BON, Alessandro
Nato a Venezia il 21 dic. 1514 da Marino di Michele e da Virginia Fasolo, apparteneva al ramo dei Bon "dalle Fornase" (Fornaci) di recente nobiltà, poiché erano stati ammessi al patriziato nel 1381 in occasione della guerra di Chioggia; sposò Paola Mocenigo di Pietro, una pronipote del doge Giovanni Mocenigo. Benché non partecipasse attivamente alla vita politica, il parentado e la posizione economica non lo collocavano certo tra i ranghi inferiori del patriziato, sicché non sorprende di trovarlo nel 1553 tra gli Undici che scelsero i quarantuno elettori del doge Marc'Antonio Trevisan.
Spirito inquieto, facile all'immaginazione e avido di ricchezze, fu colpito dalle vaste opere di bonifica attuate prima da alcuni pionieri, come Alvise Cornaro, poi dal magistrato sopra i Beni inculti, che nel 1556 aveva intrapreso il prosciugamento del comprensorio del Gorzon. Proprietario egli stesso di terre e valli nel Veronese, concepì un ardito progetto, in cui si confondevano il fervore imprenditoriale e la febbre speculativa, tipici della fase d'avvio di una nuova attività economica che richiedeva immaginazione, coraggio e forte investimento di capitali.
L'11 dic. 1559 il B. chiese dunque in concessione al Senato l'impresa di bonifica di tutte le terre basse tra il Bacchiglione e il Po, nei territori di Padova, Verona e Polesine di Rovigo. Le condizioni proposte erano però tanto svantaggiose per lo Stato e per i proprietari, che il Senato le respinse, accogliendo invece una successiva offerta avanzata dal B., con criteri di maggiore equità. Secondo tali patti il concessionario avrebbe dovuto compiere la bonifica a suo rischio, imponendo ai proprietari un deposito di tre ducati per campo, che egli avrebbe riscosso però soltanto gradualmente in proporzione alle terre effettivamente bonificate dalle acque. Le terre rimaste scoperte dal prescritto deposito sarebbero passate in proprietà del Bon. La storia di questa impresa ci è poco nota, ma pare che la principale cura dell'intraprendente patrizio fosse quella di vendere le terre venute in suo possesso, più che di riscattarle dalle acque. Nel 1563 aveva già alienato 14.000 campi, tutti nel Padovano, secondo quanto egli stesso ammetteva nell'atto di respingere l'accusa, di cui da più parti era fatto segno, di averne confiscati e venduti assai più di quanti legittimamente gliene spettassero. È difficile giudicare se si trattasse d'una avventurosa e disonesta speculazione, condotta senza alcuno scrupolo, oppure d'una troppo spericolata impresa, avviata con una leggerezza di cui è comunque evidente la prova nelle sue scritture.
Sorge il sospetto, a questo punto, che la temeraria truffa escogitata dal B. nel 1565 ai danni della Repubblica fosse nata da un disperato bisogno di denaro, provocato da questa arrischiata speculazione. Ma egli non era nuovo a simili imprese. Già nel 1552 aveva messo in agitazione il Consiglio dei dieci e la diplomazia, inventando una immaginaria congiura spagnola per impadronirsi di Verona. Non che i Dieci prestassero troppa fede alle anonime denunce - pare fabbricate da lui stesso - che il B. asseriva di aver ricevuto; ma ad ogni buon conto gli ordinarono di presentarsi all'appuntamento col preteso informatore, prima a Verona, poi a Mantova e a Parma, senza che nessuno mai si presentasse. Infine, di propria iniziativa, sempre fingendo di obbedire agli inviti del presunto informatore, il B. si recò a Milano, dove fu arrestato dalle autorità spagnole, obbligando la diplomazia veneziana ad adoperarsi per il suo rilascio.
Tredici anni più tardi, dunque, nel dicembre 1565, il B. denunciò nuovamente al Consiglio dei dieci - chiedendo secondo l'uso del tempo una forte ricompensa - d'essere in contatto con un incognito informatore, che gli aveva rivelato una trama, i cui fili conducevano all'ambasciata imperiale.
Secondo queste rivelazioni, il 1º gennaio, mentre alcuni emissari avrebbero appiccato il fuoco in diversi punti della città per provocare lo scompiglio tra il popolo, un gruppo di armati avrebbe dovuto fare irruzione nel palazzo ducale, per massacrarvi i patrizi riuniti nel Maggior Consiglio. I Dieci non gli dettero troppo credito, e dopo aver atteso invano per alcuni giorni che mettesse nelle loro mani il fantomatico informatore, lo fecero arrestare, sottoponendolo ai crudeli sistemi inquisitori del tempo. Ma intanto dovettero egualmente adottare le misure di sicurezza necessarie a fronteggiare ogni eventualità. Sospesa la riunione del Maggior Consiglio, il 1º gennaio furono schierati grossi reparti armati e navi da guerra con i cannoni puntati sulla piazza S. Marco, sicché la città - come narra l'Agostini - fu "in grandissimo moto e terrore, e non fu il maggiore da quello di Baiamonte Tiepolo in qua".
Nulla naturalmente accadde, e il B., sottoposto a tortura, confessò alcuni giorni dopo la sua colpa. Condannato a morte dal Consiglio dei dieci, fu decapitato in piazza S. Marco la mattina del 7 genn. 1566. La vedova, Paola Mocenigo, e gli eredi rivendicarono qualche anno più tardi il "privilegio" concesso dal Senato e ripresero, soprattutto nelle Valli veronesi, l'opera di bonifica intrapresa dal Bon.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Avogaria di Comun,Nascite di patrizi, I, c. 39v.; Ibid., M. Barbaro, Arbori de'patritii veneti, II, p. 82; Consiglio dei Dieci,Secreta, reg. 6, cc. 89r-95r, 19 ag., 13 ott., 10, 14 e 23 nov., 24 dic. 1552; reg. 8, cc. 47r-48r, 12 e 31dic. 1565, 5 genn. 1565 more veneto; Consiglio dei Dieci,Parti criminali, reg. 10, cc. 55r-v, 56v-57r, 22 dic. 1565, il e 4 genn. 1565 more veneto; Venezia, Biblioteca del Museo Correr, cod. Cicogna 2853: A. Agostini, Cronaca di Venezia, II, cc. 129v-130v; A. Morosini, Historia veneta, II, Venezia 1720, pp. 217-218. Sull'impresa di bonifica cfr. B. Zendrini, Memorie storiche dello stato anticoe moderno delle lagune di Venezia..., Padova 1811, I, pp. 263-265; A. Ventura, Considerazioni sull'agricoltura veneta e sulla accumulazione originaria delcapitale nei secoli XVI e XVII, in Studi storici, IX (1968), pp. 700 s.