DE BENEDETTI, Aldo
Nacque a Roma il 13 ag. 1892 da Vittorio e da Enrichetta Donati Piccardi.
Dedito allo scrivere fin da ragazzo, durante gli anni di liceo aveva composto opere drammatiche e poemi in versi, che chiamerà "errori giovanili" dopo averli dati alle stampe a Roma, fra il 1911 e il 1912: Coryse, Quando la fonte non canta più, Ifratelli della buona morte, La vergogna di essere nato, La lampada accesa, L'anima nuda, Henny, Ginestrella, La Signoria. Durante la prima guerra mondiale, sottotenente della riserva, dopo il corso di addestramento a Bard, in Val d'Aosta, raggiunse a domanda i reparti di bombardieri sul Carso, a quota 144, rimanendovi tre anni; ebbe poi l'avvicendamento sul monte Altissimo, dove si guadagnò la croce di guerra. Interruppe la permanenza al fronte qualche giorno nel maggio 1918per venire a Milano ad assistere, al teatro Manzoni, alla prima della sua commedia L'amore stanco.
Era la sera del 16maggio: interpreti del lavoro, Irma Gramatica, Emesto Ferrero e Luigi Sabatini. Sono gli anni, a teatro, del "grottesco" (in quei giorni la Gramatica recita anche, a Milano, La maschera e il volto di Luigi Chiarelli), e "grottesco" era il sottotitolo dato-dal D. alla commedia. Vi compare infatti il personaggio del raisonneur sottile e disilluso (ma anche "malato di noia e di spleen"), che commenta ironicamente i fatti che accadono sulla scena e nella vita. La commedia ha tuttavia i caratteri di quel che sarà (sia pure più comico ed elegante) il teatro di un autore nato per divertire: teatro che sarà sempre "il gioco dell'equivoco e dell'impreveduto", come leggiamo in una battuta dell'Amore stanco. E già si annuncia in queste scene quello che verrà a essere il tema fondamentale di tutta (o quasi) la produzione del D. (che è poi il tema-base del teatro crepuscolare): l'evasione sognata e mancata, la fantasia che illude ma che non tarda a cedere, saggiamente, di fronte alle ragioni del reale e del buonsenso quotidiano. In questa prima commedia l'amore di Maria Luisa (una contessa) è stanco e tutto, intorno a lei, sembra "banale", "piccolo e mediocre"; quando le si presenta l'occasione di un "amore fantastico" (un domino rero e un nome pieno di fascino: "Mistero"), la donna vi si abbandona. Seguono lettere e sospiri. Ma il conturbante "Mistero" altri non è che lo stesso marito, mascherato e non riconosciuto. La rivelazione sarà sconvolgente: viaggio in Francia, divorzio. Ma ormai, dissoltosi "Mistero", che senso ha più l'avventura? Marito e moglie si riconciliano (dopo che lo spettatore è stato sulla corda fino all'ultima didascalia): riscoprono entrambi quanto davvero valga "la comune mediocre realtà della vita coniugale".
Tornato dalla guerra, il D. sposò Clotilde Scalzi, e continuò a lavorare per il teatro e per il cinema. In collaborazione con L. Doria aveva prodotto la commedia Colui il quale... è (1916) e, più tardi, La gloria e suo marito (1928): in collaborazione con G. Zorzi scrisse La dama bianca (1931) e, nel medesimo anno, La resa di Titì, dove il tema dell'evasione mancata (o del sogno rientrato) trovava una sua gustosa moltiplicazione: realtà per Paola e ricordo per Giovanna, la madre. C'è comunque da sottolineare, in questo caso, che la grazia di un lavoro condotto all'insegna della piacevolezza non esclude il sentore d'una malinconia appena adombrata ma autentica: è il massimo di profondità, questo, che si può chiedere al teatro del De Benedetti.
Il successo era comunque garantito, e il commediografo seguitò a scrivere commedie o ben fatte" e, solitamente, "ben trovate", anche se i personaggi ripetono le proprie connotazioni psicosomatiche (uomo pasticcione e prosaico, oppure troppo occupato, sicuro di sé e della moglie; donna frustrata, fervida e sognatrice), anche se non sempre le "sorprese" riescono davvero a "sorprendere". Del tutto prevedibile nel suo risaputo sentimentalismo è infatti Milizia territoriale (1933); Più sottile invece Lohengrin (1933) e anche, pur nella collaudata teatralità, più "vero"; i personaggi sono quelli di sempre, ma il disegno è fresco e immediato; il messaggio è semplice e sorridente: evadere dove, se gli uomini sono tutti fatti della stessa prosa? Guardate Lohengrin, sogno e chimera di tutte le donne: ha la pancetta, si addormenta dopo i pasti e per tirar sera necessita di bicarbonato.
Più fine ancora l'arguta e celeberrima Due dozzine di rose scarlatte (1936), che riprende l'argomento di Amore stanco, con tecnica più consumata, linguaggio mirabilmente fluido e colori sfumati (il più bell'acquerello del De Benedetti). Anche qui marito e amante si identificano, e ritorna, sui biglietti d'amore che fan sognare Marina, la firma di "Mistero". Scompare la figura dell'amico raisonneur per lasciare il posto a quella, più affabile, dell'amico pasticcione e goffo (un Tommaso Savelli che deriva dall'Orlandi di Milizia territoriale). Un errore telefonico, ventiquattro rose che sbagliano destinataria, e Marina crede di aver trovato il modo di "evadere dalla mediocre realtà". Ma il misterioso titolare d'un amore sottratto alla routine è soltanto il marito. Come dirlo a Marina? Come togliere di mezzo Mistero? Ci pensa l'amico Savelli: la sua falsa e interessata confessione ("Mistero sono io!..."), deludendo profondamente la romantica sognatrice, non fa che rinsaldare l'amore fra i coniugi.
Il D. era ebreo; nel 1939, a Parigi, gli venne offerta la possibilità di espatriare in America (garantiva per lui G. Miller, famoso impresario teatrale), ma il D. rifiutò e tornò in Italia. Gli si precluse però la via del teatro e il commediografo si limitò a scrivere soggetti e dialoghi per moltissimi film; ricordiamo Maddalena, zero in condotta (1941), Ore nove, lezione di chimica (1941), Teresa Venerdì (1942), Quattro passi fra le nuvole (1942), Ungaribaldino al convento (1942).
Nel dopoguerra il D. ritornò al teatro con Lo sbaglio di essere vivo (1945), dove l'uso di nuove tecniche (il flash-back cinematografico) non bastò ad allontanare il commediografo dai temi prediletti e dalla loro infallibile strutturazione teatrale: e il paradosso (questa volta di origine pirandelliana) si trasforma in trovata, sia pure più agra del solito. Non diversamente accade in Paola e i leoni (1964): se è vero che non vi mancano propositi satirico-morali, è altrettanto vero che la commedia resta chiusa nei limiti di una teatralità convenzionale, contro i quali si spuntano le possibilità di un autentico rinnovamento.
Ma ormai dopo il discusso esito di Buonanotte, Patrizia! (1956), lavoro abile e amaro (e ancora una volta crepuscolare con la sua convinzione che "non si possono prolungare i sogni"), il successo del D. cominciò a declinare. In Italia vennero rappresentati ancora i due tempi di Da giovedì a giovedì (1959); poi, sotto forma di atto unico, il primo atto di Un giornod'aprile (1966). Altre commedie (Illibertino, Appuntamento d'amore, Paola e i leoni) furono recitate soltanto in lingua spagnola a Barcellona, Madrid, Mar dei Plata.
Al D. non bastava che in Italia vi fosse la televisione a ricordarsi di lui; era sfiduciato, si sentiva superato dai tempi e messo da parte. Il 19 genn. 1970 lasciò una lettera alla moglie e si dette la morte.
Altre commedie: Non ti conosco più (1932), Trenta secondi d'amore (1937), Gli ultimi cinque minuti (1951), Muori, amor mio, Il destino si diverte, in A. De Benedetti, Teatro, Roma 1974 (il volume contiene anche le commedie citate nel testo, tranne quelle scritte in collaborazione).
Fonti e Bibl.: Necrol., in La Stampa, 20 genn. 1970; R. Simoni, Trent'anni di cronaca drammatica, III,Torino 1955, pp. 573 s., 426 s., 462, 464; IV, ibid. 1958, pp. 86 s., 133 s., 308 s., 377 s.; V, ibid. 1960, pp. 65, 199 s.; S. Torresani, Il teatro ital. negli ultimi vent'anni (1945-1965), Cremona 1965, p. 237; A. Fiocco, in A. De Benedetti, Teatro, cit., pp. 9-13; A. Perrini, ibid., pp. 17-22; R. Jacobbi, Teatro da ieri a domani, Firenze 1972, pp. 153 s.; G. Antonucci, Ilteatro di A. D. o la malinconia dell'umorista, in Studium, LXXI (1975), 1, pp. 135-39; G. Prosperi, I piccolicuori di D., in IlTempo, 4 genn. 1975; E. Maurri, Rose scarlatte e telefoni bianchi, Roma 1981, pp. 27-32; G. Antonucci, Storia del teatro italiano del Novecento, Roma 1986, pp. 116-21.