BICHI, Alessandro
Nacque a Siena il 30 sett. 1596, da Vincenzo e da Faustina Piccolomini, ambedue appartenenti alla più antica aristocrazia senese. Nonostante la sua condizione di primogenito, dopo essersi addottorato in diritto civile e canonico nello Studio senese, il B. si rivolse alla carriera ecclesiastica. Chiamato a Roma dal congiunto cardinale Metello Bichi, intorno al 1618 ottenne la carica di referendario delle due segnature: servendo in questo ufficio, si guadagnò l'apprezzamento del prefetto della Segnatura di giustizia, il cardinale Maffeo Barberini, e quando questo fu elevato al pontificato, col nome di Urbano VIII, se ne vide dischiuse le vie della diplomazia pontificia che il papa riservò largamente ai suoi antichi collaboratori di Curia. Così il B., elevato dapprima da Urbano VIII alla carica di vice auditore della Camera apostolica, quindi a quella di vescovo di Isola il 15 maggio 1628, il 24 maggio dello stesso anno fu nominato nunzio nel Regno di Napoli.
Nel breve periodo che esercitò la nunziatura napoletana, il B. non dovette affrontare crisi drammatiche: la sua azione si limitò a fronteggiare validamente le instancabili iniziative giurisdizionali dei ministri napoletani, e la sua opera fu così positivamente apprezzata dal pontefice che dopo due soli anni fu destinato alla ben più impegnativa missione di rappresentare Urbano VIII alla corte di Francia. Sostituito a Napoli il 30 giugno 1630, il 6 settembre dello stesso anno fu nominato alla nunziatura di Parigi; contemporaneamente, l'8 settembre, veniva trasferito dalla sede episcopale di Isola a quella di Carpentras. Il B. si recò dapprima a prendere possesso della sua nuova diocesi, il 30 ott. 1630, e quindi, un mese dopo, si portò alla corte di Luigi XIII.
La missione francese del B. si svolse nel periodo che precedette immediatamente l'intervento borbonico nella fase finale della guerra dei Trent'anni: il suo compito era appunto quello di impedire questo intervento, nel quadro generale dei tentativi operati dalla diplomazia barberiniana per arrivare ad una soluzione dei contrasti tra la Francia, la Spagna e l'imperatore, per fronteggiare ed arrestare le conquiste politiche e militari che la guerra aveva sin lì consentito ai principi luterani nell'Europa centrorientale.
Il B. prendeva possesso della nunziatura parigina in un momento soltanto apparentemente favorevole alla missione affidatagli: il 13 ott. del 1630 si era infatti arrivati ad un accordo tra i commissari dell'imperatore e gli inviati del re di Francia convocati a Ratisbona, per una sistemazione dei rispettivi interessi nella questione dell'eredità monferrina di Vincenzo II Gonzaga: sembrava così terminata la guerra nel settore italiano, mentre l'accordo pareva aprire le migliori prospettive ad una pacificazione del settore imperiale, o almeno a una intesa tra Francia ed Impero. Ma di lì a poco Luigi XIII denunziò gli impegni di Ratisbona anche per quello che atteneva alla successione gonzaghesca e l'intesa generale franco-asburgica tornò a mostrarsi improbabile anche alla diplomazia pontificia. La corrispondenza del B. dalla corte francese, ed in particolare quella con il segretario di Stato Francesco Barberini, lascia ben presto trapelare l'amara consapevolezza dell'inanità degli sforzi per arrivare ad una soluzione del contrasto.
Questa consapevolezza non impedì tuttavia al B. di fiancheggiare, per quanto gli spettava, i tentativi della corte romana: così le trattative riprese a Cherasco, con la mediazione pontificia del Panciroli e, soprattutto - per quanto interessava la Francia - del Mazzarino, ancora ufficialmente al servizio papale, trovarono a Parigi un accorto e instancabile sostegno nella opera del B. presso Luigi XIII ed il Richelieu: anzi, le speranze di pace che venivano dalle trattative piemontesi lo inducevano a premere sul Richelieu, perché la Francia togliesse il proprio sostegno al re di Svezia Gustavo Adolfo, contro il quale si appuntavano tutti i timori della corte pontificia, sino ad indurla a paventare un nuovo sacco di Roma rinnovante le atrocità dei lanzichenecchi: per il momento, naturalmente, il Richelieu aveva buon gioco nel replicare che il sostegno allo svedese era un efficace strumento di pressione contro l'imperatore per indurlo alla pace in Italia, tanto desiderata dal pontefice.
Nuove prospettive sembrarono aprirsi all'azione del B. quando, pressocché contemporaneamente, vennero finalmente stipulati gli accordi franco-imperiali di Cherasco e l'esercito imperiale al comando del Tilly strappò Magdeburgo agli Svedesi, con una vittoria che, dopo un anno di continui successi di Gustavo Adolfo, ne sfatava il mito dell'invincibilità e la cui importanza, perciò, fu spropositatamente valutata alla corte romana così come alle corti asburgiche. Dei due avvenimenti il B. approfittò per proporre al Richelieu da una parte la mediazione del re di Francia tra Gustavo Adolfo e Ferdinando II, dall'altra la realizzazione di un progetto di cui si compiaceva il fertile zelo cattolico di Urbano VIII, la conquista di Ginevra, che avrebbe coronato agli occhi del pontefice l'opera anticalvinista della Francia, già sancita con la conquista di La Rochelle. Ma il Richelieu si limitò a compiacere il pontefice facendo mostra di ortodossia contro i numerosi partigiani che il regalista Edmondo Richer aveva ancora nella Sorbona, nonostante la sua abiura del 1629: così gli chiedeva insistentemente il B. ed il cardinale non aveva troppe difficoltà ad accontentarlo; ma sullo scacchiere politico-militare europeo il Richelieu era ben lontano dal prestare orecchio alle sollecitazioni del nunzio.
Del resto una nuova svolta nella situazione sia imperiale, sia italiana, faceva cadere le speranze riposte dal B. negli accordi di Cherasco e nella vittoria del Tilly: in Germania la vittoria conseguita a Lipsia da Gustavo Adolfo il 17 sett. del 1631 riproponeva la questione delle alleanze francesi negli stessi termini precedenti alla conquista di Magdeburgo; in Italia l'entrata in Pinerolo dell'esercito francese il 21 ottobre dello stesso anno, in virtù dell'accordo segreto tra Luigi XIII e Vittorio Amedeo I, riapriva a livello diplomatico il conflitto franco-asburgico.
In questa nuova situazione il compito che Urbano VIII attribuì al nunzio di Francia era di importanza centrale: si trattava di evitare la rottura che l'iniziativa francese in Piemonte rendeva estremamente verosimile, e insieme di invocare l'influenza di Luigi XIII su Gustavo Adolfo in difesa degli interessi cattolici nelle regioni ormai aperte senza difesa all'invasione degli Svedesi.
Il B. offrì al Richelieu la mediazione pontificia per rimuovere le difficoltà ad una soluzione del contrasto italiano, senza tuttavia entrare in merito - in scrupoloso ossequio, appunto della funzione mediatrice alla quale intendeva limitarsi il pontefice - alla violazione delle trattative di Cherasco compiuta con la occupazione di Pinerolo; sulla seconda questione il B. non mancava di indicare al cardinale i pericoli che le vittorie svedesi lasciavano temere per la stessa Francia, tanto più gravi se Gustavo Adolfo, così come sembrava nei suoi progetti, avesse conseguito l'elezione imperiale.
In effetti il Richelieu non si mostrò sordo alle proteste del nunzio e, stabilendo, come egli proponeva, l'invio di un agente al campo svedese, lo incaricava di raccomandare al re il rispetto del culto cattolico nei paesi conquistati: ma più in là non spingeva la propria condiscendenza, anzi rovesciava il senso della proposta pontificia impegnando Gustavo Adolfo ad astenersi dal proseguire l'offensiva contro i principi della lega cattolica, nel caso che questi si fossero dichiarati neutrali: che era appunto quanto da Roma e dal nunzio si temeva come la maggiore iattura, poiché in tal modo l'imperatore sarebbe rimasto solo ad affrontare il terribile avversario.
Non migliori risultati ottenne il B. per quanto riguardava la questione della pace in Italia: ben lungi dall'accondiscendere alla proposta di restituire Pinerolo al Savoia, così come l'invito alla moderazione del nunzio sottintendeva, il Richelieu ritorceva gli argomenti del diplomatico pontificio con una proposta di lega italiana per la difesa dello statu quo che avrebbe dovuto essere presieduta dal pontefice, al quale si induceva a promettere, in caso di adesione al progetto, i più grandi vantaggi per lo Stato ecclesiastico e per la famiglia Barberini. Questo progetto, che avrebbe avuto poi molti sviluppi, tornava evidentemente a tutto vantaggio della Francia, che dopo l'occupazione di Pinerolo aveva solo da guadagnare da un mantenimento della situazione, ed in effetti respingeva ogni possibilità di accordo con gli Spagnoli: del resto il cardinale sapeva bene che questi non avrebbero potuto reagire con la guerra all'iniziativa francese finché non avessero potuto contare su un appoggio incondizionato degli imperiali nel settore renano, cosa estremamente lontana dalla realtà nel momento in cui i progressi militari di Gustavo Adolfo in Germania, come scriveva l'ambasciatore veneziano a Parigi Alvise Contarini il 1º dic. 1631, "camminano così celleri che appena l'occhio sopra la carta di cosmographia può seguirli" (Leman,Urbain VIII, p. 63).
Impressionato dalla formidabile marcia degli Svedesi, il B. si lasciò indurre ad una iniziativa che era esplicitamente di appoggio agli interessi francesi e che, come tale, non poteva essere approvata dalla Curia, la quale in effetti ne ebbe notizia soltanto a cose fatte. Minacciati dall'avanzata dell'esercito svedese, i vescovati elettorali del Reno ottennero la protezione francese soltanto a patto di accogliere guarnigioni francesi nelle proprie piazzeforti ed accettando la prospettiva di un trattato di alleanza con la Francia. Il B. appoggiò le richieste che in questo senso vennero fatte agli Stati minacciati dal Richelieu, spingendosi sino a scriverne, senza prima consultarsi con la Curia romana, agli elettori di Colonia e di Treviri., cosa che gli guadagnò il biasimo di Francesco Barberini, preoccupato da questa nuova occasione di sospetto che, "senza saputa del papa" (Leman,Urbain VIII, p. 64), si offriva agli Spagnoli: in realtà l'iniziativa dovette sembrare necessaria e urgente al nunzio parigino, l'unica capace di dare protezione ai cattolici renani di fronte ai "mostruosi progressi" dello svedese: e in effetti tale la dimostrò la conquista di Magonza con cui Gustavo Adolfo concluse nel dicembre del 1631quella campagna, vincendo una effimera resistenza della guarnigione spagnola. Ma di fronte alle ragioni politiche che ispiravano le iniziative sempre più scopertamente aggressive della Francia contro l'impero ogni concessione del B. doveva apparire necessariamente compromettente e non salvava la posizione diplomatica pontificia dall'instrinseca debolezza di voler contrapporre alla ragion di stato i valori della difesa della fede.
Che il B. si rendesse perfettamente conto dell'impotenza della propria posizione nei riguardi delle scelte politiche della corte francese, appare evidente nel giudizio che egli dava di quello che, con minore lucidità politica e maggiore presunzione di sé, poteva essere considerato un grande successo delle sue arti diplomatiche e delle sue proteste in nome dei superiori interessi della religione.
Nel gennaio del 1632si decise dapprima alla corte francese di accettare l'invito di Gustavo Adolfo ad occupare l'Alsazia; naturalmente il B. si oppose per quanto poté a questo progetto, che significava la guerra contro l'imperatore, e che era dettato soltanto - egli lo vedeva bene - dal desiderio di ingrandimenti territoriali e da ostilità alla casa di Asburgo, e non, come argomentava il Richelieu, dall'intenzione di risparmiare alla regione l'occupazione svedese, nella linea dell'unica efficace difesa degli interessi cattolici contro l'esercito eretico che già il nunzio aveva approvato in occasione dell'invio di guarnigioni nei vescovati renani; tanto meno il B. credeva alle promesse del cardinale di sgombrare l'Alsazia alla fine della guerra di Germania e perciò respingeva totalmente il progetto contrapponendogli quello di prendere le armi in difesa dell'elettore di Treviri minacciato da Gustavo Adolfo. In effetti il Richelieu rinunziò al disegno di occupazione dell'Alsazia, ma se il B. se ne compiacque fu ben lontano dal credere alle affermazioni del cardinale secondo cui il progetto era stato abbandonato per deferenza verso Urbano VIII: sebbene la tesi che fossero state le pressioni del B. ad indurre al ripensamento il Richelieu fosse accolta da parecchi diplomatici presenti alla corte francese, il nunzio per proprio conto si mostrò sempre assai scettico su questa versione che pure gli faceva onore e la respinse nella sua corrispondenza con Francesco Barberini, indicando la vera ragione della rinunzia all'occupazione dell'Alsazia negli interessi stessi della Francia che non avrebbero sopportato la rottura e la guerra con gli Asburgo.
Tuttavia il B. ne fu indotto a nuovi tentativi di avvicinamento tra la Francia e la casa d'Austria; anzi, per un momento, gli parve nuovamente di veder disposto il Richelieu - se non per motivi religiosi almeno per le preoccupazioni che il sempre meno controllabile alleato svedese destava con la sua vicinanza alle frontiere francesi - a rinunziare all'alleanza con l'eretico e addirittura a prendere le armi contro di lui. Incoraggiato ambiguamente dal Richelieu, egli ottenne infatti da Francesco Barberini, nel febbraio 1632, l'autorizzazione a tentare un sondaggio, attraverso i nunzi di Bruxelles e di Vienna, presso gli Spagnoli e gli imperiali per ottenerne l'impegno ad astenersi da qualunque iniziativa aggressiva contro la Francia se questa fosse entrata in guerra contro Gustavo Adolfo; ma dovette ben presto rendersi conto che questa prospettiva era ben lontana dall'avverarsi e che il Richelieu, se pure aveva per un momento potuto considerarla con favore, vi aveva ben presto rinunziato; e naturalmente le proteste che egli elevò in proposito presso il cardinale erano, ancora una volta, l'espressione della sua impotenza: come saggiamente considerava l'ambasciatore Contarini, "il nunzio strepita che s'abbandoni l'interesse de la religione, ma bisogna che ancor lui habbi pacienza e s'accommodi al clima" (Leman,Urbain VIII, p97).
Agli innumerevoli progetti di una lega con il concorso pontificio, rimbalzanti continuamente tra le corti italiane, quelle asburgiche e quella francese, il B. finché rimase responsabile della rappresentanza apostolica a Parigi, partecipò attivamente: così al progetto di una lega dei principi italiani per il mantenimento della pace in Italia, nuovamente proposto dal Richelieu ed affidato soprattutto all'insinuante diplomazia del Mazzarino; così alla proposta degli imperiali di una lega offensiva delle potenze cattoliche contro i luterani; così al progetto pontificio di una lega esclusivamente difensiva delle potenze cattoliche contro Gustavo Adolfo, allorché corse la notizia che il re svedese aveva ottenuto dai Grigioni un libero passaggio verso l'Italia e Roma; così, infine, al progetto di lega italiana avanzato da Francesco Barberini e dall'ambasciatore toscano a Roma F. Nicolini, progetto respinto per ostilità a Venezia dallo stesso Urbano VIII: proposte tutte che fallirono per le diverse interpretazioni che si davano dai vari governi agli obiettivi delle alleanze, più o meno larghe, che laboriosamente sortivano dalla fertile inventiva dei diplomatici, e che lo stesso Urbano VIII finiva regolarmente per respingere, preoccupato di non compromettere la propria posizione di neutralità.
Di tutti gli avvenimenti di quegli anni tumultuosi certamente quello che maggiormente aprì gli animi, specie da parte pontificia, alla speranza che la pace europea potesse finalmente stabilirsi nonostante tanti segni in contrario fu la morte di Gustavo Adolfo; fu questo il grande momento della diplomazia pontificia, tutta tesa a realizzare finalmente un accordo generale tra le potenze cattoliche, attraverso qualche concessione dei Francesi sulla questione di Pinerolo e, reciprocamente, con l'ammissione di Luigi XIII alla regolamentazione degli affari di Germania in modo tale che ne potesse derivare una pace durevole: brevi speranze, in realtà, sebbene accompagnate da lunghe trattative a Parigi e a Vienna, che la situazione, tra Francia e Asburgo, continuò ad essere quella che il Richelieu definiva una "guerre couverte". E dopo tanto negoziare, la conferma del trattato di Francoforte da parte degli Svedesi, dei Francesi e dei confederati luterani, avvenuta nel novembre del 1633, riduceva ad un semplice episodio senza conseguenza alcuna la morte di Gustavo Adolfo: unico successo del B. fu quello di ottenere che Luigi XIII chiedesse ai principi luterani il risarcimento dei danni più vistosi arrecati ai cattolici.
Sin dal 26 marzo 1634 era stato designato a succedere al B. nella nunziatura di Francia il vescovo di Ascoli Giorgio Bolognetti; il B. prese però effettivamente congedo dalla corte il 17luglio, mentre la diplomazia pontificia era tutta impegnata ad inseguire l'ultimo irrealizzabile tentativo di pace, un congresso a Roma di tutte le potenze cattoliche sotto la presidenza di Urbano VIII. L'opera del B. era stata premiata il 28 maggio 1633 con la concessione della porpora cardinalizia, col titolo di cardinale prete di S. Sabina.
Lasciata la corte di Parigi, il B. si portò nella sua diocesi di Carpentras e da qui, nel 1637, a Roma, per prendere possesso del cappello cardinalizio. Il Richelieu, che aveva finito per concepire grandissima stima per lui, non se ne lasciò sfuggire i servizi, obbligandolo con la consueta concessione di ricche prebende e di benefici ad accostarsi sempre più decisamente al partito francese: Luigi XIII concesse infatti al B., tra l'altro, le abbazie di Saint-Pierre du Mont, nella diocesi di Metz, e di Montmajour, in quella di Arles, e, nel 1638, il priorato di Saint-Esprit, "qui vaut 10.000 livres de rente" (Lettres... et papiers d'Etat du cardinal de Richelieu, VII, p. 1047), ed egli seppe così poco resistere a pressioni tanto obbliganti che finì per assumere, quando vi rinunziò il cardinale Maurizio di Savoia, passato al servizio spagnolo, la carica di coprotettore della nazione francese, insieme con il nipote del papa Antonio Barberini. A lui spettò così di intervenire con funzioni di accorto moderatore nei numerosi contrasti che costellarono negli ultimi anni del Richelieu le relazioni tra la corte romana e quella francese.
Tornando alle vie già tanto sperimentate della mediazione per una pace tra le potenze cattoliche, il B. organizzò, con l'approvazione di Urbano VIII, la conferenza segreta di Einsiedeln del gennaio 1640: a questa convennero i delegati del Richelieu e del duca di Baviera per trattare la pace tra Massimiliano, I e la Francia, ma la pretesa della diplomazia francese che la Baviera denunziasse preliminarmente l'alleanza imperiale impedì ogni successo dell'incontro, faticosamente preparato dal B. durante tutto l'anno precedente e nel quale tanto lui che il pontefice avevano largamente sperato come un primo passo ad una pace europea.
Se i rapporti del B. con il Richelieu erano stati eccellenti, ancora più cordiali furono quelli con il Mazzarino dopo che questo assunse la direzione della politica francese. L'epistolario del Mazzarino testimonia anzi di una vera amicizia personale tra i due, oltre che di una perfetta corrispondenza politica. Scrivendo al fratello Michele nel novembre del 1644, in una circostanza in cui non avevano luogo le solite formule dell'elogio politico, il ministro definiva infatti il B. "un amico più sviscerato e fedele che io habbi al mondo" (Lettres du cardinal Mazarin pendant son ministère, II, p. 100). Del resto il Mazzarino gli provò la sua piena fiducia politica, scegliendolo come rappresentante della Francia nelle trattative per porre fine alla guerra di Castro, dopo che era miseramente fallita la missione di Ugo de Lionne in Italia nel 1642.
Come il B. stesso ha lasciato scritto (Grottanelli, p. 798), il cardinale senese fu chiamato a Parigi al principio del 1643, mentre era nella propria diocesi di Carpentras, ed incaricato da Luigi XIII "di procurare che la Repubblica di Venetia, il granduca ed il duca di Modena, non si movessero a scoperta guerra col sommo pontefice per causa del duca di Parma, a cui non potevano hormai per altro mezzo procurare la pretesa restituzione di Castro, essendosi essi tre principi di già collegati a questo fine, ma seguisse fra tutti la riconciliazione con dignità della Santa Sede". Le circostanze, però, fecero sì che i termini della missione del B. cambiassero notevolmente: la morte di Luigi XIII poco dopo la sua partenza da Parigi alla volta dell'Italia lo obbligò infatti ad attendere, con l'elezione del successore, nuove istruzioni dalla corte e nel frattempo i principati italiani erano scesi in guerra contro i Barberini. Ripreso il viaggio nel giugno del 1643, dopo aver ottenuto il consenso di Urbano VIII alla sua mediazione, il B. poté iniziare l'opera nel momento in cui i successi dei collegati contro lo Stato ecclesiastico rendevano più problematica una rapida soluzione del contrasto. Sebbene attribuisse le maggiori responsabilità ai Barberini, i quali, come scriveva al Mazzarino, "avevano tirato addosso alla Santa Sede ed a loro medesimi quella piena che vostra eminenza ha sempre prognosticata loro, senza che l'abbiano voluto credere" (ibid.), la sua infaticabile ed intelligente attività valse a scongiurare alla S. Sede le conseguenze peggiori della grave sconfitta subita a Lagoscuro. Il 31marzo 1644 il B. poté firmare col cardinale Gian Stefano Donghi, plenipotenziario pontificio, la pace di Ferrara, nella quale egli figurò non soltanto come mediatore francese, ma, cosa abbastanza singolare, anche come rappresentante di Parma, Venezia, Modena e Firenze: come durante la trattativa aveva saputo guadagnarsi la fiducia dei collegati, ed in particolare della Repubblica veneta, e d'altra parte non gli era mancata quella dei Barberini e del pontefice, così i risultati da lui ottenuti a Ferrara, ristabilendo fra tutti i contraenti la situazione precedente all'assurdo conflitto, furono, sebbene per diversi motivi, tali da soddisfare sia la S. Sede sia i collegati; e, non ultimo risultato ottenuto dalla mediazione del B., il prestigio francese presso gli Stati italiani usciva dalla vicenda largamente rafforzato e riguadagnava al governo di Parigi quelle adesioni nella penisola che aveva in gran parte perduto negli ultimi anni.
Nel conclave seguito alla morte di Urbano VIII, pochi mesi dopo, il B. seguì sino in fondo, con il piccolo gruppo dei cardinali francesi, la linea di condotta proposta dal Mazzarino, che prevedeva il veto contro l'elezione del Pamphili. Sostenne perciò dapprima la candidatura del cardinale Sacchetti e anche dopo il brusco voltafaccia del cardinale coprotettore di Francia. Antonio Barberini, passato tra gli elettori del Pamphili, continuò ad opporsi per quanto poté al successo del nemico personale del Mazzarino, sebbene Antonio Barberini tentasse di guadagnarlo al suo orientamento con la promessa di un arcivescovato francese: sue furono in conclave le proteste sin troppo preveggenti sulla preponderante influenza che avrebbe avuto nella corte romana la cognata del Pamphili, donna Olimpia Maidalchini, in caso di elezione del candidato degli Spagnoli ("Signori, faremo una papessa", pare che dicesse vedendo confluire la maggioranza dei voti sul cardinale romano: Goulas,Mémoires, II, p. 236)e certo questo fermo atteggiamento non dovette giovargli poi presso Innocenzo X.
Forse si dovette a ciò se il B., durante questo pontificato, visse prevalentemente in Francia, alternando il soggiorno alla corte con quello nel proprio vescovato, dove sino allora aveva fatto soltanto delle apparizioni sporadiche. A Carpentras il B. si distinse assai più per la munificenza con cui seppe crearsi una piccola corte di artisti e letterati, che per particolari iniziative d'ordine religioso. Sotto quest'ultimo aspetto è probabilmente notevole soltanto per la sua ostinata opposizione all'introduzione della riforma maurina nell'abbazia di Montmajour di cui era titolare, giungendo persino ad eccitare contro i riformati la regina madre, nonché la nobiltà di Aix, di Marsiglia e d'Arles. Fu infine indotto a mutare giudizio sulla Congregazione di S. Mauro dalle pressioni e dall'eloquenza infocata di uno dei principali esponenti del movimento, il padre Antoine Espinasse, sicché finì per lasciare tranquilli i benedettini.
Ma il B. era troppo esperto politico per rimanere distante dagli avvenimenti turbinosi della corte francese, presso la quale il suo prestigio rimaneva intatto, come dimostrano i suoi efficaci interventi presso la regina ed il Mazzarino in favore di Antonio e Francesco Barberini, nel 1645, e perché fosse riammessa a Parigi madame de Montbazon, alle cui grazie pare non fosse del tutto insensibile. Nella grave crisi politica francese del 1649 l'abilità diplomatica del B. fu messa a frutto dal Mazzarino con l'incarico di tentare un accomodamento con il parlamento di Provenza, così da porre termine all'insurrezione della regione contro il governatore conte d'Alais: convocati ad Aix il d'Alais e gli esponenti del parlamento, il B. riuscì a trovare un compromesso con i rivoltosi, inducendo la corte ad approvare le condizioni richieste dal parlamento con un editto del 27 marzo 1649, in cui era previsto, contro l'impegno a cessare da ogni tentativo eversivo, la soppressione dell'odiata chambre semestre e la conferma ad Aix, Marsiglia ed Arles del diritto di elezione dei magistrati municipali, secondo gli antichi privilegi di queste città. Erano senza dubbio condizioni pesanti per l'autorità regia, anche se questa veniva formalmente ristabilita nella regione, ma la gravità delle circostanze, mentre la Fronda parlamentare impegnava a Parigi e nel resto del paese il governo, fecero valutare del tutto positivamente dal Mazzarino l'accordo stipulato dal Bichi.
Secondo varie testimonianze pare che, quando il Mazzarino fu costretto all'esilio di Colonia, tra i principi del sangue maturasse il progetto di affidarne la successione al B., ma il progetto non ebbe seguito, non si sa per quale motivo: forse lo stesso B. rifiutò per amicizia verso l'esule, o forse fu Anna d'Austria ad opporsi, fiduciosa in un pronto ritorno del Mazzarino: l'episodio è tuttavia particolarmente significativo del prestigio politico acquistato in Francia dal cardinale senese. Esso non doveva in ogni caso pregiudicare i suoi rapporti con il Mazzarino, il quale gli mantenne integra la stima e l'amicizia e si servì ancora in più occasioni di lui, una volta riassunto il potere.
Nel 1652 la mediazione del B. fu ancora una volta richiesta in occasione dei gravi conflitti tra il popolo e la nobiltà di Avignone; egli in effetti si impegnò a lungo per tentare un compromesso tra le opposte fazioni, ma pare che la sua netta propensione per il partito aristocratico finisse per diventare il maggior ostacolo ad un accomodamento: in questi termini, almeno, fu prospettata la posizione del cardinale senese ad Innocenzo X, ed il pontefice richiamò il B. a Roma, ufficialmente per riferire sullo stato delle trattative e sugli ostacoli che egli incontrava nella pacificazione di quell'estremo lembo dello Stato ecclesiastico; in effetti - dando credito alle accuse contro di lui - per rendere possibile una soluzione della vicenda: con vari pretesti il B., dopo il suo arrivo a Roma nel 1654, fu trattenuto da Innocenzo X, finché egli stesso rinunziò a tornare in Francia.
Anche negli ultimi anni della sua vita, e sebbene il suo distacco dalla Francia fosse ormai definitivo, il B. continuò a meritare "la réputation d'étre tout entièrement dedié à la France et l'un des plus grands ennemis que la couronne d'Espagne ou la maison d'Autriche ait jamais eu en cour de Rome", della quale lo accusava l'arcivescovo di Malines Jacques Boonen scrivendone al re di Spagna Filippo IV il 30sett. 1649 (La première bulle..., I, p. 731). In effetti tale suo atteggiamento ebbe un puntuale riscontro nel conclave del 1655seguito alla morte di Innocenzo X. Il Mazzarino per premunirsi - ammaestrato com'era dall'esperienza della precedente elezione papale - contro ogni possibile cambiamento di atteggiamento degli esponenti del partito francese, dispose che il cardinale d'Este fosse sottoposto al controllo di Antonio Barberini, che a sua volta questo fosse controllato dal suo conclavista Costa, e che infine il B. vigilasse sulla fedeltà degli altri tre. Queste precauzioni in effetti garantirono sino alla fine del conclave l'unità del partito francese, il quale sostenne, secondo le istruzioni del Mazzarino, la candidatura del cardinale Giulio Sacchetti, e quando la decisa opposizione spagnola la mostrò irrealizzabile e lo stesso Sacchetti propose che i propri voti fossero riversati sul cardinale Fabio Chigi, il B. ed i suoi compagni ottennero abilmente di prolungare il conclave sinché non giunse una decisione in merito dal Mazzarino, che li autorizzava a concorrere alla elezione del Chigi, Alessandro VII.
Ma i contrasti tra il Mazzarino e Alessandro VII, sorti sin dall'inizio del nuovo pontificato, chiarirono che la scelta dei cardinali francesi in conclave era stata soprattutto imposta dalla necessità. E questi contrasti impegnarono ancora una volta il B. in una attività di pressioni sulla Curia romana per favorire le posizioni dell'amico Mazzarino. Si trattò dapprima della questione del cardinale di Retz, arcivescovo di Parigi, rifugiatosi a Roma dopo essere stato estromesso dalla corte francese. Sebbene il pontefice fosse tuttaltro che inclinato verso il Retz, specialmente a causa delle sue relazioni con i giansenisti, respinse la richiesta della corte francese di dimettere dall'arcivescovato di Parigi questo "prélat aussi séditieux", come si esprimeva il Mazzarino scrivendone al B. il 14 dic. 1655 (Lettres du cardinal Mazarin pendant son ministère, VII, p. 171): tutto quello che il B. e l'ambasciatore francese a Roma Ugo de Lionne riuscirono ad ottenere da Alessandro VII fu la proposta di attribuire interinalmente l'amministrazione della diocesi parigina ad un vescovo suffraganeo approvato dalla corte francese; ma anche questo compromesso fallì per l'opposizione dei numerosi partigiani che il Retz contava tra il clero francese.
Altro permanente motivo di contrasto tra la corte romana e quella parigina fu la proposta di Alessandro VII di convocare a Roma un congresso di pace tra Francia e Spagna; il B. si impegnò a lungo nel tentativo di inclinare la posizione mediatrice di Alessandro VII in un senso più favorevole alla Francia. Ma un breve del papa del 20 marzo 1656 all'assemblea del clero francese, in cui questo veniva esortato a prodigarsi per la pace, provocò una aperta rottura tra la Francia e Roma, perché secondo il Mazzarino, il documento faceva "credere al mondo che il re non voglia la pace" (ibid., p. 207).
Il B. fece le rimostranze del caso presso Alessandro VII, ma mentre era impegnato in questa spinosa controversia morì il 25 maggio 1657. Fu seppellito nella chiesa di S. Sabina, di cui era titolare.
Secondo Gerolamo Gigli, ma la notizia merita conferma, il B., in una data non precisata, avrebbe rifiutato "l'Arcivescovado d'Evora in Portogallo ed il posto di primo Ministro di quel Regno, a cui l'invitava il re Giovanni IV" (p. 101).
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