VECCHINI, Aldo
VECCHINI, Aldo. – Nacque ad Ancona l’11 febbraio 1884 da Arturo, un penalista molto affermato, e da Amelia Bandini.
Laureato in giurisprudenza, da Ancona si trasferì a Roma dove, sulle orme del padre, aprì uno studio legale e iniziò la professione di penalista; nella capitale frequentò l’Associazione liberale, un movimento vicino ai nazionalisti, e quando, nel giugno del 1914, nazionalisti, liberali e cattolici vinsero le elezioni amministrative, divenne consigliere comunale nella giunta diretta dal principe Prospero Colonna. Nel 1915, su posizioni fortemente interventiste di carattere nazional liberale, partecipò attivamente alla campagna per l’intervento, al punto che, come avrebbe ricordato in seguito, nelle giornate del maggio si trovava accanto a Gabriele D’Annunzio al Campidoglio e partecipò, con i nazionalisti, anche alla guardia al Quirinale. Partito volontario per il fronte, come ufficiale di complemento di artiglieria, operò dapprima sul fronte trentino, poi sul Carso e di nuovo sul fronte trentino, guadagnandosi anche una medaglia al valore. Il 30 maggio 1917, a Padova, sposò Domenica Serra e l’anno dopo nacque il loro unico figlio, Arturo. L’esperienza della guerra fu molto importante per Vecchini, tanto che molti anni dopo, nel 1942, la rievocò pubblicando a Urbino il diario di quei venti mesi in un libro, Parole e un po’ di vita, dedicato al figlio che era stato richiamato. Il testo degli anni di guerra, ricco di riferimenti al Risorgimento, rivela molti aspetti della sua ideologia, compreso un forte senso monarchico e un’ammirazione acritica per il re soldato.
Nel primo dopoguerra, sempre politicamente vicino ai nazionalisti, non si impegnò con il fascismo avanzante, continuando a esercitare la professione forense. L’adesione ai valori del fascismo avvenne esplicitamente nel 1924 durante la crisi Matteotti quando, nel giugno, ottenne dal segretario del Partito nazionale fascista (PNF), Roberto Farinacci, la tessera ad honorem con la motivazione ufficiale che, pubblicamente, aveva preso le difese del governo Mussolini; inoltre, dal punto di vista professionale, nel 1926, nel processo di Chieti contro gli autori del delitto di Giacomo Matteotti, a differenza di altri penalisti che avevano rifiutato l’incarico, accettò di difendere Augusto Malachia, autista della macchina con la quale era stato rapito il deputato socialista. L’11 aprile 1929, quando l’ex nazionalista Umberto Guglielmotti, suo amico, lasciò la carica di federale di Roma perché eletto in Parlamento, fu chiamato a succedergli (Staderini, 2014, pp. 133-149). La sua nomina però non fu bene accetta alla base del fascismo romano che non solo gli rimproverava la totale estraneità alle vicende interne del movimento, ma soprattutto contestava l’egemonia dei nazionalisti sulla federazione perché egli arrivava alla carica dopo importanti leader ex nazionalisti come, oltre a Guglielmotti, Italo Foschi. In effetti, come del resto Guglielmotti, egli aveva ben poco in comune con i fascisti romani, anche nel modo di comunicare. Ne sono un esempio le parole con le quali, insieme, il 14 aprile 1929, essi salutarono i fascisti romani dalle colonne del giornale Roma fascista, con toni più simili a un’aulica arringa in tribunale che a un programma politico: «Dunque, non sosta né smarrimenti; mai, né inquieti egoismi. Non sarebbero degni di noi. Di noi è degna l’offerta dell’anima immortale e della carne caduca all’ideale che ci brucia, se passione, le vene e illumina, se pensiero, le opere». La sua direzione della federazione romana non segnò particolari novità rispetto a quanto fatto dai predecessori perché anche Vecchini proseguì nell’organizzazione delle strutture periferiche fasciste per garantire un controllo sempre maggiore della base: diminuzione dunque nel numero dei gruppi rionali e aumento degli ispettori in città, ma anche attenzione al mondo giovanile e spazio crescente alle attività assistenziali. Nei venti mesi di gestione della federazione della capitale (il 9 gennaio 1931 fu sostituito da Nino D’Aroma), per la quale ricevette anche esplicitamente il plauso di Benito Mussolini, Vecchini agì in stretto contatto con la direzione del PNF, dalla quale ricevette sempre attestati di fiducia, anche quando lasciò la carica perché nominato ispettore della Confederazione professionisti e artisti e quando, nel 1934, fu eletto alla Camera dei deputati.
Dopo l’esperienza alla guida del fascismo romano, nominato consigliere fuori quadro della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN), si concentrò sull’attività forense privata, ma soprattutto sulle organizzazioni sindacali fasciste dapprima, nel 1933, come segretario della struttura provinciale romana e poi, dal maggio del 1935, come segretario nazionale. Curò molto anche la rivista Rassegna del sindacalismo forense, organo ufficiale del Sindacato nazionale fascista avvocati e procuratori, uscita dal maggio del 1935 all’aprile del 1943, con interventi anonimi e articoli firmati. La sua guida del Sindacato si caratterizzò per il tentativo di ottenere l’aumento nel numero degli iscritti (che in effetti passarono dal 46% degli avvocati nel 1930 al 67% nel 1935 e al 73% nel 1940; Meniconi, 2006, p. 188); per la difesa della libera professione forense rispetto all’attività degli avvocati dipendenti dagli uffici legali dei ministeri e degli enti parastatali; per i rapporti non sempre semplici con i ministri della Giustizia, soprattutto con Dino Grandi; per la grande attenzione all’Ente di previdenza per avvocati e procuratori, per la raccolta di fondi e per la concessione di maggiori poteri da parte del governo; per la sottolineatura dell’importanza dello stile e dell’eloquenza nella professione forense. Come membro della Corporazione professionisti e artisti, in rappresentanza degli avvocati nel 1939 divenne consigliere nazionale della Camera dei fasci e delle corporazioni. Nel 1940 lasciò polemicamente la presidenza dell’Ente di previdenza e diminuì il suo impegno nel Sindacato, dedicandosi alla redazione di volumi che raccoglievano suoi scritti ed esprimevano la sua idea del ruolo dell’avvocato. Nel libro Parole e un po’ di vita, dedicato «a coloro che credono nel destino d’Italia: rinascere sempre e ascendere, a quanti colleghi anonimi caddero con tale fede nel cuore», ripubblicò, oltre al diario di guerra, il testo di una conferenza del lontano 1909 all’Associazione monarchica di Ancona, prova della persistenza del suo sentimento monarchico, e alcune testimonianze sulla sua esperienza di federale. Un’altra raccolta di scritti, La missione dell’avvocato nuovo (Urbino 1940), era dedicata a Mussolini, ma anche a suo padre «dal cui puro e grande spirito m’ebbi il poco di forza che mi ha permesso di promuovere o sollecitare quanto concorre a tener viva la migliore tradizione della maschia avvocatura d’Italia». In un articolo del 1931, da lui inserito in questa raccolta, aveva scritto: «La tradizione nostra ci dice quali che dovremmo essere noi avvocati, e ci comanda che l’avvocato deve essere, nel regime fascista, professionista e “civis” insieme» (p. 11), con molta attenzione allo «stile» e a una specifica e studiata eloquenza. In realtà, per Vecchini la concezione del compito dell’avvocato comportava sì «il superamento della figura tradizionale dell’avvocato liberale, ma non tanto la pratica di un nuovo modello di avvocatura, quanto la prevalenza sulla missione professionale in senso stretto di altre sovrastanti dimensioni di impegno, di volta in volta politico, sindacale, giornalistico» (Meniconi, 2006, p. 102).
Dopo il 25 luglio 1943, durante il governo Badoglio, fu vittima di un’aggressione al palazzo di Giustizia di Roma da parte di avvocati antifascisti che quasi lo linciarono (Juso, 1998, p. 70). Aderì alla Repubblica di Salò e nel 1944 gli fu affidata, su proposta di Alessandro Pavolini e dopo aver avuto il 7 gennaio un colloquio con Mussolini, la presidenza del Tribunale speciale straordinario che avrebbe dovuto giudicare i gerarchi che il 25 luglio avevano esautorato Mussolini. Il difensore d’ufficio di Emilio De Bono ha testimoniato che già prima del 7 gennaio Vecchini aveva insistito con Mussolini, senza successo, per essere esonerato dall’incarico (Vené, 1963, p. 75). Secondo Vincenzo Cersosimo (1961, p. 38), giudice istruttore del processo, egli si trovava a Salò perché in procinto di partire per la Germania per un ciclo di conferenze ai soldati italiani internati dai tedeschi. Vecchini era letteralmente atterrito dall’atmosfera nella quale si sarebbe svolto il processo (Vené, 1963, pp. 70-75), in un clima teso, in una città ostile che voleva solo la condanna dei «traditori», tanto che, per non allontanarsi da Castelvecchio, sede del Tribunale, dormì sempre in una cameretta adiacente all’aula. «Che cosa accadrà? – confidò all’avvocato Riccardo Marrosu, difensore d’ufficio di De Bono – Non mi fido di nessuno, lavoro e dormo in questo buco. Gli squadristi sono scatenati e minacciano di ammazzare anche noi, gli antifascisti progettano attentati» (p. 75). Vecchini svolse il suo compito di presidente del Tribunale in modo professionalmente corretto, ma ne uscì visibilmente provato, nel corpo e nello spirito, soprattutto quando spettò a lui redigere e leggere la sentenza «con voce bassa appena intelligibile», anche a chi era molto vicino (Cersosimo, 1961, p. 218). Nelle convulse giornate dell’aprile del 1945 sembra che in un primo momento avesse seguito la colonna Mussolini ma poi, rientrato a Milano, malato (a Gardone aveva subito l’amputazione della gamba sinistra), evitò l’arresto per l’intervento di un religioso sollecitato dal Vaticano e, nel luglio, con l’aiuto dei familiari, riuscì a rientrare a Roma. Ricoverato in gran segreto in una clinica, morì il 25 gennaio 1946, molto probabilmente suicida.
Opere. Gli scritti di Vecchini, oltre a quelli reperibili nella Rassegna del sindacalismo forense, sono stati da lui raccolti in La missione dell’avvocato nuovo, Urbino1940, e Parole e un po’ di vita, Urbino 1942.
Fonti e Bibl.: Non sono molte le notizie su Vecchini ricavabili da fonti di archivio, per lo più concentrate sugli anni di Salò e sugli ultimi mesi di vita. Si vedano in particolare: Roma, Archivio centrale dello Stato, Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato, RSI, 1943-45, b. 38; Carteggio ordinario, b. 2402; Ministero dell’Interno, Direzione generale di pubblica sicurezza, Divisione servizi informativi e speciali (SIS), Sez. II, b. 171; Divisione polizia politica, Fascicoli personali, b. 1413; Ministero dell’Interno, Gabinetto, Archivio generale, Fascicoli correnti 1944-1946, b. 225.
Per le notizie biografiche: M. Missori, Gerarchie e statuti del PNF, Roma, 1986, pp. 132, 287; N. Sbano, Il dizionario degli avvocati di Ancona (1860-1940). La professione allo specchio, in Rassegna forense, 2010, n. 2, pp. 432-434. Per la ricostruzione della sua attività di penalista e di dirigente del Sindacato nazionale fascista avvocati e procuratori: A. Meniconi, La “maschia avvocatura”. Istituzioni e professione forense in epoca fascista (1922-1943), Bologna 2006, ad indicem. Per l’esperienza di federale di Roma: A. Staderini, Fascisti a Roma. Il Partito nazionale fascista nella capitale (1921-1943), Roma 2014, ad indicem. Per le vicende veronesi: V. Cersosimo, Dall’istruttoria alla fucilazione. Storia del processo di Verona, Milano 1961, pp. 38-46, 196-214, 216-251; G. Vené, Il processo di Verona, Milano 1963, pp. 70-167; R. Juso, Il processo di Verona. Una tragedia fascista, Roma 1998, ad indicem.