ALEARDI, Aleardo
Aleardi Gaetano Maria (assunse più tardi il nome con cui divenne famoso, Aleardo) nacque a Verona il 14 nov. 1812 dal conte Giorgio e da Maria Canali: dal padre accolse, forse, certo spirito aristocratico, che conservò nella vita e negli ideali, e dalla madre quella educazione del cuore che lo fece sensibile alle miserie degli infelici e schiettamente democratico in politica. Fanciullo malinconico, poco vivace nei primi anni di studio, si aperse poi ad entusiasmi improvvisi e diversi per la letteratura, la scienza, la vita sportiva. Frequentò di contraggenio i corsi di legge all'università di Padova, conducendo spensierata vita studentesca in compagnia di amici carissimi, tra i quali il Fusinato e il Prati: si accese ancor più d'amore alla poesia e d'amore di patria; e la donna, la natura, la patria, la poesia, furono le costanti passioni della sua esistenza. Dopo la laurea tornò a Verona, dedicandosi a quella vita di libero studioso e di artista, che gli fu sempre dolorosa per le ristrettezze finanziarie e per la solitudine cui lo costrinse, ma che corrispondeva alla sua nativa vocazione; per questo non volle mai formarsi una famiglia, alla quale l'avrebbe indotto la nativa affettuosità del carattere. Negli studi, incominciò a interessarsi di cose dantesche e di critica d'arte, intraprese qualche viaggio d'istruzione; per la poesia, concepi in questo tempo i primi lavori dati alle stampe e i primi disegni di altre opere, che verranno alla luce nella redazione definitiva una decina d'anni più tardi.
Nei suoi primi componimenti risentiamo con facilità l'influsso del Manzoni e del Foscolo. Ne Il matrimonio (1842) canta il diffondersi del vincolo coniugale nelle varie civiltà, nell'Arnalda di Roca (1844) l'eroismo di una fanciulla che sacrifica la vita all'onore e all'amore: un lungo poemetto storico, in cui non mancano scorci di taglio drammatico, pennellate di colore, note d'affetto, ma in cui sono anche enfasi ed ingenuità giovanili, con quella tendenza allo scenografico, che sarà poi caratteristica nella fantasia del poeta. In questo periodo egli compone un poemetto storico, Il Bragadino, che fu poi distrutto per motivi politici, concepisce un altro poema, Il Mosé, a esaltazione di Pio IX, e quei Canti della campagna romana che rielaborerà poi ne Il monte Circello. Ma ottiene il primo successo con le Lettere a Maria (1846): due lettere in versi sciolti, in cui il poeta propone un platonico amore, in nome delle comuni sofferenze, a una cara amicizia, e parla, del destino umano, dell'immortalità dell'anima, dei motivi per cui crede in essa. Le Lettere a Maria ebbero fortuna perché corrispondevano a quella affettuosità del sentimento tanto celebrata in altri poeti, come ad esempio in Lamartine, e a quell'ansia di certezza, d'infinito, di religiosità che costituiva uno dei motivi fondamentali della temperie romantica. Ma più di un tono qui non convince. Non che l'A. non fosse sincero, perché fu onesto e galantuomo quant'altri mai: ma la sua stessa debolezza di carattere, l'indole affettuosamente mite e ingenua lo inducevano a un manierismo sentimentale, che era della sua natura ancor prima che della sua poesia. Questa indefinitezza sentimentale fu anche, in lui, incertezza di pensiero e incertezza di gusto: fedele alla teoria romantica delle due arti, l'arte olimpica e l'arte sentimentale, e avverso per evidenti motivi contenutistici all'Arcadia, al Seicento, alla mitologia, proprio attraverso questo contenutismo volle nell'arte non solo un forte impegno politico, ma anche interessi di cultura di scienza e di fiòosofia: e pure non mancò di avvertire altre volte che la forma è connaturata al pensiero e che l'arte dovrebbe avere in se stessa il proprio fine. Così pure, a volte, affermò che l'arte è pazienza e sapienza, e mai seppe soffermarsi sui suoi versi, con lavoro di lima: non appena scritti, gli venivano in uggia. Anche la sua posizione verso il realismo è assai dubbia, perché egli afferma che oggetto dell'arte è la verità, ma una verità "cinta di stelle": così che nella sua opera la tendenza al reale si affaccia con improvvise disarmonie tra i sentimenti e gli affetti più astratti e ideali.
Il poeta stesso fu sempre consapevole di questa sua incertezza teorica, di questa sua debolezza nativa, che lo portava alla dispersione o all'artificio che cela la dispersione: volle scusarsene, attribuendo alla censura la colpa di certe oscurità, ai tempi in cui visse la mancata ispirazione di lunghi periodi, ma non mancò poi, nei rapporti privati con gli amici, e tra essi il Manzoni e il Martini, di confessare i li-miti della sua opera, che con scorato pessimismo credeva tutta destinata all'oblio in breve volger di tempo: e riconosceva solo al Carducci il merito di aver scelto la via giusta.
Invero, si osservano nella vita dell'A. strani periodi di assoluta incapacità creativa, che d'altra parte dimostrano come egli componesse soltanto quando se ne sentiva l'ispirazione. Periodo infecondo è, ad esempio, quello successivo trascorso a Parigi, inviato in missione speciale da Manin per sostenere la causa di Venezia, nel 1848: ma la delusione politica fu talmente forte che il poeta meditò persino di emigrare in America, e ne fu dissuaso soltanto dal pensiero della sorella e della patria che avrebbe dovuto lasciare forse per sempre. Dopo l'esperienza politica, ritorna a Verona, ove conduce vita triste e solitaria, languendovi "come una panetana in ombra malsana", sorvegliato dalla polizia che, nel 1852, in occasione dei processi di Mantova, lo arresta e lo rinchiude nella fortezza di quella città. Liberato dopo dura prigionia, ritorna a Verona, ove affronta altre dolorose esperienze: delusioni amorose, malattie, l'impressione di aver fallito nella propria vita e nella propria arte. Tra le poche liriche di questo periodo ricordiamo una novella in versi, Francesca da Rimini, e poesie composte per il tradimento di una donna, i suoi "fiori del male", come fu detto: ma si tratta di ben povera cosa. Per non trattare temi politici, per i quali era sempre in sospetto della polizia austriaca, compose anche un idillio, Raffaello e la Fornarina (1855), in cui affermava simbolicamente il diritto dell'artista all'amore in nome delle sue creazioni di bellezza: un componimento, insomma, che nella sua concezione nasconde venature di poetica predecadente, ma su cui grava un falso realismo biografico di cattivo gusto, con episodi e battute leziose, mentre il poeta sembra farsi paraninfo tra il pittore e la sua ispiratrice. La vena poetica riprende, invece, improvvisamente vigore poco dopo, intorno al 1856: e sono questi gli anni in cui l'A. compone le sue cose più belle. Riprende e rielabora alcuni canti già composti, e pubblica così Il Monte Circello, in cui immagina di scorrere dall'alto la campagna delle paludi pontine, e ne trae occasione per quadri dolorosi (i mietitori condannati alla malaria) o per delicate e insieme colorite rievocazioni storiche (Corradino e il castelo d'Astura): due liriche tra le più belle, brani realmente degni, come comunemente avviene, di una raccolta antologica esemplare. Ristampa integralmente anche le Prime storie (1857; aveva incominciato a lavorarvi dopo il 1846) in cui, rifacendosi alle prime vicende dell'umanità e quindi alle varie fortune della nostra terra, ne trae auspicio per i migliori destini. É una raccolta di quadri staccati, in cui mancano assolutamente il senso e la prospettiva storica, ma in cui sono forti visioni di vicelide bibliche, quadri ispirati di nature vergini ed esotiche: una nuova esperienza, e forse la più sostenuta, della poesia aleardiana. Compone anche Le antiche città italiane marinare e commercianti (1856), in cui il quadro storico si fa assai più concreto e fedele, con grande vantaggio dell'unità compositiva: e anche qui non mancano versi caldi e ispirati come, a esempio, quelli dedicati a Pisa.
Fiorisce in questo tempo qualche tentativo di satira, e la sua più impegnata poesia politica, che vedrà la luce, tuttavia, più tardi, dopo una nuova dolorosa esperienza. Compone alcune notissime liriche, Le tre fanciulle, I tre fiumi, Triste dramma, che verranno raccolte alcuni anni dopo sotto il titolo di Canti patrii: questi canti, infatti, non vennero pubblicati allora perché, nel giugno del 1859, nell'improvviso aggravarsi della situazione militare, egli fu nuovamente arrestato e inviato a Josephstadt, in Boemia, ove ebbe molto a soffrire, ma ove rimase fortunatamente non a lungo, per la rapida conclusione della guerra. E si tratta di un periodo sterile per la poesia, fatta eccezione per qualche breve componimento non privo di grazia (Sehensucht). Ritornato in Italia, si stabilisce a Brescia, ove dimora per quattro anni: e ritorna alla poesia politica, con I sette soldati (1861), racconto delle vicende di sette militari austriaci morti in battaglia e nativi di lontane regioni, e con il Canto politico (1862), in cui, anticipando certa poesia carducciana, condanna con insolita veemenza quanti si oppongono a che Roma divenga capitale d'halia. Riceve intanto anche i primi riconoscimenti ufficiali: gli si offre la cattedra di letteratura italiana all'Accademia di Brera, già tenuta dal Panni, viene eletto deputato e presidente dell'ateneo bresciano. Ma uno strano timore a parlare in pubblico e uno stanco sentimento di scoratezza, di sfiducia, lo assale ora: rinuncia alla cattedra. Con gli ultimi canti politici (I fuochi sull'Appennino, 1864) si spegne ormai anche la sua vena. Non gli rimane che raccogliere in una edizione unica tutta la sua produzione, alla quale fa precedere due pagine autobiografiche sulla natura della sua vocazione alla poesia: una confessione affettuosa e dimessa, anche manierata, non una dichiarazione squillante.
Il poeta, nel 1864, si trasferisce a Firenze, ove accetta la cattedra di estetica all'Istituto di Belle Arti: e qui rimane per il resto della sua vita, preparando con cura e non senza fatica i corsi ai quali accorre un pubblico sempre più numeroso e sempre entusiasta. In questo l'ultimo periodo della vita dell'Aleardi. Egli ha onori e fama, viene eletto senatore nel 1873, tiene conferenze e discorsi che gli offrono plausi e consensi, crea ora di sé quel mito di poeta salottiero, che non dispiace a certa ingenua civetteria della sua anima semplice, ma che susciterà poi aspre reazioni: e tra i consensi incominciano proprio ora anche gli attacchi più aspri. E, sopra tutto, la sua esile vena poetica ormai tace: neppure la terza guerra d'indipendenza gli ispira il canto desiderato. Ha il solo conforto di qualche amicizia gentile; ormai sopravvissuto a se stesso, e consapevole di questo, muore improvvisamente a Verona il 17 luglio 1878.
Chi si trovi, a distanza di tempo, a voler giudicare con serenità l'opera dell'A., non può nascondere certo senso di disagio, che nasce dalla prima lettura. Egli, in un primo istante, può stancare il lettore, o persino muoverlo al sorriso; ma, quando si superi tale impressione e si voglia guardare un poco più addentro nelle strutture della sua poesia, si ha la gradita sorpresa di ritrovare più di una pura vena di canto.
In passato, gli si è mossa l'accusa di essere un imitatore: ma è l'accusa meno consistente. È vero che molti dei suoi versi ci ricordano Dante, Foscolo, Leopardi, Manzoni, o Byron, Lamartine, Hugo, ileine; è vero che, non a caso, sono stati fatti altri nomi, Musset, Uhland, Goethe, Shakespeare, Freiligrath, Ruckert, Platen, Virgilio, Properzio, Catullo, e persino il Fracastoro (aggiungeremmo una singolare affinità con certa poesia del Poerio). Pure, basta il confronto puntuale per dimostrare che quei versi rientrano nella sua opera come il materiale antico in una costruzione nuova. Si tratta di vari sedimenti di una cultura non ricca e dispersa e pur non superficiale, che affiorano alla memoria del poeta, ma non fanno storia: e la sua stessa dichiarazione in proposito, di non aver imitato mai, deve essere accolta con fiducia. Altre accuse, invece, hanno ancor oggi il loro pieno significato: quella, a esempio, di aver creato una poesia molte volte priva di nerbo, o molte volte segnata da ingenuità improvvise. L'A. tende al narrativo, manca di sintesi, si svia dietro ai particolari, come se fossero le sue sirene incantatrici. Così il motivo umano perde forza, e tutto si ammorbidisce in lui: l'epiteto trionfa sul sostantivo e sul verbo, l'astratto sul concreto, l'elemento fonico finisce per dominare e snaturare l'elemento visivo. Inoltre, frequentissimi sono i trapassi irrazionali e pesanti, i paragoni ora leziosi ora grotteschi, le ingenuità sentimentali. Queste disavventure della poesia aleardiana si potrebbero controllare m uno studio specifico anche attraverso le disarmonie dello stile, come in parte fece il De Lollis: i diminutivi e ancor piu i vezzeggiativi sono frequenti, e frequentissimi poi i vocaboli scientifici o tecnici, i quali male si armonizzano con i termini del classicismo più aulico o con le nuove formazioni verbali: così che la sua poesia, narrativa per l'ampiezza dello svolgimento e del ritmo, passa con scosse troppo forti dallo stile familiare a quello improvvisamente sciatto o a quello sostenuto ed eloquente. Disarmonie tutte che derivano dalla situazione umana e culturale insieme, per cui bene l'A. si inserisce nel secondo romanticismo. La forte passionalità dei romantici, irrazionale, istintiva come una forza prima della vita, si è fatta ora costume, ha perduto di intensità ed ha acquistato continuità di atteggiamenti: il sentimento tende al sentimentalismo, il dolore si fa malinconia, la disperazione scoramento, l'ideale speranza, l'amore infatuazione. E il reale sembra avere il sopravvento sull'ideale. Di qui la necessità, caratteristica in molti tra questi poeti, di vivere almeno nella vita il loro sogno di poesia, di esprimere con l'azione stessa quel mondo che essi non riescono a esprimere con la parola. Anche per questo la tendenza all'autobiografia costituisce ora un peso assai greve. L'ispirazione è discontinua e faticosa, deve muovere da stimoli esterni: l'A. trascorse anni, come vedemmo, senza scrivere un verso, e per scriverne doveva essere commosso o da un dolce sguardo femminile, o da una intima necessità di pianto. Lo stesso classicismo della sua poesia sembra assunto in funzione di una nobiltà e di una forza che il poeta non ha di per sé, e cerca quindi di attingere alla tradizione. Per questi motivi l'A. appartiene alla seconda stagione romantica. Ma non tutta la sua poesia rientra in questa caratterizzazione. A volte c'è in lui una delicata e gentile notazione di sentimento, a volte la forza di un'immagine (specie nella poesia patriottica) di insolito vigore drammatico, la concretezza di un particolare, che ha un suo realismo tutto vivo. Altre volte, e ancor più frequentemente, la sua poesia ci presenta scene di una serena, compiuta armonia, specie nelle descrizioni di terre vergini, di paesaggi affascinanti: per questa armonia di composizione, più che per la ricchezza dei particolari o per l'intensità e la felicità dei colori, è bene accettare la definizione che l'A. dava di se stesso, di poeta pittore. Certi quadri di Ingres o di Hayez o certe illustrazioni dell'Atala di Chateaubriand potrebbero venir felicemente accostati a questo gusto pittorico della poesia aleardiana. Quasi sempre poi, ed è forse il dono più nativo e fecondo, avvertiamo nel verso ampio - che risolve felicemente anche il più artificioso espediente fonico, o l'accordo piano o la snella movenza - una risonanza musicale che ha suggerito a qualche critico il paragone con le melodie belliniane: e in questa musicalità il poeta sfuma i suoi quadri migliori, quelli in cui si sottrae alla tentazione della suggestione autobiografica, con immagini di serena o malinconica bellezza.
Dell'A. è necessario, tuttavia, prendere in considerazione anche un altro aspetto, sino ad oggi non sempre debitamente riconosciuto: la sua grande importanza culturale, non tanto per quel suo rifarsi al decoro della forma classica, di cui abbiamo avvertito l'origine e ilimiti, o per quel suo gusto realistico che affiora saldo tra le nebbie fluttuanti del sentimento: non tanto e non solo per questo. Neppure gli attribuiremmo importanza per il fatto che le tendenze più disparate del romanticismo, che ormai volge al decadentismo, si avvertono già tutte nella sua lirica, che è fenomeno proprio anche di altri poeti; piuttosto, per il magistero anche formale che egli seppe esercitare su quanti vennero dopo di lui, sui poeti stranieri, e sui poeti italiani, sopiattutto. Alcune tra le più note immagini carducciane derivano dall'A., come anche alcuni singolari componimenti del Pascoli, che grandemente lo ammirava; certe audacie stilistiche del Tommaseo, in prosa e in verso, che egli accolse come fonte, le trasmise alla letteratura che seguì; certo scetticismo ingenuo dello Stecchetti, certe libertà metriche del D'Annunzio, certe inquietudini anche stilistiche del Fogazzaro, certe cadenze fra compiaciute e abbandonate dei crepuscolari, derivano dall'esperienza della poesia aleardiana. L'Aleardi, con assai migliore efficacia di altri, segna quel momento del romanticismo che si apre ormai su prospettive nuove.
Non di grande rilievo l'opera del critico, che si esercitò soprattutto nel periodo fiorentino e quasi unicamente nella critica d'arte: non mancano fini e belle osservazioni, che, tuttavia, acquistavano valore più nei toni suadenti e affettuosi della sua voce che nella ricchezza dell'"humus" culturale: l'opera di un conferenziere felice.
La fortuna critica dell'A, èvaria, ricca di chiaroscuri e di forti contrasti. I primi giudizi notevoli risalgono ai suoi contemporanei, al Romani, che mise in luce certa sua istintiva naturalezza non sempre utile all'arte, al Tenca, che lodò il dono di certa musicale indefinitezza della sua forma, al Cattaneo, che scopri in lui la forte vena realistica. Quasi sempre favorevole il giudizio del pur difficile Tommaseo, ed entusiastico il giudizio dei patrioti e degli uomini del Risorgimento, come, ad esempio, quello del Troya. Il periodo di più alta fortuna della poesia aleardiana corrisponde all'incirca all'epoca di composizione de I sette soldati: e per le molte edizioni uscite alla macchia il poeta si decise alla stampa di tutti i suoi canti. Ma già nel 1865, in un articolo dello Zoncada, si avanzavano dubbi sulla sostanziale solidità di fondo del suo mondo poetico: il Rapisardi e il Capuana lo attaccarono come poeta troppo idealista, il Rovani accolse il paragone, poi tante volte richiamato, col Prati, definendolo meno puro e meno vero di lui: ma l'episodio più clamoroso della mutata tendenza si ebbe con la ben nota stroncatura dell'Imbriani. Lo stesso Trezza, che gli fu amico e che subito dopo la morte curò la pubblicazione di parte dell'epistolario, dopo un'analisi abbastanza attenta, anche se limitata e troppo soggetta all'influsso della personale amicizia, concludeva con giudizi assai cauti ("Musa gentile, onesta e magnanima"; e una delle figure più simpatiche del nostro Risorgimento"). Verso la fine dell'Ottocento la fama dell'A. era in completo declino: non mancò chi, con poca generosità, disse che la sua musa era imbellettata, e chi lo defini anche poeta delle signore.
La fortuna dell'A, riprende, sia pure con qualche contrasto, con il nuovo secolo: tra i primi a promuovere questa rivalutazione è il Croce, il quale ravvisò in lui un sincero poeta, un poeta di bontà e di malinconia sotto l'orpello di certe forme, e lo indicò come un precursore del Pascoli. Il De Lollis non risparmiò qualche battuta ironica, che non poteva mancare alla sua natura di critico davanti ad un autore che tanto si presta all'ironia, ma, sostanzialmente, ne riconobbe l'importanza storica, indicando in lui il poeta di transizione in cui si avverte il conflitto tra romanticismo e parnassianesimo, tra poesia contenutistica e poesia pura, tra il passato e l'avvenire della vicenda romantica; ascrisse anche a suo merito la tentata conciliazione tra gusto realistico e tradizione classica. La posizione del De Lollis è ripresa e definita in alcuni particolari dal Bosco e dal Marcazzan: il Bosco, in quanto gli riconosce l'esigenza di definire lo sfocato del sentimento attraverso la vena realistica, il Marcazzan, in quanto vede nella sua incertezza sentimentale la sottile aspirazione romantica, quel fantastique du réel, e tanto più agevole a definire criticamente quanto più arduo a conseguire come immagine e come forma.. Rimangono sostanzialmente in una posizione di condanna il Pompeati ("una crisalide di poeta"), il Momigliano ("nella sua poesia c'è quasi sempre l'aleardismo, quasi mai l'Aleardi") e il Vicinelli, il quale, rinnovando il ben noto parallelo, lo definisce "una attenuazione del Prati". Tutto a favore dell'A., invece, anche nei confronti del Prati stesso, è il giudizio del Flora, che, nella sua Storia della letteratura italiana, si sofferma a lungo sull'analisi di alcune sue liriche, indicando come in esse i temi poetici sorgano ispirati da rapporti figurativi di analogie paesistiche e cosmiche, in uno stato di comunicatività cordiale e cantabile, e affermando che la voce, pur affrettata e precoce, dell'A., è di genuina qualità poetica: per questa voce anche i temi più dispersi si raccolgono per il lettore in un'unica "memoria di poesia". Anche il Sapegno conferma che, meglio del Prati, l'A. ebbe qualità genuine di poeta e di artista, e riconosce la bontà della sua disciplina letteraria, pur accusando la sua "scarsa capacità di reagire al cattivo gusto dell'epoca".
Bibl.: Per l'opera dell'A., si veda la raccolta dei Canti, da lui stesso curata, Firenze 1864, 7 e ultima ediz., ibid. 1889; Si veda anche l'Epistolario, con un'introduzione di G. Trezza, Verona-Padova 1879. Esistono anche varie raccolte antologiche, con relative pagine critiche, fra cui si ricordano: L. Grilli, I canti di A. A.,Torino 1918, e G. Citanna, Le più belle pagine di A. A., Milano 1932. Diverse pagine sono dedicate all'A. nell'antologia di A. Vicinelli, Maestri e poeti della letteratura italiana, III, Milano-Verona 1951, pp. 36-39, e in quella a cura di L. Baldacci, Poeti minori dell'Ottocento, Napoli 1958, pp. 499-578 (e cfr. anche le pp. XXI-XXXI dell'introduzione). Una bibliografia dell'A. (sino al 1916) è in G. Biadego, Bibliografia aleardiana, Verona 1916. Fra le opere sull'A., si ricordano particolarmente A. Bazzoni, A. A., Torino 1863; V. Imbriani, Il nostro quinto gran poeta, in Fame usurpate, Napoli 1877, pp. 1-131; G. Carducci, in Ceneri e faville, I, Bologna 1891, pp. 8-14 e 30-39; D. Ciampoli, Plagi aleardiani, Milano 1896, ristampato poi in Nuovi studi letterari e bibliografici, Rocca S. Casciano 1900, pp. 357-377; F. Rosso, La vita e i canti di A. A., Fossano 1900; V. Betteloni, in Impressioni critiche e ricordi autobiografici, Napoli 1914, pp. 175-184;B. Croce, in La letteratura della nuova Italia, I, Bari 1914, pp. 73-93; A. Foratti, L'estetica e la critica d'arte di A. A., Bologna 1923; C. De Lollis, Saggi sulla forma poetica italiana dell'Ottocento, Bari 1929, pp. 207-239; U. Mazzini, Amori e politica di A. A., L'Aquila 1930; A. Belloni, Il mondo poetico e l'ispirazione patriottica di A. A., Verona 1932; G. Giuliano, A. A. nella vita e nell'arte, Verona 1934; A. Scolari, Aleardiana, in Scritti di varia letteratura e di critica, Bologna 1937, pp. 119-133; A. Momigliano, in Studi di poesia, Bari 1938, pp. 181-187; F. Flora, in Storia della letteratura italiana, III, Milano 1940, pp. 355-361; A. Ermini, in Saggi su autori minori del secolo XIX, Città di Castello 1948, pp. 21-31; U. Bosco, in Preromanticismo e Romanticismo, in Questioni e correnti di storia letteraria, Milano 1949, pp. 639-640; M. Marcazzan, in Dal Romanticismo al decadentismo, in Le Correnti (parte II di Orientamenti culturali. Letteratura italiana), Milano 1956, pp. 690-91, 699-700; N. Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Firenze, 1956, pp. 129-130.