VERGANO, Aldo
VERGANO, Aldo. – Nacque il 27 agosto 1891 a Roma, da Sebastiano Lodovico (1858-1928), ufficiale telegrafico, e da Eleonora Zuddas (1867-1925). Era il più giovane di due fratelli: la sorella, Ines (1887-1950), fu maestra di scuola elementare.
Dopo gli studi superiori si iscrisse alla facoltà di architettura della Regia Università di Roma. Convinto interventista nel ‘radioso maggio’, con l’ingresso dell’Italia in guerra si arruolò volontario. Frequentò il corso di allievo ufficiale a Torino, per essere poi destinato al fronte albanese (4° reggimento genio pontieri), dove sarebbe rimasto fino al termine del conflitto, ottenendo anche i gradi di capitano.
Nel 1918, quando tornò in patria con la firma dell’armistizio, Vergano trovò un Paese in cui non si riconosceva più: le intemperanze dannunziane, e il sentir parlare di ‘vittoria mutilata’, dal suo punto di vista deprivavano di senso la sua esperienza di militare. Insoddisfatto e al contempo preoccupato per le derive che certe posizioni avrebbero potuto avere, decise di tentare la strada del giornalismo, per rispondere all’irrinunciabile pulsione verso l’impegno politico senza al contempo vedersi coinvolto nell’agone, in cui sentiva che si sarebbe snaturato. Se si esclude un primo abbozzo di collaborazione con il critico cinematografico Carlo Zappia, nel settimanale Pollice verso, l’inizio della sua attività giornalistica risale al 1921, e fu segnato dall’ingresso nella redazione del Popolo romano, quotidiano diretto da Olindo Bitetti e finanziato da alcuni industriali legati alla Banca italiana di sconto (G. Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra, Roma 1974, p. 376). L’ossatura della testata fondata da Leone Fortis fu essenzialmente costituita da democratici apertamente ostili al neonato Partito nazionale fascista, come d’altronde lo stesso Vergano, che all’epoca era ancora un centrista con caute aperture riformiste. Nel Popolo romano si occupò soprattutto della cronaca di provincia, affiancandovi però la critica cinematografica, coerentemente con i suoi esordi. Tuttavia, anche questo periodo della sua vita fu destinato a chiudersi presto: il 28 dicembre 1921, infatti, la Banca italiana di sconto fu messa in liquidazione, implicando così la chiusura del quotidiano che finanziava, seppure indirettamente.
Dopo una parentesi come corrispondente in Iugoslavia per l’Azione e Il Piccolo di Trieste, Vergano iniziò a lavorare per Il Popolo, neonato quotidiano voluto da don Luigi Sturzo e diretto da Giuseppe Donati (il primo numero uscì nel marzo del 1923; il 9 ottobre 1924 divenne organo ufficiale del Partito popolare). Questo giornale, caratterizzato da un approccio investigativo (Donati d’altronde è generalmente considerato un pioniere del giornalismo d’inchiesta), fu tra i più accesi avversari del regime; lo stesso Vergano non mancò di esporsi con i suoi articoli, anche perché condusse personalmente indagini piuttosto ‘scomode’, come quella per l’omicidio di don Giovanni Minzoni. Il culmine dell’ostilità fu raggiunto, come per gli altri giornali di opposizione, in occasione del delitto Matteotti, e non assunse solo la forma di una convinta opposizione a mezzo stampa: in seno alla redazione, infatti, fu più volte considerata l’idea di un’insurrezione armata che coinvolgesse anche Peppino Garibaldi e gli esponenti del gruppo Italia libera. Il 4 novembre 1924 un violento scontro con i fascisti in occasione di una manifestazione in piazza del Popolo (cui prese parte lo stesso Vergano) fece però desistere il gruppo del Popolo dai suoi propositi. Nel dicembre dello stesso anno Donati sporse denuncia contro Emilio De Bono, accusato di essere il principale responsabile del delitto Matteotti. Anche se l’affaire si concluse poi con l’assoluzione dell’imputato, le minacce di morte rivolte al caporedattore del Popolo si intensificarono a tal punto che fu costretto a emigrare in Francia. Di lì a poco anche Vergano, divenuto troppo scomodo per la sua vicinanza a Donati, fu licenziato. Si trovò improvvisamente in ristrettezze economiche, oltre che schedato dalla polizia, ma fu subito assunto da Fernando Schiavetti, direttore della Voce repubblicana, organo del Partito repubblicano. Si trattava di un giornale meno ambizioso e in vista rispetto al Popolo, ma proprio per questo avrebbe dovuto garantire a Vergano una maggiore tranquillità. Il giornale fu invece vittima di diversi assalti squadristi, e vivacchiò per circa un anno e mezzo, fino al 5 novembre 1926, quando il Consiglio dei ministri deliberò la revoca della gerenza di tutti i giornali antifascisti, sancendone di fatto la chiusura. Nel gennaio successivo la carriera da giornalista di Vergano fu troncata con l’espulsione dall’Associazione di stampa per ‘indegnità politica’.
Per sbarcare il lunario iniziò allora a commerciare cartoline in bromuro in giro per l’Italia del Sud. Non aveva mai smesso, nel frattempo, di coltivare il suo «segreto amore» per il cinema (A. Vergano, Cronache degli anni perduti, Firenze 1958, p. 65). Nel marzo del 1927 Alessandro Blasetti fondò la rivista cinematografo, che Vergano seguì con grande interesse, al punto che scrisse al direttore per proporgli una collaborazione. I due si incontrarono e fu l’inizio di un fortunato sodalizio. Blasetti era allora convintamente fascista, ma si dimostrò tollerante nei confronti dei trascorsi di Vergano, che dal canto suo decise di venir meno al suo intransigente idealismo pur di inserirsi nel ‘sistema cinema’. La collaborazione con cinematografo sfociò ben presto in una più ambiziosa impresa: animati dal desiderio di rinnovare la cinematografia italiana e darle nuovo lustro, i due giornalisti fondarono, insieme ad altri collaboratori, la società di produzione Augustus, partendo da un fondo personale di 13.000 lire cui se ne aggiunsero circa 30.000 riscosse mediante sottoscrizione pubblica promossa sulla rivista. Nella nuova società, il cui nome era un tributo ad Augusto Turati, Vergano prese l’incarico di vicedirettore generale e direttore dell’ufficio artistico.
Il primo progetto messo in cantiere fu Sole, un film muto oggi perduto quasi del tutto, votato essenzialmente all’esaltazione propagandistica della bonifica delle paludi dell’Agro pontino. La sceneggiatura e i testi furono scritti da Vergano che, al contempo, si dedicò alacremente alla ricerca di finanziamenti, anche durante il periodo delle riprese, iniziate il 20 dicembre 1928. Il film fu terminato nonostante le molte difficoltà, e anche se la prima riscosse grande successo, il risultato al botteghino fu talmente negativo da infliggere un colpo fatale all’Augustus. Il 1° giugno 1931 la società fu posta in liquidazione, anche in ragione del fallimento della Banca italo-britannica (A. Bernardini, Le imprese di produzione del cinema muto italiano, Bologna 2015, p. 236). Nonostante tutto fu l’inizio della carriera da cineasta di Vergano, che cominciò a collaborare fattivamente, insieme a Blasetti, con la società di produzione Cines, di Stefano Pittaluga. Nel giro di un anno vide uscire in sala ben quattro film di cui aveva firmato la sceneggiatura, oltre al cortometraggio documentaristico Fori imperiali, che segnò il suo esordio alla regia.
La prolifica collaborazione con la Cines continuò fino al 1936, lasso di tempo in cui furono prodotti diversi film scritti da Vergano. Si tratta di opere minori, perlopiù commedie che rientrano nell’ambito del ‘cinema dei telefoni bianchi’, tra cui Due cuori felici (1932), di Baldassarre Negroni, considerato un precursore di tale genere.
Nel gennaio del 1938 uscì Pietro Micca, primo lungometraggio diretto da Vergano, ispirato al sacrificio del militare sabaudo durante l’assedio di Torino del 1706. Il film, oggi perduto, rientrava nel filone dell’esaltazione militaresca, e fu tra i primi a essere girato negli stabilimenti di Cinecittà, fondati nel 1937. Seguirono altre sceneggiature di commedie, e la coregia, insieme a Benito Perojo, di I figli della notte (1939), la prima pellicola coprodotta tra Italia e Spagna dopo l’accordo siglato tra Dino Alfieri e Dioniso Ridruejo per la realizzazione di film di propaganda franco-fascista.
Lo scoppio della guerra nel frattempo indirizzò ancora di più la cinematografia italiana verso la celebrazione dell’eroismo bellico, e Vergano non fece eccezione: anche se a quel punto si era ormai fatto un nome come autore di commedie, abbandonò quasi del tutto quel genere. Nel 1942, sceneggiò e diresse il film Quelli della montagna, il cui soggetto era stato scritto nel 1941 da Cino Betrone, militare fascista caduto sul fronte albanese quello stesso anno. La pellicola è caratterizzata da un tentativo di intrecciare il melodramma sentimentale con la narrazione dell’impresa guerresca, e all’epoca ottenne un discreto successo di critica e ottimi incassi (Storia del cinema italiano, VI, Venezia 2016, p. 666). Tre anni dopo, a guerra conclusa, Vergano scrisse e diresse il suo film più importante: Il sole sorge ancora, uno dei prodotti maggiormente rilevanti del primo neorealismo.
La trama ruota attorno al soldato Cesare che, dopo l’armistizio del 1943, torna al suo paese, il fittizio Villavecchia. La sua vicenda sentimentale e privata si intreccia con la lotta partigiana, che giunge al culmine nel finale atto di sovversione della comunità contadina e di alcuni operai contro gli oppressori tedeschi, scatenato dalla fucilazione del parroco del paese, Don Camillo (Carlo Lizzani), e di un operaio comunista (Gillo Pontecorvo). I ribelli, grazie all’aiuto di un gruppo di partigiani che accorre come deus ex machina, sconfiggono gli invasori e ristabiliscono la pace.
Particolarmente riuscita la sequenza della fucilazione: il ritmo del montaggio è scandito dalle Litaniae lauretanae, recitate dalla popolazione che assiste, in un crescendo di intensità acustica e drammatica. Una preghiera che gradualmente assume i connotati di un religioso coro di protesta. La scena si apprezza anche per la carica allegorica, resa icastica dall’immagine dei corpi dei due giustiziati che cadendo si intrecciano.
Il sole sorge ancora, che fin dal titolo attinge al serbatoio della simbologia comunista, fu finanziato interamente dall’Associazione nazionale partigiani d’Italia (ANPI) e, diversamente dai film precedenti di Vergano, si focalizza sull’eroismo della collettività, alla cui battaglia si dà anche valenza classista. Vi compare pure come attore, nella parte del ferroviere.
L’opera ottenne un largo successo di critica e botteghino e valse al regista un Nastro d’argento (un secondo fu attribuito a Massimo Serato, per l’interpretazione del maggiore tedesco Heinrich).
Nel 1947 Vergano scrisse due sceneggiature a più mani: quella per la sua ultima commedia (Dove sta Zazà, di Giorgio Simonelli) e per Sperduti nel buio, di Camillo Mastrocinque, alla quale collaborò con Cesare Zavattini e Vittorio De Sica, anche protagonista del film. Nel 1949 uscì I fuorilegge, di cui firmò soggetto, sceneggiatura e regia. Il film, che ebbe per protagonista Vittorio Gassman, fu liberamente ispirato alle vicende di Salvatore Giuliano (il primo titolo era Montelepre), e segnò l’inizio della fase discendente nella parabola della carriera di Vergano: seguirono infatti pellicole minori, come Czarci zleb, di produzione polacca, cofirmata con Tadeusz Kanski e mai proiettata in Italia. L’ultimo approdo di Vergano regista fu il dramma ‘strappalacrime’, talvolta definito ‘neorealismo popolare’ o ‘d’appendice’: a questo filone appartengono Santa Lucia luntana e La grande rinuncia, entrambi del 1951. In qualche modo anche il successivo Amore rosso, ispirato a Marianna Sirca di Grazia Deledda, si colloca tra questi frammenti residuali del neorealismo. Si tratta di un film in cui Vergano tornò a intrecciare un melodramma sentimentale con la tematica del banditismo, in maniera forse più convincente rispetto a I fuorilegge. Gli anni Cinquanta conobbero il definitivo declino del regista e sceneggiatore: l’ultimo film, Schicksal am Lenkrad, di produzione tedesca, non arrivò mai in Italia.
Gli ultimi anni della sua vita furono segnati da un’amara malinconia, scaturita dalla condizione di marginalità cui il cinema lo aveva relegato con il tramonto del neorealismo. Egli sfogò tutta questa disillusione nel suo libro di memorie, Cronache degli anni perduti, cui lavorò alacremente dal 1955. L’opera è scandita in tre parti (La prima guerra mondiale, Il fascismo, Il cinema) tutte caratterizzate da un iniziale furor idealistico che naufraga, nei finali, in aspro disincanto frutto degli ideali traditi (anche nella terza parte, pur lasciata incompiuta). Il senso ultimo di questa autobiografia si coglie fin dal titolo, in cui gli anni vengono definiti perduti (e si affaccia il dubbio che si intenda drammaticamente sprecati, più che trascorsi): una scrittura catartica che attinge a vari registri, dal crudo realismo alla brillante ironia, con riprese di topoi cinematografici, in cui si avverte tutta l’istanza creativa dello scrittore, rimasta inespressa con l’uscita dal circuito cinema, in cui era entrato a costo di rompere con il suo passato antifascista.
Morì a Roma, la notte del 21 settembre 1957. Non risulta che si sia mai sposato né abbia avuto figli. Non è il padre dell’attrice Serena Maggiora Vergano, come riportato da alcune fonti.
Fonti e Bibl.: L. Del Fra, Testimonianza di V., in Bianco e Nero, XVIII (1957), 11, pp. 30-39; G. Vento, Gli anni perduti di A. V., in Cinema nuovo, CXVI (1957), pp.187-189; J.A. Gili, A. V. 1891-1957, in Anthologie du cinéma, VI (1970), 55, pp. 211-264; Atti del Convegno di studi sulla Resistenza nel cinema italiano del dopoguerra, a cura di C. Bassotto, Venezia 1970, passim; A. Baldi, Sole: da Roma alla Palude, in Bianco e Nero, LXIX (2008), pp.199-215; G.P. Brunetta, Il cinema italiano di regime, Bari 2009, passim.