BICHI, Alessandro
Nacque a Siena nella seconda metà del sec. XV in una delle più cospicue famiglie della città, che aveva nella mercatura, nella banca e nella proprietà terriera la solida base della sua potenza, e in una fitta rete di aderenze con altre famiglie senesi lo strumento principale di azione politica.
La famiglia Bichi, appartenente alla consorteria del Monte dei Nove, quando il B. ne divenne il capo riconosciuto si distingueva per un tenace attaccamento ai Petrucci, che avevano tentato di stabilire una signoria sulla città. Per lungo tempo il B. si tenne lontano da una diretta partecipazione alla politica attiva, dedicandosi ai traffici e alle speculazioni bancarie. I suoi legami con Pandolfo Petrucci, signore di Siena, erano però ben noti: da un documento del 1509 risulta persino che il Petrucci aveva investito la cospicua somma di tremila fiorini nel banco di Alessandro Bichi e C. Dopo la morte di Pandolfo, sopravvenuta il 21 maggio 1512, sotto i governi dei suoi successori, il figlio Borghese e il nipote cardinal Raffaele, il B. continuò a tenersi in disparte pur mantenendo il favore dei nuovi signori.
Le fortune economiche della famiglia cominciarono però a declinare: per far fronte ai numerosi debiti contratti dai figli che si abbandonavano a una vita troppo dispendiosa, il B. fu costretto a cedere a Raffele Petrucci la magnifica villa di Bibbiano con venti poderi annessi dietro la concessione per otto anni degli uffici e custodie delle rocche dello Stato. L'atto fu stipulato il 2 marzo 1517 e secondo il Pecci fu per il B. un ottimo affare, perché gli uffici acquistati gli resero molto più del valore della villa e dei poderi in val d'Arbia. Con tutto ciò non pare che riuscisse a superare le gravi difficoltà economiche in cui la famiglia si trovò coinvolta e finì col fallire per la cospicua somma di 60.000 ducati, almeno a quanto riferisce un cronista contemporaneo. Allo stato attuale delle nostre conoscenze non è possibile avere ulteriori notizie sull'attività economica del B. che pure lo impegnò a fondo per quasi tutto il corso della sua vita. È significativa tuttavia la coincidenza della rovina economica con l'ingresso nella vita pubblica senese.
Quando nel 1522 la morte del cardinal Raffaele Petrucci riaprì la crisi endemica senese, ponendo il problema della successione, il B. puntava ormai decisamente sulla politica per il rilancio delle fortune della sua famiglia, gravemente compromesse dai disastri economici subiti. Prese posizione per Fabio Petrucci, il figlio di Pandolfo esule a Napoli, che gli stretti legami di parentela contratti con i Medici facevano ritenere di più sicuro affidamento nspetto al nipote di Pandolfo, Francesco Petrucci, che poteva contare solo sull'appoggio di alcune famiglie locali. Francesco però, nonostante l'opposizione del B. e di altre famiglie senesi, riuscì ad avere la meglio e a farsi signore di Siena. Fu una vittoria di stretta misura che rese la sua signoria ancor più effimera di quelle dei suoi predecessori. Il B. infatti non mancò di iniziare trattative con i Medici per defenestrare il nuovo signore e sostituirlo con Fabio. L'elevazione al pontificato del cardinale Giulio de' Medici (18 nov. 1523), che assunse il nome di Clemente VII, gli assicurò anche l'appoggio pontificio. Il nuovo papa attirò a Roma con uno stratagemma l'ingenuo Francesco, mentre Fabio entrava a Siena già nel dicembre del 1523, acclamato dal B. e dai suoi partigiani come nuovo signore.
L'operazione si realizzò in tutta tranquillità con il concorso delle varie fazioni cittadine, sempre d'accordo quando si trattava di liquidare il governo esistente. Per il B. la signoria di Fabio rappresentò una vera e propria vittoria: divenne subito il consigliere più fidato del nuovo signore e di fatto l'esponente più autorevole del nuovo regime. Il governo di Fabio Petrucci, che godeva dell'appoggio mediceo, non aveva tuttavia all'interno una base più larga di quello di Francesco e non poteva contare quindi su una vita tanto più lunga. L'iniziativa questa volta venne dai popolari che si collegarono con la consueta disinvoltura ai partigiani del deposto signore, Francesco Petrucci, e il 18 sett. 1524 scatenarono un tumulto. Ne seguì una violenta zuffa con ampio contorno di uccisioni e ruberie: il B. si asserragliò con amici e collegati nel suo palazzo, intorno al quale la lotta infuriò con maggiore asprezza, ma a sera si dové constatare che la partita era perduta. Respinta l'offerta degli avversari che offrivano garanzie per la vita e i beni purché accettasse di restare a Siena come privato cittadino, Fabio lasciò la città per rifugiarsi a Firenze. Con lui uscì la sera del 18 settembre anche il B. che si fermò però nel contado senese, voglioso di riprendersi la rivincita e sicuro di averne presto l'occasione.
L'accordo tra i rivoltosi non durò oltre lo spazio di una settimana: tra i seguaci di Francesco Petrucci e i popolari si venne presto alle mani e il B. poté approfittarne per rientrare in città e mostrarsi in pubblico già il 22 settembre con atteggiamento chiaramente provocatorio. Il suo ritorno in città non mancò di irritare gli avversari che non nascosero il desiderio di liquidarlo alla prima occasione. Ponderata la situazione, il B. si rese conto che non aveva le forze necessarie per tentare la rivincita e, respingendo il consiglio dei suoi amici politici che lo istigavano allo scontro aperto con i popolari, il 17 dic. 1524 abbandonò di nuovo la città.
L'atteggiamento del B., tanto più deciso e risoluto in confronto a quello di Fabio Petrucci che aveva abbandonato troppo facilmente la partita, lo mise in evidenza agli occhi di Clemente VII, al punto di farlo preferire al Petrucci stesso per una ripresa della influenza pontificia su Siena. L'occasione migliore sopraggiunse di lì a poco in coincidenza con la discesa in Italia di un esercito francese al comando del duca d'Albany diretto verso il Regno di Napoli. Clemente VII, alleato di Francesco I contro Carlo V, intimò ai Senesi di richiamare in patria il B. e di affidargli la signoria della città. Con l'esercito francese alle porte i popolari capitolarono e invitarono il B., che il 18 genn. 1525 fece il suo ingresso a Siena in veste di nuovo signore.
In tal modo le ambizioni politiche del B. apparivano coronate dal più ampio successo, che però la situazione politica senese rendeva piuttosto precario. Per ovviare a questa incertezza di prospettive egli s'impegnò in uno sforzo di pacificazione inteso a garantire al suo governo una base più stabile, suscettibile di allargarsi anche ai popolari. Era entrato in città con un seguito di settanta cavalli e duecento fanti, ma il suo primo atto di governo fu un indulto generale per i delitti politici, che proibiva nel contempo a tutti i cittadini senesi di portare armi. Due giorni dopo il suo rientro a Siena, il 20 gennaio, convocò il Consiglio generale dal quale ottenne l'approvazione di un piano di riforme costituzionali sull'unificazione degli ordini o Monti in uno solo, detto Monte dei Nobili reggenti. La riforma mirava a conseguire l'obiettivo della conciliazione delle fazioni sulla base di un invito alla collaborazione. Contemporaneamente cercò di garantirsi il necessario appoggio esterno, inviando oratori a Roma, a Firenze e al duca d'Albany. Ottenne ampie promesse di sostegno, particolarmente calorose da Firenze. A Clemente VII mandò ancora altri oratori per investirlo della questione dell'aiuto richiesto dai Francesi nella campagna antimperiale, che il B. intendeva limitare a un sussidio di 4.000 scudi e alla consegna di quattro pezzi di artiglieria. La politica inaugurata dal B. sembrava godere almeno dell'appoggio incondizionato dei Noveschi che l'avevano designato al papa come il solo esponente politico senese capace di tentare la carta della pacificazione con i popolari. A tal fine nei disegni del B. doveva avere una parte importante la formidabile fortezza che intendeva costruire in città con il finanziamento dei Fiorentini.
Il precario equilibrio politico instaurato dal B. fu travolto però assai presto dalla battaglia di Pavia (24 febbr. 1525), che rimise in movimento anche la situazione senese. Il disastro francese pose al B. il grave problema di fronteggiare le conseguenze delle sue compromissioni con Clemente VII e col duca d'Albany: il 4 marzo decise di inviare ambasciatori a Carlo V per rallegrarsi della vittoria di Pavia e offrire il proprio passaggio alla parte imperiale, altri al duca d'Albany per intimargli di non transitare con le sue truppe attraverso il territorio senese e di restituire al più presto i quattro pezzi d'artiglieria. Qualche giorno dopo fece un passo ancor più deciso: mandò a Roma a conferire con l'ambasciatore imperiale, duca di Sessa, il figlio Anton Maria, che offrì per Carlo V la somma di 15.000 ducati come contributo senese alla guerra contro la Francia. L'accordo fu concluso su questa base e confermato anche dal viceré di Napoli Charles de Lannoy, che mandò a Siena tre commissari imperiali incaricati di riscuotere la somma pattuita.
Tale rovesciamento di alleanze, operato dal B. con assoluta tempestività lo stesso giorno in cui arrivò a Siena la notizia della vittoria imperiale di Pavia, non mirava solo ad assicurare al suo governo la garanzia imperiale nel nuovo equilibrio italiano, ma tendeva anche e soprattutto a sventare le manovre degli oppositori interni che ora potevano avere buon gioco nei confronti di chi aveva assunto il potere per intervento francese e papale. E di fatto i popolari capeggiati da Mario Bandini non dimenticarono che il B. aveva ospitato nella sua stessa casa il duca d'Albany di passaggio per Siena, ostentando la protezione dell'esercito francese. Alla notizia della battaglia di Pavia il Bandini non perse tempo: convocò i principali esponenti della fazione popolare e con un infiammato discorso li incitò al tirannicidio: per il B. si preparavano giorni assai duri.
Il 26 marzo arrivarono a Siena i commissari imperiali designati dal Lannoy e al B. sembrò di avere conseguito il principale obiettivo di rafforzare il suo potere all'interno. La loro venuta fu però occasione di una dimostrazione popolare al grido di "impero e libertà": l'atmosfera cominciava a riscaldarsi. Il Senato accordò al B. una guardia del corpo armata, ma rifiutò di votargli il contributo di 15.000 ducati promesso al Lannoy. Era evidente che la sua stessa fazione, quella dei Noveschi, sul cui appoggio il B. credeva di poter contare, gli voltava le spalle, gelosa del primato da lui conseguito. Non mancarono Noveschi che brigarono con i popolari per togliere il potere al B., ma senza successo. L'opposizione al contributo di 15.000 ducati fornì infatti ai popolari l'arma migliore per presentarsi agli Imperiali come i soli partigiani dell'imperatore degni di fiducia. Con questa precisa intenzione il Bandini e altri esponenti popolari si recarono in Lombardia presso il Lannoy, che in tal modo acquistava la funzione di arbitro supremo della politica senese. In questa situazione per il B. esisteva una sola possibilità: dimostrare agli Spagnoli di essere in grado di governare, di assicurare il contributo promesso e di garantire meglio di ogni altro gli interessi imperiali a Siena. E in questa direzione s'impegnò col coraggio della disperazione, nello sforzo di vincere la resistenza dell'opposizione novesca e consegnare agli Imperiali il contributo promesso. Ai primi di aprile, superando le mille difficoltà frapposte dalla resistenza passiva dei Noveschi, riuscì a procurare, con la vendita della dogana pubblica e dei Paschi, la somma necessaria e per il 6 aprile fissò la consegna nell'atrio del palazzo arcivescovile. La solenne cerimonia, che doveva sancire pubblicamente la sua vittoria sugli oppositori e consacrare con il pieno riconoscimento imperiale la sua signoria su Siena, divenne l'occasione di un violento tumulto nel corso del quale il B. fu assassinato insieme con vari suoi aderenti e sostenitori. Il suo breve esperimento di governo fondato sulla formula equivoca della pacificazione interna si dimostrò così del tutto inadeguato alla situazione senese, che richiedeva ben altra capacità di superare il gioco delle fazioni.
Di uno dei figli del B.,Iacopo, sono rimaste, per la sua attività militare, numerose tracce nelle cronache del tempo. Dopo l'uccisione del padre si rifugiò a Roma, sotto la protezione di Clemente VII. Arruolatosi quindi nelle "bande nere" di Giovanni de' Medici, nel 1527 partecipò alla campagna dell'esercito franco-pontificio nel Regno di Napoli, distinguendosi alla difesa di Frosinone, alla conquista di Melfi e all'assedio di Napoli: qui fu gravemente ferito - riferisce un contemporaneo - da "una gran coltellata che gli ha quasi tagliato el naso" (Sanuto, XLVIII, p. 194).
Sciolte le "bande nere", Iacopo passò a Firenze, prendendo parte alla difesa della città contro gli Imperiali. A lui Malatesta Baglioni, comandante delle forze della Repubblica, affidò varie incombenze di una certa rilevanza, come la spedizione effettuata con successo insieme con Amico d'Arsoli in Valdipesa (novembre 1529) per riconquistare San Miniato occupata dagli Spagnoli, operazione questa assai importante, perché garantiva le comunicazioni tra Firenze e Pisa; o come la difesa della Lastra, che controllava le strade di Pisa e di Empoli, donde giungevano a Firenze gli approvvigionamenti per mare e per terra: impresa anche questa condotta dal B. con grande competenza e tempestività.
Fece le sue ultime prove sotto le mura di Firenze assediata: "onoratissimamente" - secondo la testimonianza del Varchi - tanto che gli stessi capi imperiali, il principe d'Orange e il marchese del Vasto, gli resero esplicito omaggio cercando di emularne le gesta cavalleresche.
Morì di cancrena il 25 o 26 maggio 1530, vittima delle artiglierie imperiali, sulle quali lo "spennacchio grandissimo" (Varchi) di cui usava adornarsi aveva eccitato un'attrazione irresistibile.
Fonti e Bibl.: Calendar of letters,despatches,and state papers relating to the negotiations between England and Spain..., III, I,Henry VIII. 1525-1526, a cura di P. Gayangos, London 1873, pp 138, 149, 159 s.; F. Guicciardini,Storia d'Italia, a cura di C. Panigada, IV, Bari 1929, pp. 282; G. A. Pecci,Mem. stor. crit. della città di Siena, II, Siena 1755, pp. 156-70; III, ibid. 1758, p. 32; A. Ferrajoli,La congiura dei cardinali contro Leone X, Roma 1919, pp. 163 s., 238, 242; R. Cantagalli,La guerra di Siena, Siena 1962, pp. LXIX-LXX. Per Iacopo in particolare: B. Varchi,Storia fiorentina, a cura di G. Milanesi, I, Firenze 1857, p. 423; II, ibid. 1858, pp. 149, 163, 183, 208, 225, 228, 230, 245, 246, 261, 301; M. Sanuto,Diarii, XXXVIII, Venezia 1893, p. 184; XL, ibid. 1894, p. 30; XLI, ibid. 1894, p. 286; XLVIII, ibid. 1897, p. 194; L., ibid. 1898, p. 558; LIII, ibid. 1899, p. 204; Lamenti storici dei secoli XIV, XV e XVI, a cura di A. Medin-L. Frati, Verona-Padova 1894, pp. 20 s.; C. Roth,L'ultima Repubblica fiorentina, Firenze 1929, pp. 359, 369; A. Valori,La difesa della Repubblica fiorentina, Firenze 1929, pp. 134, 135, 189, 242, 252, 271, 285.