ALEARDI, Aleardo (propriamente Gaetano)
Nato il 14 novembre 1812 in Verona, dove morì il 17 luglio 1878. Carcerato dell'Austria a Mantova nel 1852 e nel '59 a Josephstadt. Insegnò a Firenze, dopo il '64, estetica e storia dell'arte, nell'Istituto di belle arti. Dopo il '60 rappresentò per breve tempo, come deputato, il collegio di Lonato. Nel novembre del 1873 fu nominato senatore.
Il suo primo grande successo di poeta lo ebbe con Le lettere a Maria, pubblicate nel 1846, che furono rimormorate da un capo all'altro della penisola ed ebbero molta voga per circa un trentennio. Dopo il '46 si diede a lavorare attorno alle Prime Storie, dove il poeta risaliva alla genesi biblica dell'umanità (dopo edizioni parziali, un'edizione definitiva nel 1857). Del 1855 è l'idillio Raffaello e la Fornarina, una delle sue composizioni più celebrate (e più leziose e false). Del 1856 è la poesia Il Monte Circello, in cui ricorrono versi veramente degni di sopravvivere. Dello stesso anno è anche il poemetto (in forma di libera canzone) Le città italiane marinare e commercianti. Del 1858 è un'altra canzone, Un'ora della mia giovinezza, in cui sono rappresentate immagini femminili trasfigurate in simboli patriottici: una fanciulla è la Musa italiana, che "vestita di veli tricolori" consacra Aleardi, con un bacio in fronte, poeta d'Italia. A Pisa l'A. compone I Sette soldati (1861), che segnano il suo maggior successo letterario: i soldati sono cadaveri di boemi, croati, ungheresi, polacchi, tirolesi, del campo di San Martino. Di loro e di sé discorre al poeta un prete romeno: occasione per un violento atto di accusa contro la barbarie dell'Austria. Il Canto politico è del 1862: un'invettiva contro Pio IX, dimentico dei sentimenti liberali del '48. Del 1864 sono I fuochi dell'Appennino in memoria dei fuochi accesi nella notte del 16 dicembre 1846 per celebrare l'anniversario della cacciata degli Austriaci da Genova. In quello stesso anno 1864 il poeta provvide a raccogliere in un volume di Canti (Firenze 1864) il meglio della sua produzione; il volume ha delle aggiunte nelle posteriori ristampe. In accordo con i mutati interessi del tempo, l'A. si volge, negli ultimi anni della sua vita, a cantare motivi delle nuove teoriche umanitarie o scientifiche, gareggiando, per questa parte, con lo Zanella. Egli assiste malinconicamente agli assalti violenti della critica, e al rapido declinare della sua fama. "Non lodate, non lodate" disse una sera agli amici che gli protestavano ammirazione "di tutta questa roba non resterà nulla di qui a vent'anni. Ho sbagliato. La strada è un'altra; e c'è chi l'ha vista, e, se non pretende di andare troppo in corsa, arriverà sicuro alla fama vera e durevole. È un gran dolore quello di aver lavorato tanti anni e dover poi confermare a sé stesso di non aver fatto nulla che valga". E alludeva al Carducci. L'A., quanto a ispirazione poetica, non ebbe origini volgari. Egli ha l'ambizione di ricollegarsi alla grande tradizione poetica inaugurata dal Foscolo, per la quale l'esaltazione del passato è un vaticinio del presente e dell'avvenire, e la religiosa custodia delle memorie accende ad egregie cose l'animo dei forti. Così egli, come Jacopo Ortis, unì insieme i due grandi amori, quello della donna e quello dell'Italia. Sennonché l'A. rappresentò piuttosto la consunzione del mondo foscoliano; quei motivi eroici e religiosi, trapassati in un animo femmineo, vi perderono molto del loro originario accento, e l'angosciosa e pur agonistica fede del Foscolo diventò una lagrimante, compiaciuta, leziosa parte di un personaggio da melodramma. L'A. mescolò al suo amore per la patria l'amore sensibile della donna, anzi l'amore delle donne, muliebrizzando gli stessi affetti civili, e trasfigurando i simboli storici in simboli del cuore. Il che fu la rovina della sua arte, e determinò l'involontaria comicità dei suoi gesti. Il racconto delle "delicate colpe", dei nobili e squisiti dolori accompagnò il lamento delle sventure civili: "per sbocciar dal core - necessità di pianto ha l'inno mio". E di lagrime sono irrorate le sue immagini; e dove non si spargono lagrime, le cesure dei suoi versi, il ritmo, la stessa sintassi dei periodi hanno qualcosa di languido, come di chi parli, convalescente cronico, dopo mortale malattia. Le immagini muliebri ed erotiche lo perseguitano: egli e la sua donna sono come la Terra e la Luna, o come due isolette che "si guardan sempre e non si toccan mai"; l'ago della bussola che si volge al polo è "l'ago fedele nell'amor del polo"; e se il Manfredi dantesco "biondo era e bello e di gentile aspetto" e quel gentile indicava la dignità, la maestà, la nobiltà della sua figura, il Corradino di Svevia aleardiano avrà "un viso gentil da sventurato", più atto ad ispirare un ambiguo sorriso, che il rispetto e la compassione.
Pure l'A. poeta della tradizione, delle memorie e perfin del nascimento fisico d'Italia, per quello stesso legame ideale che lo lega al cantore dei Sepolcri riesce a tratti a sostenere il tono solenne del suo canto. Quivi, in alcuni frammenti, va ricercata la sua poesia. E accenti elevati ritroviamo là dove egli canta la resurrezione dell'Italia, con la civiltà marinara di Amalfi, di Venezia, di Genova e di Pisa (Le città italiane marinare e commercianti), o dove esprime indignazione contro le plebi della Lombardia, ostili al movimento dell'indipendenza (Per un gioco di palla nella valle del Fumone), o dove celebra l'Italia, pur nelle sue remote origini fisiche, e canta la povertà e l'inclemenza di alcune terre italiane, e piange sulle vittime della gleba, e il suo lamento si leva come religioso compianto per gli uomini e per la stessa Italia genitrice (Il Monte Circello). Su questi motivi si riscatta la musa aleardiana, e il poeta ebbe troppo fine intelligenza per non darsi ragione dei suoi errori, e ben intuì qual fosse la forma della nascente poesia carducciana, che compenetrava con senso eroico, virile, sereno, quella storia del passato, che ai suoi occhi appariva troppo turbata dalle lagrime e da femminili fantasticherie.
Professore di eloquenza all'Accademia di belle arti di Firenze nel 1863, l'A. pubblicò una sua lezione su La pittura mistica e frate Angelicol di scarso interesse critico; e più tardi (1872) un discorso Sull'ingegno di Paolo Caliari.
Bibl.: B. Croce, La letteratura della nuova Italia, Bari 1914-15, I, pp. 73-91; C. De Lollis, in Rassegna contemporanea, 5-2ª, VII, 25 maggio 1914; G. Biadego, Bibliografia aleardiana, Verona 1916; A. Belloni, A. A. e A. Messedaglia, in Rassegna nazionale, 16 maggio 1° giugno 1921; L. Messedaglia, A proposito di un canto di A. A. (il canto: Il comunismo e F. Bastiat), in N. Antologia, 1° maggio 1923.