Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Puškin appartiene alla cultura russa non soltanto come poeta, romanziere, drammaturgo di eccelsa qualità e di immensa forza innovatrice, ma anche come rappresentante di un’epoca, coraggioso interprete di una generazione duramente provata dalla ottusa politica reazionaria di zar, ministri, burocrati. La sua voce sa esprimere con leggerezza, ironia, intensità il travaglio di un periodo tra i più difficili della storia russa.
Gli anni della formazione
Discendente da una famiglia di antichissima nobiltà, ma economicamente dissestata, Aleksandr Sergeevic Puškin nasce a Mosca nel 1799. Riceve a casa un’istruzione piuttosto discontinua e superficiale, ma legge avidamente nella ricca biblioteca paterna classici francesi come Rousseau, Diderot, d’Alembert e incontra nelle serate letterarie organizzate dal padre illustri letterati del tempo come Karamzin, Vjažemskij, Zukovskij. Nel 1811 supera l’esame d’ammissione al Liceo di Tsarskoe Selo, riservato ai rampolli dell’aristocrazia destinati a una prestigiosa carriera nella burocrazia zarista. Il periodo liceale dura fino al 1817. Nel 1812 Napoleone invade la Russia e i liceali condividono con l’intero paese l’entusiasmo per l’eroica resistenza contro l’invasore. Alla vittoria delle armate di Kutuzov, ottenuta con una sollevazione nazionale senza precedenti, segue un periodo di inquietudine, dominato dalla volontà di rinnovamento del vecchio regime. Ma lo zar Alessandro I rifiuta ogni apertura: anche nel liceo frequentato da Puškin si respira un’atmosfera di repressione. Il giovane allievo rivela presto un talento poetico di straordinaria qualità: i versi liceali, ammirati per la singolare intensità lirica, riflettono entusiasmo, ingenua fede in un futuro di libertà, slancio verso gli amati compagni di studio, alcuni dei quali rimarranno amici per tutta la vita. Nel 1817, concluso il liceo, gli viene assegnato un impiego al Ministero degli esteri e fino al 1820 vive a Pietroburgo, dividendo il suo tempo tra feste, balli, spettacoli teatrali, frequentazioni letterarie e riunioni politiche, a cui partecipa, senza peraltro iscriversi a nessuna delle società segrete che in quegli anni nascono, con l’intenzione di preparare una rivolta contro l’autocrazia, che scoppierà nel 1825.
Da Ruslan e Ljudmila ai "poemi meridionali"
Principale opera del periodo è il poema Ruslan e Ljudmila, d’ispirazione ariostesca, storia del contrastato amore dei due protagonisti, che si rincorrono tra avventure di ogni genere, spiriti maligni, streghe, crudeli avversari. Il poema fa scandalo perché contraddice a tutte le regole fino allora accettate: Puškin stupisce per l’enorme fantasia, l’ironica inflessione del verso, la libertà di composizione. La produzione poetica del periodo riflette gli stimoli libertari che circolano nell’ambiente: e la polizia, che sorveglia e controlla, segnala una serie di liriche del giovane ventenne troppo apertamente ispirate a idee politiche sgradite alle autorità. Nel maggio del 1820 Puškin viene mandato in esilio nel sud della Russia. Per motivi di salute nei primi mesi ottiene l’autorizzazione a compiere un viaggio nel Caucaso con la famiglia Raevskij: il paesaggio selvaggio, esotico, suggestivo riempirà di sé la produzione poetica del periodo. L’esilio dura fino al 1826. Di questo periodo sono i cosiddetti "poemi meridionali": Il prigioniero del Caucaso, I fratelli masnadieri, La fontana del Bachcisaraj, Gli zingari. Di ispirazione byroniana, intensi, limpidi, i poemi cantano la perdita della libertà da parte dei protagonisti, il loro anelito verso un mondo diverso, privo di catene, di costrizioni, di violenze.
Evgenij Onegin
Aleksàndr Sergeevic Puškin
Onegin
"Quel sant’uomo di mio zio!
Guarda cosa ha escogitato
Per aver rispetto quando
Per davvero s’e ammalato.
Il suo esempio faccia scuola;
Ma, perdio, che noia stare
Giorno e notte a un capezzale,
Senza muoversi d’un passo!
E che bella ipocrisia
Coccolare un moribondo,
Rassettarlo sui guanciali,
Dargli farmaci e conforti,
Sospirando dentro se:
Ma che il diavolo ti porti!"
Mentre vola, posta a posta,
La corriera nella polvere,
Questo pensa un rompicollo
Che il voler di Giove ha reso
Dei parenti unico erede.
Permettete, cari amici
Di Ruslan e di Ludmilla,
Che senz’altro vi presenti
Qui l’eroe del mio romanzo:
E il mio buon amico Onegin,
Nato in riva alla Neva,
Dove forse anche tu avesti
Vita e fama, o mio lettore.
Anch’io un tempo stavo là
Ma a me nuoce il Settentrione.
A. Sergeevic Puškin, Onegin, trad. it. di Gabbrielli
Nel 1823, a Kisinev, una delle destinazioni del suo esilio, inizia un "romanzo in versi", genere nuovo per la letteratura russa, Evgenij Onegin, dal nome del protagonista. Onegin, rampollo dell’aristocrazia pietroburghese, conduce vita brillante e scapestrata nella capitale, poi, annoiato da quella fatua esistenza, si trasferisce in campagna, nella tenuta che ha ereditato da uno zio. Qui stringe amicizia con un giovane poeta, Lenskij, che lo presenta a una famiglia di possidenti vicini, i Larin. Ci sono due figlie adolescenti: la frivola Ol’ga, fidanzata di Lenskij, e la malinconica, pensosa Tat’jana, che subito si innamora di Onegin e gli scrive una lettera appassionata dichiarandogli i suoi sentimenti. Onegin, inquieto rappresentante di una generazione senza passioni, la respinge e durante una festa corteggia la sorella Ol’ga. Lenskij, offeso dal comportamento dell’amico, lo sfida a duello e muore. Onegin parte, Ol’ga si consola presto con un ussaro e Tat’jana, condotta a Mosca dalla madre per trovare marito, sposa un generale. Al ritorno da un lungo viaggio, Onegin rincontra Tat’jana, diventata elegante dama dell’alta società moscovita e se ne innamora, ma riceve un netto rifiuto: Tat’jana, che non ha dimenticato la sua passione per lui, ora è moglie di un altro e vuole restargli fedele. Puškin lavora al romanzo per sette anni, dal 1823 fino al 1830: lo progetta in dieci capitoli. L’ottavo, il viaggio di Onegin dopo il duello mortale, è bloccato dalla censura che vede allusioni a persone e luoghi legati alla rivolta decabrista (perciò il nono diventa l’ottavo censurato) e il decimo, in cui Onegin avrebbe dovuto aderire alla rivolta, viene bruciato dall’autore, sicuro di non ottenere il beneplacito dei burocrati zaristi. Il romanzo è la summa poetica di Puškin: contiene tutti gli elementi della cultura letteraria e civile del tempo, unisce in una perfetta unità l’intonazione sentimentale e quella satirica, l’elemento realistico e quello fantastico-onirico, la dominante lirica e la meditazione filosofica, un forte elemento autobiografico e una riflessione penetrante sulle vicende e gli umori del tempo.
Boris Godunov
Dopo un soggiorno a Odessa alle dipendenze del generale Voroncov, nel 1824 Puškin viene confinato nella tenuta materna di Michailovskoe: ispirato dalla lettura dei primi tomi della Storia dello Stato russo di Karamzin, Puškin decide di scrivere una tragedia, Boris Godunov (1825, ma pubblicata nel 1831). Al centro la vicenda dello zar omonimo, salito al trono nel 1594 per volere popolare, dopo l’omicidio dell’erede legittimo, lo zarevic Dmitrij, segretamente da lui commissionato (ma ricerche storiche recenti contestano la versione di Karamzin). Durante il suo regno, un monaco si fa passare per lo zarevic sopravvissuto, trova credito e sostegno alla corte polacca che gli organizza un esercito: la Russia è invasa e il falso Dmitrij vince, mentre Boris muore per un malore, divorato dai rimorsi. La tesi dell’autore è che non esiste potere senza violenza, senza sangue e che il popolo, sotto qualsiasi sovrano, saggio o perverso, è sempre scontento e invoca cambiamenti. Il modello è Shakespeare, con il suo rifiuto di qualsiasi unità classica di tempo, di luogo, d’azione, con la sua geniale capacità di riprodurre epoche storiche lontane, attualizzandone i problemi. Così fa anche Puškin: Boris è un potente che ha usato il delitto per arrivare al trono e ne deve subire le conseguenze. La tragedia, scritta alla vigilia della rivolta decabrista, è profetica: scoppiata nel dicembre del 1825, la rivolta viene repressa nel sangue dal nuovo zar Nicola I, che manda sul patibolo o in Siberia i principali congiurati.
Il soggiorno moscovita (1826-1830)
Nel 1826, durante l’inchiesta sui fatti del dicembre, Puškin, amico dei principali congiurati, viene convocato e interrogato dallo zar. Prosciolto, viene autorizzato a risiedere a Mosca ma sottoposto a una durissima censura: ogni riga va consegnata a un’apposita commissione che ne valuta la possibilità di pubblicazione. Gli anni del suo soggiorno moscovita, dal 1826 al 1830, sono comunque fecondi: oltre a liriche e poemi, si dedica alla prosa, con Il negro di Pietro il Grande, ironica ricostruzione della biografia del suo bisnonno materno, principe etiope al servizio di Pietro I. Nell’autunno del 1830, costretto da un’epidemia di colera a un soggiorno prolungato nella tenuta di Boldino, in un mirabile slancio creativo conclude l’Onegin, scrive le "piccole tragedie", quattro brevi composizioni drammatiche dedicate ai vizi capitali, Il cavaliere avaro (avarizia); Mozart e Salieri (invidia); Il convitato di pietra (lussuria); Il festino durante la peste (accidia) e I racconti di Belkin, raccolta di racconti che Puškin attribuisce a un autore fittizio, Belkin appunto, e che costituiscono un esperimento curioso, un rovesciamento dei modelli di genere (il rapimento, il duello, i fantasmi, lo scambio di persona), spesso con happy end del tutto inatteso.
Gli ultimi anni pietroburghesi (1831-1837)
Nel gennaio 1831 sposa la bellissima Natal’ja Gončarova e viene autorizzato a trasferirsi a Pietroburgo, dove ottiene un incarico presso il Ministero degli esteri e un modesto ruolo a corte di gentiluomo di camera. Ma la vita mondana superficiale, vacua, gli intrighi, le calunnie, le insinuazioni di un ambiente corrotto avvelenano gli ultimi anni della vita del poeta: costretto a un duello per difendere l’onore della moglie, muore nel gennaio 1837. L’ultimo periodo pietroburghese è caratterizzato da un’ampia produzione poetica, il poema Il cavaliere di bronzo, dedicato a Pietroburgo e al suo fondatore Pietro il Grande, le fiabe (Fiaba dello zar Saltan, Il galletto d’oro, La storia del pescatore e del pesciolino), ironiche, liriche rielaborazioni di materiali folkloristici e da un’ampia produzione in prosa, a cominciare dal romanzo storico Dubrovskij (incompiuto) e dal racconto La donna di picche, sul mondo del gioco d’azzardo (che verrà musicato, come Evgenij Onegin, da Petr Il’ic Čajkovskij). Si occupa con grande passione del periodo della rivolta di Pugačëv, scoppiata ai tempi di Caterina la Grande: ne trae un documentato, rigoroso saggio storico, Storia della rivolta di Pugačëv, e un racconto lungo, La figlia del capitano, che ha, tra i personaggi principali, proprio il capo della rivolta. Nel 1836, dopo lunghi, reiterati sforzi, ottiene l’autorizzazione alla pubblicazione di una rivista letteraria, che intitola "Il contemporaneo" ("Sovremennik"): vuole dare spazio alle nuove voci della letteratura contemporanea, che la censura oppressiva di Nicola I ostacola e riduce al silenzio. Non a caso in uno dei primi numeri esce il racconto di un giovane promettente, molto stimato da Puškin, di nome Nikolaj Gogol’: Il naso.