Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Aldo Rossi è stato uno tra i più autorevoli architetti e teorici della seconda metà del Novecento. L’importanza del suo lavoro risiede nell’ampiezza della sua visione, nell’originalità concettuale e nella profondità analitica della sua riflessione teorica, che segna un momento decisivo, tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, nel dibattito internazionale sul rapporto tra architettura e città.
Milano, la formazione
Aldo Rossi nasce e si forma a Milano. Si laurea al Politecnico nel 1959. Non ancora venticinquenne, è già impegnato in prima fila nell’intenso dibattito che attraversa la cultura architettonica ed urbanistica italiana di questi anni, divisa fra la ricostruzione post-bellica e il boom economico della seconda metà degli anni Cinquanta. Insieme ai così detti “giovani delle colonne” – un gruppo di studenti insoddisfatti degli stereotipi culturali e formali dello stile internazionale, stancamente imposto come nuova accademia – è attento anche alle discussioni promosse dal partito comunista e alla cultura di sinistra in genere, che tentano un superamento dell’esperienza neorealista (che in architettura si era espressa in alcune realizzazioni, come il quartiere Tiburtino a Roma) e la promozione di un linguaggio architettonico più consistente in termini strutturali, epico e rappresentativo insieme, capace di incarnare nelle sue forme una idea profonda di realtà. Sono questi gli anni in cui Rossi vive ciò che successivamente definirà la propria “educazione realista”, vale a dire una formazione architettonica non più rivolta esclusivamente all’apprendimento della professione, bensì coltivata attraverso l’interesse per la letteratura, la filosofia, l’arte e, soprattutto, il cinema, che Rossi intende come strumento privilegiato di conoscenza della città nelle sue forme fisiche e sociali. Molti degli scritti che l’architetto milanese dedica alla città fanno ampio riferimento al linguaggio cinematografico, considerato fecondamente analogo all’architettura stessa per il modo in cui descrive e monta la realtà delle cose, un modo sospeso tra rigore tecnico e affezione lirica.
Nel 1956 Rossi pubblica sulla rivista comunista “Il Contemporaneo” il suo primo saggio importante che è anche un vero e proprio manifesto di intenti: Il concetto di tradizione nell’architettura del neoclassicismo milanese. Rossi in questo scritto, che anticipa molti dei punti fondamentali del suo linguaggio, intende il concetto di tradizione come critica razionale di quanto è stato fatto e, dunque, come libera scelta di fronte alla storia. Per Rossi scelta di un linguaggio architettonico e forma urbana sono fattori intrinsecamente connessi all’interno di una ideologia architettonica messa a fondamento di una visione civile; una visione che, nel caso del neoclassicismo milanese, si manifesta chiaramente mediante l’interesse dello Stato per la cosa pubblica. Influenzato dalla riflessione politica e culturale di Antonio Gramsci e dal razionalismo scientifico di Ludovico Geymonat, il giovane Rossi interpreta il razionalismo dell’architettura neoclassica e di tutta l’architettura moderna non come una utilitaria economia della forma, ma quale riflesso, coscientemente formalizzato, di un vasto e riconoscibile movimento di idee: “Perché l’architettura si imponga come vasto movimento culturale e venga discussa e criticata al di fuori di una stretta cerchia di specialisti bisogna che esista un largo movimento progressista della società”. Solo una visione epica e strutturale del linguaggio architettonico può giungere a costituire una idea cosciente di città che, insieme all’architettura, deve essere liberata da letture normative e funzionali e rappresentata in tutta la sua pienezza di “cosa umana per eccellenza”.
Il lavoro a “Casabella”, le prime architetture
È attraverso questa idea di architettura che Rossi mette a frutto la propria collaborazione alla rivista “Casabella Continuità”, diretta tra il 1955 e il 1964 da Ernesto Nathan Rogers. Rogers, membro dello studio BBPR e professore al Politecnico di Milano, chiama a collaborare alla rivista alcuni giovani studenti e neolaureati tra i quali Vittorio Gregotti, Francesco Tentori, Guido Canella, Gae Aulenti, Silvano Tintori, costituendo così un gruppo di ricerca eterogeneo ma riconoscibile non solo per il taglio generazionale, bensì per la comunanza di interessi che si coagulano in una profonda e inedita analisi critica del contributo del movimento moderno all’architettura e alla città. Nella produzione editoriale della “Casabella” di Rogers, Rossi si distingue per una serie di recensioni di testi sull’architettura quali gli studi storico-critici di Emil Kaufmann sull’architettura dell’Illuminismo, ma anche per vere e proprie “scoperte” come il lungo saggio dedicato all’architettura e all’opera teorica di Adolf Loos, riferimento importante nella formazione di Rossi e fino a quel momento quasi sconosciuto in Italia. In tutti i suoi saggi su “Casabella” Rossi tenta una chiave di lettura del movimento moderno che di esso privilegi lo sforzo teorico e formale piuttosto che gli aspetti funzionali e normativi. Ed è all’interno di questa attività editoriale e di ricerca che Rossi matura lentamente il tema che più di tutti caratterizzerà la sua opera teorica, vale a dire il concetto di tipologia inteso come modalità generalizzante e strutturale di considerare il contributo dell’architettura alla costruzione della città. È dunque in questi anni che l’interesse di Rossi si sposta dal realismo a nuovi spunti di ricerca quali gli studi di linguistica di Ferdinand de Saussure e il pensiero di Claude Lévi-Strauss che, assieme agli studi di geografia urbana della scuola francese, costituiranno un importante riferimento metodologico per le sue ricerche urbane. Nel 1964, per conto dell’ILSES diretto da Giancarlo De Carlo, Rossi compie una ricerca su un isolato urbano a Milano.
L’esperienza di questa ricerca e le sue conclusioni metodologiche insieme all’insegnamento presso la cattedra di Caratteri Distributivi all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (IUAV), come assistente di Carlo Aymonino, portano Rossi a concettualizzare profondamente il problema dell’analisi urbana come studio autonomo e riconoscibile all’interno delle diverse discipline che si occupano della città. Nasce con questo intento L’architettura della città, il capolavoro teorico di Rossi, uno dei libri sulla città più importanti mai scritti da un architetto, ma anche fortemente equivocato per il suo stile, vicino a quello di un trattato, il quale serve a render chiaro, invece, un modo fortemente personale e soggettivo di vedere il rapporto tra architettura e città. Pubblicato nel 1966, il libro sarà tradotto nel corso degli anni Settanta e Ottanta in spagnolo, portoghese, tedesco, francese e, infine, in inglese, conoscendo una vastissima fortuna critica soprattutto negli Stati Uniti. La tesi centrale del libro è tutta racchiusa nel suggestivo incipit “La Città, oggetto di questo libro, è qui intesa come una architettura”. Per raggiungere questo scopo Rossi stabilisce due categorie di lettura del fenomeno urbano: da una parte il concetto di tipologia, inteso quale DNA della città, dall’altra l’individualità del fatto urbano, ovvero la riduzione dei fatti costituenti la città a forme precise, dimensionalmente accertabili, che allo stesso tempo incarnano nella loro fenomenologia complessa, valori che vanno al di là dell’architettura, come il concetto di locus. In questo senso il libro è profondamente debitore degli studi di geografia impostati da studiosi quali Marcel Poëte, Maurice Halbwachs, Jean Tricart, i quali avevano già definito l’idea di luogo nella formazione e significazione del fenomeno urbano. L’architettura della città verrà equivocato come il manifesto di una architettura autonoma, soprattutto a causa della avversione di Rossi per l’ingenuo approccio interdisciplinare che caratterizza l’architettura e l’urbanistica nei primi anni Sessanta; in realtà il libro dimostra una conoscenza globale del fenomeno urbano che situa l’architettura quale riflesso problematico di una serie di questioni che vanno ben oltre l’architettura stessa. Nei primi anni Sessanta, Rossi apre la carriera come architetto con una serie di progetti caratterizzati da un rigore estremo della forma. In opere come lo straordinario progetto di concorso per un monumento ai partigiani a Cuneo (1962), il ponte alla Triennale di Milano (1964), il progetto di concorso per la costruzione del teatro Paganini a Parma (1965), il monumento ai partigiani di Segrate (1965) mettono in evidenza l’interesse, “inattuale” in questi anni, per uno stile purista fatto di pochi elementi ossessivamente ripetuti; uno stile che renderà inconfondibile l’architettura di Rossi e che già a partire dai primi anni Settanta fa parlare di una vera e propria scuola rossiana. Il processo di riduzione elementare, cui Rossi sottopone le proprie architetture, ha come obiettivo il raggiungimento non di uno stile, bensì di un linguaggio capace di far emergere i caratteri generali della città. L’architettura di Rossi è infatti profondamente legata al testo urbano non mediante il ricorso a una immagine o a uno stile contestuale, ma perché si pone, attraverso il ricorso a poche figure tipiche – ballatoi, strade, gallerie, porticati – quale esperienza stessa della città. È con questo intento che Rossi progetta tra il 1969 e il 1971 le sue due opere più significative e intense, vale a dire l’edificio residenziale al quartiere Gallaratese a Milano (realizzato nel 1970) e l’ampliamento del cimitero di Modena (realizzato parzialmente nel 1978). In queste due architetture prevale uno stile austero, povero, assoluto, ma anche rituale e suggestivamente evocatore nel modo in cui celebra i temi dell’abitare e della casa dei morti. Si tratta di una architettura al grado zero, ma proprio per questo evocatrice di situazioni della vita quotidiana nelle quali si assottiglia la differenza tra invenzione e senso comune, tra disegno e archetipo.
Ai primi anni Settanta risalgono altre opere notevoli come la scuola elementare a Fagnano Olona (1972), l’enigmatico progetto per Casa Baj a Borgo Ticino (1973) e il surreale progetto di concorso per la Casa dello Studente a Chieti (1975). In quest’ultima opera Rossi sostituisce gli elementi astratti della sua architettura con forme letteralmente prelevate da riferimenti senza tempo come le grandi corti vetrate e le cabine balneari. Ma ancora una volta è con due opere non strettamente architettoniche che Rossi caratterizza in modo originale la propria opera. Nel 1976 alla prima Biennale di Architettura presenta una grande serigrafia intitolata La Città analoga: un compendio di riferimenti architettonici e urbani sui quali domina il David di Tanzio da Varallo assunto a simbolo di quella cultura lombardo-borromaica alla quale Rossi sente di appartenere.
Nel 1981 esce negli Stati Uniti, caldeggiata da Peter Eisenman e dall’Institute for Architecture and Urban Studies (IAUS), L’Autobiografia scientifica (pubblicata in Italia solo nel 1990), uno sconvolgente racconto autobiografico in cui le immagini severe evocate dall’architettura della città si dissolvono all’interno di uno spazio riempito di ricordi e di note letterarie. Il libro fa emergere la componente più originale dell’opera rossiana fino ad allora rimasta in ombra, ovvero il carattere inesorabilmente esistenziale del proprio linguaggio architettonico. In questo senso L’Autobiografia scientifica si ricongiunge idealmente proprio a quella vena letteraria e cinematografica che segna l’esordio intellettuale del giovane Rossi. Non è un caso che il libro avrà un certo impatto al di là della cultura disciplinare, influenzando personaggi assai diversi come il fotografo Luigi Ghirri e Thurston Moore (1958-), leader del gruppo rock Sonic Youth che a Rossi dedicherà il lungo brano Lost to the City. Nel 1980, alla Biennale di Venezia diretta da Paolo Portoghesi, Rossi realizza il Teatro del Mondo, un piccolo teatro galleggiante nel quale si confondono le immagini della Venezia di Carpaccio e di Jacopo Bellini con il ricordo dei fari lignei nel Maine. Se è vero che il Teatro del Mondo costituisce l’immagine più stilisticamente popolare dell’architettura rossiana, è anche vero che a partire da questa opera lo stile di Rossi si fa più riconoscibile e, dunque, facilmente clonabile da una schiera di epigoni che iniziano a ripeterne gli stilemi più scontati. Se gli anni Ottanta costituiscono il decennio di maggior proliferazione dell’architettura di Rossi, nonché il periodo nel quale la sua opera diviene popolare, negli anni Novanta l’impatto della sua teoria sarà fortemente ridimensionato dall’emergere di nuovi linguaggi, quali il decostruttivismo e, più tardi, l’architettura digitale, linguaggi sempre più lontani dal mondo di riferimenti dai quali erano nate le sue architetture. In fondo la stessa architettura di Rossi, in questo periodo, tranne poche eccezioni quali il Palazzo Hotel a Fukuoka, Giappone (1987), e il museo Bonnefanten in Maastricht, Olanda (1990), si fa meno interessante e più stancamente fedele ai propri temi, ai quali manca però, la provocatoria immagine teorica e formale delle prime opere. La carriera di Aldo Rossi si interrompe con la morte tragica nel 1997. L’improvvisa scomparsa lascia sul tavolo da disegno un progetto assolutamente controverso, ma che conclude significativamente il suo itinerario, ovvero la ricostruzione del teatro La Fenice a Venezia “com’era e dov’era”. L’interno della Fenice è immaginato da Rossi come Luchino Visconti l’aveva filmato nelle immagini iniziali di Senso. Realizzato postumo, tra molte polemiche, l’interno della Fenice più che una forzata ricostruzione in stile è l’approdo finale non tanto al mondo dell’architettura, quanto piuttosto a quel mondo cui Rossi è sembrato appartenere. Un mondo fatto di teatro, di cinema, di architettura concepita come scena della vicenda umana.