ESTE, Aldobrandino d'
Figlio illegittimo del marchese Rinaldo (III), nacque a Ferrara nel 1325; sua madre era una vedova ferrarese di nome Lagia. Dopo la morte del padre nel 1335 fu accolto con il fratello Azzo nella casa dello zio Obizzo (III), che affidò i due ragazzi alle cure del pedagogo Copino di Reggio. In seguito ebbe modo di frequentare l'insegnamento scolastico tenuto nel palazzo dei marchesi d'Este a Ferrara dal maestro Tranchellino.
Nel 1344, per poter ricevere gli ordini sacri, chiese al pontefice di essere liberato dall'impedimento dovuto al difetto di nascita. Fu celebrato un processo, presieduto dal vescovo di Ferrara, Guido, delegato da papa Clemente VI, in cui furono ascoltati numerosi testimoni. Dalle testimonianze prodotte emerge la figura di un giovane onesto, studioso, dal comportamento irreprensibile, interessato maggiormente alla celebrazione dell'ufficio divino che ai giochi e alle bevute nelle taverne. Sulla base di tali testimonianze il vescovo di Ferrara gli concesse il 30 maggio 1344 l'ordine clericale nella cappella dell'episcopio.
A 23 anni, il 19 marzo 1348, Clemente VI da Avignone lo promosse vescovo di Adria. L'E. raggiunse subito la città a quel tempo funestata dalla pestilenza, ma fu consacrato solo il 3 maggio 1349 a Rovigo da Francesco, vescovo di Tiberiade, e dal frate minore Guadagno de Majolo, vescovo di Cervia. Rimangono della sua attività episcopale ad Adria due soli atti di natura amministrativa. Nel primo, rogato nel 1349, il presule riconfermava i benefici feudali e i beni della famiglia Malocelli di Ferrara posti sul territorio di Alberone. Il secondo documento riguarda i rapporti tra Adria e Ravenna a proposito dei centri abitati di Crespino e Grumolo, ceduti dal vicario generale ravennate nei primi giorni del 1352 all'episcopato di Adria.
Essendo morto il 4 giugno 1352 Alamanno Donati, vescovo di Modena, l'E. ottenne da papa Innocenzo VI di essere trasferito a questa sede episcopale prima dell'inverno del medesimo anno. Infatti egli è ricordato nelle fonti modenesi per la prima volta il 9 nov. 1352. Nella nuova sede l'E. dovette sostenere la politica del suo casato, che in quegli. anni era in lotta contro i Visconti per il possesso della stessa città di Modena, che fu assediata dai Milanesi nel 1354. I primi documenti d'archivio superstiti lo ricordano per questioni finanziarie: infatti il vescovo doveva contemporaneamente far fronte alle rate di pagamento della decima papale e ai sussidi per il mantenimento dei beni ecclesiastici molto provati dalle continue guerre.
Nel medesimo anno in cui l'E. fu nominato vescovo di Modena il cardinal Egidio di Albornoz lo scomunicò perché non aveva pagato una parte di quanto gli era dovuto per la legazione papale; solo dopo che il vescovo ebbe versato 193 fiorini fu assolto ad opera del priore dei domenicani e del guardiano dei francescani. Del resto, quasi tutti gli anni, sino al 1370, l'E. fu regolarmente scomunicato dai legati papali e dai collettori di decime pontificie perché dilazionava e procrastinava i termini di pagamento, oppure adduceva motivazioni per evitare i versamenti. In ogni caso l'E. alla fine fu sempre costretto a pagare e fu sempre puntualmente assolto dalle scomuniche, la qual cosa comportava di doversi sottoporre ad una penitenza canonica. Rimane un documento di tale procedura, datato 14 dic. 1370: si tratta di una dichiarazione, rilasciata da cinque poveri, i quali testimoniarono di aver ricevuto ciascuno una veste dal vescovo, il quale doveva in questo modo compiere una penitenza al fine di essere assolto dalla scomunica, inflittagli per aver pagato con molto ritardo l'ultima quota del triennio di decima di Innocenzo VI e la prima del triennio di Urbano V.
Le dilazioni nei versamenti erano dovute al fatto che i numerosi enti ecclesiastici della diocesi modenese, fra cui la potente e ricca abbazia di Nonantola, ritardavano a pagare la parte loro spettante delle imposte ecclesiastiche e per questa ragione più di una volta l'E. fu costretto ad intentare causa ai rettori, come nel caso dei processo del 1359 contro l'abate di Nonantola ed il priore di San Cesario. Inoltre, durante il periodo di guerra, i Milanesi avevano usurpato beni e castelli della Chiesa di Modena, sottraendo i redditi al vescovo e non fu semplice ottenerne la restituzione. Cosi, tra il 1354 ed il 1359 l'E. ricevette dal pontefice Innocenzo VI due lettere con le quali si ordinava ai presuli di Bologna, Reggio e Imola di intervenire affinché fossero restituiti alla mensa episcopale di Modena i beni e i redditi che erano stati occupati da laici ed ecclesiastici.
L'E. esercitò anche con scrupolo le sue funzioni di ordinario diocesano, esigendo che i rettori in cura d'anime assicurassero la pastorale ai fedeli, come dimostra il caso, molto complesso, del rettore della chiesa parrocchiale di S. Nazario del castello di Vignola, che, ottenuta la prebenda, si era recato a Bologna per frequentare lo Studio generale. Nel 1368 il vescovo non esitò ad andare contro i privilegi concessi da Urbano V all'università di Bologna, imponendo al rettore di Vignola, allora studente bolognese, di abbandonare lo studio per prendere residenza presso la sua chiesa parrocchiale. La questione assunse toni drammatici, ma fu poi risolta nel maggio 1369 con un accordo in base al quale il rettore di Vignola avrebbe potuto risiedere presso l'università a patto che mantenesse un sostituto nella chiesa di S. Nazario per amministrare i sacramenti, così che il popolo non avesse a subire una carenza di cura pastorale.
Va anche segnalato l'impegno caritativo e liturgico dell'E., che il 26 maggio 1372 donò una casa all'ospedale modenese della Morte affinché i conversi del pio luogo pregassero per la salvezza della sua anima. Inoltre fece realizzare a proprie spese un reliquiario d'argento contenente il capo del beato martire Taraco, al fine di incrementarne il culto nella diocesi. Sempre in connessione con il culto, ma riferito questa volta al santo patrono di Modena, durante l'episcopato dell'E. fu eseguita una statua in bronzo di S. Geminiano, che nel 1376 fu posta sulla porta regia della cattedrale di Modena.
Ma l'opera di maggiore importanza fu la visita pastorale alla diocesi, a partire dal 1368, di cui rimane quasi tutta la documentazione. La visita fu indetta il 15 novembre e affidata all'arciprete della cattedrale, Domenico da Bologna, vicario generale, che ebbe il compito di indagare, riformare e correggere gli ecclesiastici, a cui era affidata la cura d'anime, ed il clero regolare maschile e femminile dipendente dal vescovo. Il vicario, per prepararsi al compito che lo è attendeva, raccolse i verbali di alcune visite precedenti non complete, realizzate sotto il medesimo presule negli anni 1359 e 1365, dai quali dedusse un articolato questionario da sottoporre al clero. Le domande vertevano sui titoli di possesso dei benefici e sui redditi, ma anche sull'attività pastorale e sacramentale dei sacerdoti, nonché sullo stato spirituale dei parrocchiani. Allo stesso modo le interrogazioni rivolte al clero regolare e ai conversi degli ospedali miravano ad accertare l'osservanza delle varie regole di vita e l'onestà di comportamento dei monaci e delle monache, insieme con la corretta amministrazione dei beni patrimoniali e all'adempimento degli obblighi di ospitalità e di cura per i pellegrini e per gli ammalati. La visita fu certamente conclusa prima del 26 apr. 1369, poiché in tale giorno l'E. pagò al suo vicario generale 56 lire e 5 soldi di Modena come completo stipendio per l'attività svolta.
Un altro aspetto dell'impegno episcopale in campo giuridico dell'E. riguardò il controllo sui rustici che dipendevano dalla mensa di Modena e sui quali il vescovo vantava diritti di natura signorile. Il Codex pensionarius, scritto tra il 1364 ed il 1365 dagli amministratori del vescovo, rivela che intorno al problema dei "manenti", cioè dei rustici che lavoravano da antichissima data, loro ed i loro antecessori, le terre della mensa vescovile, pagando dei canoni in natura, vi era stato un accordo tra il vescovo e il Comune di Modena. Il presule aveva ottenuto che i rustici dell'episcopato, per i quali fosse stato possibile dichiarare il loro stato di "manenti", godessero di particolari benefici e soprattutto fossero immuni dagli statuti comunali. Essi divenivano così uomini del vescovo a cui giuravano fedeltà e promettevano di pagare i "servicia manentia". Tali prestazioni furono ricordate il 6 sett. 1365 e consistevano nel pagamento al vescovo, una volta all'anno, di un quartario di frumento e di una mina di spelta, più 6 soldi imperiali "pro porcata" e 4 soldi "pro montonata", cioè per il diritto di tenere i maiali e i montoni e le pecore, Inoltre per la festa di S. Geminiano i "manenti" dovevano un quarto di agnello e la quarta parte di una giornata di un falciatore di erba ed una gallina e mezza.
Con tali provvedimenti il vescovo non solo inirava ad incrementare i redditi ecclesiastici fortemente decurtati dalle guerre e dalle imposizioni papali, ma si assicurava il dominio sugli uomini e insieme otteneva che essi continuassero a coltivare, di generazione in generazione, le terre della Chiesa, evitando che esse si trasformassero in incolti. Inoltre, tra il 1364 ed il 1373, il presule aveva avviato un programma di sfruttamento e bonifica di terre malsane, denominate "Palude del vescovado", nella zona di Vignola e di tale attività rimangono numerosi atti di locazione non ancora studiati.Mentre era intento a queste opere materiali e spirituali l'E. fu trasferito, tra il novembre 1378 e il marzo 1379, da papa Urbano VI alla sede vescovile di Ferrara, sua città natale. Ivi rimangono pochissime notizie della sua attività episcopale tutte riferibili ad atti amministrativi e a concessioni di prebende ecclesiastiche. Al contrario, nell'erudizione locale, dal Seicento all'Ottocento, è rimasta la fama di una sua attività caritativa e dei suo amore verso i poveri; sembra addirittura, ma non vi sono documenti in proposito, che il suo successore, Guido da Baisio, lo abbia proclamato beato.
Dopo aver confermato all'abate Pietro Atyn i privilegi del suo monastero di S. Batolo, l'E. morì improvvisamente il 30 ott. 1381 e fu sepolto in un sarcofago di marmo bianco, posto lungo il muro perimetrale della chiesa cattedrale, a sinistra della cappella di S. Caterina, presso il battistero. Sul sepolcro fu posta una iscrizione tramandata dall'Ughelli. La tomba fu distrutta nel corso dei lavori di trasformazione della basilica nel 1662 e di essa non rimase più traccia.
Fonti e Bibl.: Chronicon Estense, in L. A. Muratori, Rer. Ital. Script., XV, Mediolani 1729, coll. 412, 450, 453, 507; Chronicon Estense, in Rer. Ital. Scrip., 2 ed., XV, 3, a cura di G. Bertoni-E. P. Vicini, pp. 120, 162, 165; B. Ricci, IlLiber censuum del vescovado di Modena, Modena 1921, pp. 94-106, 179, 238 s.; C. Libanori, Ferrara d'oro imbrunita, Ferrara 1665, II, p. 52; F. Ughelli-N. Coleti, Italia sacra, II, Venetiis 1717, coll. 130, 403, 547; G. Tiraboschi, Mem. stor. modenesi, II, Modena 1794, pp. 70 s.; B. Ricci, Di A. d'E. vescovo di Modena, in Atti e mem. della R. Deput. di storia patria per le prov. Modenesi, s. 5, III (1904), pp. 179-221; Id., Di un frammento di atti di visite pastorali del vescovo A. d'E., ibid., IV (1905), pp. 15-79; L. Chiappini, La vicenda estense a Ferrara nel Trecento, in Storia di Ferrara, V, Ferrara 1987, p. 230; C. Eubel, Hierarchia catholica..., I, Monasterii 1913, pp. 71, 353.