazione di Carillon, Milano 1998; Collage 1961. Un’azione dell’arte di Achille Perilli e A. C., a cura di S. Lux - D. Tortora, Roma 2005; D. Miozzi, Alla scuola di Alfredo Sangiorgi e di Goffredo Petrassi. Conversazione con A. C. sugli anni di apprendistato (Catania - Bolzano - Roma, 1939-1954), in Alfredo Sangiorgi, a cura di R. Insolia - A. Marcellino, Lucca 2003, pp. 163-193; Canoni, figure, carillons. Itinerari della musica di A. C., a cura di M.R. De Luca - G. Seminara, Milano 2008; A. C.: Mirror of Time I, in Contemporary Music Review, XXVIII (2009), n. 6, monografico; A. C.: Mirror of Time II, in ibid., XXX (2011), n. 3-4, monografico; G. Seminara, Ritratti critici di contemporanei: A. C., in Belfagor, LXVII (2012), 5, pp. 532-542; R. Pozzi, An education in complexity. The role of contemporary art music, in Musica docta, III (2013), pp. 63-69.