CARRIERO (Cariero), Alessandro
Nacque a Padova nel 1546 da famiglia nobile, originaria di Monselice. Da cenni in sue opere si sa che ebbe un fratello, Bartolomeo. Sappiamo inoltre che frequentò lo Studio e si laureò inutroque.Non esercitò però la professione attiva, né accettò, nonostante le reiterate offerte, di insegnare nello Studio; il titolo di decano dei giuristi che gli venne più tardi attribuito è dovuto alla sua attività di scrittore anche di diritto. L'interesse per gli studi giuridici, tuttavia, non fu, per le sue stesse dichiarazioni, preminente nel Carriero.
Abbracciata in data incerta, ma sicuramente prima del 1575, la vita ecclesiastica, venne nominato prevosto della chiesa di S. Andrea; in tarda età, però, abbandonò l'attività pastorale per dedicarsi a quegli studi letterari che dichiarò per tutta la vita di prediligere. Se, dagli elementi in nostro possesso, è quasi impossibile ricostruire il profilo biografico, consistente invece è la sua opera di scrittore e viva, quindi, la sua presenza nella cultura della Padova del suo tempo: una cultura complessa di cui il C. sembra riassumere nell'opera molte caratteristiche e contraddizioni.
Nel 1573 nasce in Padova l'Accademia degli Animosi, e il C. ne è uno dei primi e più attivi membri. Qui egli viene a contatto con due ambienti diversi: da una parte gli intellettuali padovani capeggiati dal Riccobono e dallo Speroni e animati dai Mussato, cui il C. sarà sempre particolarmente legato. Mondo, questo, in cui il tradizionale orientamento aristotelico si contrapponeva, con dibattiti talora molto accesi, alla diffusione delle dottrine neoplatoniche che, anche nello Studio di Padova, soprattutto per opera di Francesco Patrizi da Cherso, si venivano affermando. Accanto a questi sono presenti fra gli Animosi alcuni patrizi veneziani allora in Padova per frequentare lo Studio; il futuro vescovo di Belluno Luigi Lollino, i due fratelli Morosini, poi fondatori del ridotto veneziano frequentato dal Galilei e Nicolò Contarini. Si tratta, dunque, di alcuni fra i più cospicui rappresentanti di quel gruppo denominato comunemente dei "giovani" che tentò di realizzare la linea politica teorizzata da Paolo Sarpi, di cui seguì anche, appassionatamente, negli ultimi decenni del Cinquecento e nei primi anni del Seicento, l'opera scientifica, insieme con quella di Galileo durante il soggiorno padovano di quest'ultimo.
L'Accademia degli Animosi si forma per discutere le conquiste della "nuova scienza" e, appunto, a due argomenti di attualità il C. dedica le due dissertazioni da lui pronunciate e poi pubblicate. La prima è il De somniis deque divinatione per somnia brevis consideratio…, Patavii 1575; Possint ne arte simplicia veraque metalla gigni, Patavii 1579, è il titolo della seconda.
Nel De somniis… il C. si sforza di conciliare la teoria aristotelica sui sogni, di cui tenta di dimostrare la validità contro le altre interpretazioni, con gli insegnamenti dei teologi. Per Aristotele i sogni provengono dalla natura e la natura da Dio, contro l'innatismo platonico e le teorie di Avicenna. Il C. ammette che esistano dei sogni veridici, ma questi o sono legati a stati patologici (malattie fisiche e psichiche i cui sintomi si rivelano anche nel sonno e di cui si occupa la medicina) o più che sogni si tratta di "revelationes divinacque visiones" (p. 7v) mandate da Dio, nei suoi disegni imperscrutabili, in genere ai buoni, raramente ai cattivi e perché questi si ravvedano. Nonostante il suo professato aristotelismo, il C. adotta affermazioni di sapore "ermetico". Indicativi, anche se non numerosi, sono i riferimenti ad Ermete, a Orfeo e le affermazioni chiaramente panteistiche, particolarmente significative nella città che di lì a quindici anni ospiterà il Bruno. Ancor più ricca di elementi tipici della problematica contemporanea è la seconda orazione: Possintne arte simplicia….
Anche qui il C. fa sua la teoria classica (aristotelica ma questa volta anche platonica) dell'origine dei metalli dalla commistione di acqua e terra per negare le possibilità dell'alchimia come scienza creatrice del vero oro (potrà solo creare un metallo simile all'oro alla vista ma non nella sostanza) o dell'elisir dell'immortalità. All'uomo, infatti, sarebbero necessarie quattro facoltà per poter creare l'oro e gli manca la quarta: quel quid sostanziale per cui il metallo prezioso è tale e che possiede solo Dio. Soprattutto notevole, però, per illustrare la cultura del C., è l'analisi della terza facoltà, cioè la capacità di "matematizzazione" indispensabile all'uomo per la conoscenza della natura. è questo un motivo che s'intreccia sia con l'ermetismo sia con quella visionedella vita basata sull'"experientia" umana che si era andata affermando a Venezia nella prima metà del sec. XVI in una parte del patriziato veneziano e che ebbe come più significativi esponenti Girolamo Priuli e Cristoforo Canal. è importante che anche il padovano e aristotelico C. esalti l'"experientia" come "mater artium", "cum ratione iuncta" (p. 15v). Indagare la natura è lecito e la "magia naturalis" è concessa all'umanità, come la medicina o qualsiasi altra scienza. èda sottolineare che il C. ammette la "magia naturalis" con estrema cautela; segue qui la posizione ufficiale della cultura "controriformistica". è comunque la sua un'affermazione di rilievo se si pensa che chi parla è un prelato in un momento in cui imperversavano le sentenze dell'Inquisizione. Da queste preoccupazioni sono probabilmente ispirati i cenni polemici a Giovanni Pico e in particolare al Cardano (di cui pure fa propria la teoria sulla "magia naturalis") e l'attacco violento ed esplicito alla "magia nera": "demoniacam et superstitiosam, non ars non scientia sed illusio" (p. 21v).
Quando il Ne possint arte simplicia…veniva stampato, l'Accademia degli Animosi non esisteva già più: s'era disciolta per la partenza del Riccoboni, nel 1576.Anche gli interessi del C. sembrano, dopo quest'epoca, spostarsi. All'interesse per i "temi" di maggiore attualità scientifica (di cui però resta anche nell'opera posteriore qualche traccia) sembra sostituirsi un aristotelismo più monolitico, meno aperto a situazioni nuove e un più accentuato accostamento a quellaproblematica che la Controriforma veniva elaborando. Sembra trionfare, ora, nell'attività del C., l'amore per le "lettere" da lui tanto esaltato. Ne è frutto il Breve et ingenioso discorso contra l'opera di Dante, edito a Padova nel 1582.
L'opera si inserisce nel dibattito letterario vivo in quegli anni, soprattutto in ambiente toscano (e il C. fece infatti un viaggio proprio a Firenze e a Siena attorno al 1580), pro o contro la Divina Commedia.La prima accusa che il C. muove a Dante è di non aver rispettato nessuno dei dettami aristotelici. In particolare manca l'imitazione e l'unità d'azione. Queste le tesi fondamentali della prima parte del "libello", ove il C. indugia su un esame dei "generi letterari". Fra le molte notazioni minute che farebbero catalogare quest'opera fra i prodotti di un "pedantesco" aristotelismo emergono due motivi di viva attualità. Nella nascente querelle des anciens et des modernes italiana e poi francese, il C. si schiera, come lo Speroni, a favore dei primi. Delle favole "quelle che più dilettano" sono "secondo noi ancora le antiche" (p. 34). Così come nell'uso del volgare si devono condannare in Dante "nuove voci e vocaboli nuovi" (p. 91). Altro spunto interessante è la sua posizione nel dibattito, proprio in quel tempo vivace entro i confini della Repubblica, sul valore della storia. Nel racconto delle imprese lo storico "niente deve innovare", mentre nelle orazioni può ben servirsi "del probabile e del verosimile" (p. 14). Oggetto principale delle "historie" deve essere comunque (e su questo concetto il C. insiste molto) la verità. Nel definire gli scopi della storia egli pare riagganciarsi alla discussione suscitata dai famosi dialoghi di Francesco Patrizi, Della historia, editi per la prima volta a Venezia nel 1560. Sembrerebbe, infatti, attaccare la concezione scettica del Patrizi con le sue accuse contro "coloro, che han rifiutato l'historia haver per suo scopo e fine l'utilità, et la giocondità" (p. 19). Un altro ordine di considerazioni appare nella seconda parte del Breve et ingenioso discorso…, quella più specificamente dedicata all'opera di Dante. Qui il C. si diffonde sulla moralità che è "parte principale della poesia" (p. 84). La moralità è il primo fine di quella poesia che "esser deve il documento di buone creanze, e di costumi gentili, i quali s'egli pianta… negli animi o con vere o con imaginate narrationi, in ogni modo l'intento suo ottiene" (pp. 51 s.). Questa missione "morale" del poeta assume in sé formule caratteristiche dell'etica barocca. Il poeta deve essere "giudicioso"; fra le sue doti principali devono emergere la "prudenza" e la "misura" (p. 87).
Questi motivi "etici" trionfiano nell'altra opera dantesca del C., la Palinodia… nella quale si dimostra l'Eccellenza del Poema di Dante, edita a Padova nel 1584. La Palinodia è preceduta da una Apologia… Contra le Imputationi del sig. Belisario Bulgarini Sanese, del 1583. Si tratta di un breve scritto in cui il C. ribadisce le sue accuse a Dante e sostiene l'originalità del Breve et ingenioso discorso…contro l'accusa mossagli dal Bulgarini di aver visto (e plagiato) un suo lavoro durante il soggiorno toscano di qualche anno prima. La Palinodia sembra essere nata come esercitazione letteraria per dimostrare la capacità del C. di dire esattamente l'opposto di quanto aveva affermato nel Breve et ingenioso discorso.Così, secondo lui, nessuno potrà dubitare della sua capacità d'esprimere idee originali. Riprende, dunque, qui, gli stessi argomenti usati nel Discorso, questa volta non contro, ma a favore di Dante. La Divina Commedia non sarebbe più un sogno, ma un poema "di vera virtù christiana, recuperata da chi mal vivendo l'havea perduta" (p. 17r). Il C. giustifica il radicale mutamento d'opinioni affermando di avere scritto il Breve et ingenioso discorso…"perdilettare" (p. 9r), "persa la vista dell'intelletto". è forse opportuno segnalare che molti anni dopo, in un'altra opera (il De potestate Romani Pontificis…), il C. si schiera di nuovo contro Dante per il suo atteggiamento nei riguardi della donazione costantiniana. Bisogna soprattutto, però, sottolineare il carattere moralistico della Palinodia, Importante, perché sarà un motivo tipico della letteratura controriformista, è la funzione che il C. attribuisce alla propria coscienza; essa diventa infatti un essere animato che lo guida nella ritrattazione. Ma mentre appare la gesuitica affermazione della coscienza e l'esaltazione della confessione, restano ancora in lui delle "aperture" eterodosse: il peccato carnale, aborrito dalla morale secentesca, è ancora qui giustificato e quasi esaltato; così come, pur nelle rigide sovrastrutture aristoteliche, non è spento nel C. l'interesse per la "nuova scienza" suggellato nella similitudine conclusiva in cui l'infinita grandezza dell'opera di Dante è paragonata all'"infinito… spacio della terra, et del mare, lo qual noi con un sol dito nel Mapamondo avanziamo e passiamo…" (pp. n. n.).
Alla polemica dantesca succedono anni di silenzio nella vita del C., probabilmente animati dalla pubblicazione di alcune opere giuridiche che gli vengono per tradizione attribuite. Sono anni, però, non tranquilli per la sua vita, interrotti da almeno un viaggio a Roma, conclusosi con il ritorno a Padova nella primavera del 1596, e soprattutto da problemi contingenti all'ambiente padovano, perché, come scrive a Luigi Mussato il 19 apr. 1596, "questa è una patria con molti fastidi dove si hanno beni con gravezze, honori senza honori, commodi con invidia, et ocio con disagio…". è chiara l'allusione, anche se non conosciamo nulla di preciso sulle vicende personali del C., all'atmosfera patavina di quegli anni tormentata, al livello culturale, da polemiche fra platonici e aristotelici che sconvolgevano, a volte con episodi tumultuosi, tutta la città, e al livello politico, dai contrasti fra le "grandi" famiglie. è da notare, a questo proposito, che il C. era legato ai Papafava, notoriamente capi della fazione antiborromeiana.
Non sappiamo se il C. abbia potuto realizzare un altro soggiorno romano, già progettato per il settembre 1596, come scriveva nella lettera al Mussato. Sembra certo, comunque, che i contatti con quella Curia romana in cui si dibatteva il problema del primato papale, reso attuale non solo dagli attacchi dei riformati ma anche dalle polemiche gallicane, dovettero influire notevolmente sui suoi interessi e sulla sua attività. Lo dimostra l'ultima opera edita che di lui ci rimane, il De potestate Romani Pontificis adversus impios politicos libri duo, Patavii 1599. In quest'opera il C., infatti, si ricollega a quella corrente di pensiero capeggiata dal Possevino e dal Baronio che difendeva accanitamente, contro gli attacchi dei gallicani, le prerogative del potere temporale del papa. Diretto ispiratore del C. sembra essere l'oratoriano Tommaso Bozio, da lui stesso esplicitamente nominato alla fine del suo scritto, autore di numerose opere antimachiavelliane e in particolare del De ruinis gentium et regnorum, Romae 1595, in cui inizia la polemica con gli "empi politici" ripresa dal C. quattro anni più tardi.
Nel primo libro (pp. 1r-45v) il C. tratta del potere spirituale del papa. Anche qui egli parte dalle dottrine aristoteliche identificando nel Cristo la "causa efficiente" della Chiesa. Cristo per sua imperscrutabile volontà ha donato le chiavi a Pietro. In aperta polemica con Erasmo e Lutero, il C. ribadisce che il papa, con sede a Roma, deve considerarsi il perno indiscutibile attorno a cui ruota tutta la Chiesa che - secondo un'affermazione da cui parte poi la risposta polemica del Bellarmino - è "universalis institutio prout in bonorum fidelium universitate" (p. 2v). La Chiesa è perfetta come immune da errore il suo capo. Il C. inizia qui una disamina sulla possibilità di errore da parte del papa che si conclude, dopo enunciazioni contrastanti, sulla base della teoria del Caetano che ne sosteneva l'assoluta infallibilità anche come privato. Così contro Lutero e col Torquemada arriva ad affermare che il papa e il concilio non possono sbagliare e rifiuta la teoria calvinista che il pontefice deve essere sottoposto "principum episcoporum iudicio" (p. 41r). Con il Bodin invece il C. polemizza per la questione dell'eleggibilità papale. Dopo aver affermato che la donazione costantiniana è in realtà una "restituzione" dell'imperatore alla Chiesa, il C. proclama: "Uterque… in potestate Ecclesiae spiritualis gladius et materialis, sed is quidem pro Ecclesia, ille… ab Ecclesia exercendus" (p. 20v). Svilupperà tale dottrina nel secondo libro che tratta principalmente del potere temporale. Esso è giustificato dalla passione stessa di Cristo che ha reso il suo "dominium" (p. 50r) divino e umano. Perciò al pontefice "vice et loco Dei", spetta giudicare anche re, principi e lo stesso imperatore.
Il papa diventa dunque il vero garante della giustizia sulla terra. Sbagliano non solo i luterani che "populum, fide et religione spoliaverunt, ita quoque Imperatorem suum de eius sede deturbare moliuntur" (p. 77r), ma gli stessi più illustri teologi cattolici contemporanei, dal Torquemada e dal Caetano, al Vitoria, al da Soto, e soprattutto al Bellarmino con il quale il C. polemizza diffusamente. La potestà temporale del papato, infatti, non è solo indiretta "si ad animarum salutem necessarium" (come sostiene il Bellarmino), ma diretta. Il pontefice può e deve intervenire sempre nelle questioni secolari: suo braccio è l'imperatore che gli deve il giuramento di fedeltà. A lui spetta anche la giustizia economica perché distribuisce le ricchezze ai poveri. I sovrani non possono rifiutare il pagamento delle decime autorizzato dalla "restituzione" costantiniana. Sono eretici quelli che affermano (p. 72v) "clericos se non debere temporalibus bonis immiscere". Anzi, con una linea di pensiero che, secondo il C., va da Aristotele al Bozio, "Status ius ad sacerdotes pertinere" (p. 85v). Le opposte affermazioni dei "moderni, insipientesque politici…" (p. 86v) portano invece alla rovina per il difetto "religionis" (p. 85v) che provoca la mancanza dellavirtù.
Il Bellarmino rispose al C. con l'Epistola apologetica ad Franciscum card. S. Clementis adversus temeritatem et errores Alexandri Carerii patavini (rist. in X.-M. Le Bachelet, Auctarium bellarminianum, Paris 1913) e chiese che il C. fosse perseguito come eretico per la sua definizione di Chiesa. Nello stesso tempo anche gli echi delle opere del Bozio suscitarono probabilmente le preoccupazioni della gerarchia romana. Lo scritto del C. venne proibito dall'Indice "donec corrigatur" il 19 luglio 1600. Il C., che forse partecipò anche all'Accademia dei Ricovrati, fondata nel1599, si chiuse allora nel silenzio e si dedicò alla stesura di un'opera storica.
L'attività di storico del C. offire un grave problema. Secondo la tradizione posteriore egli avrebbe lasciato dodici libri manoscritti dal titolo De gestis Patavinorum che il Papadopoli dichiara di aver visto "magna ex parte fabulis a credula vetustate propositi intertextos" (p. 283). Secondo il Tommasini sarebbero sue le cronache medioevali che ci restano sotto i nomi di Enrico Calderio e Teobaldo Cortelerio. Il C. stesso nel De potestate Romani Pontificis…(p. 45v) cita il primo libro delle sue Historie, ma in realtà di sicuramente suo ci restano pochi fogli manoscritti contenenti elenchi ripetuti di nobili o di cariche pubbliche padovane (un elenco è aggiornato fino al 1623).
Il C. morì di febbre il 21 ag. 1626 e venne sepolto in Padova nella chiesa di S. Andrea.
Oltre a quelle citate, il C., secondo una tradizione che va dal Portenari in poi, avrebbe scritto anche le seguenti opere: De sponsalibus et matrimonio (editi nel tomo I dei Tractatus legales); Defensio pro libris suis de sponsalibus adversus Polydorum Sturmium; Tractatus de iniuriis theologice, deque earum remediis; Responsio apologetica pro Bartholomeo fratre ad objecta M. Antonii Peregrini.
Nella Biblioteca del Seminario vescovile di Padova esiste il manoscritto del Ne possint arte simplicia…(codice 640). Inoltre il codice 438 contiene, in appendice all'opera di Giovanni Basilio, un indice delle famiglie, desunto probabilmente, secondo il settecentesco estensore del catalogo dei manoscritti della biblioteca, dagli "Annali" del Carriero. Nella stessa biblioteca si trovano due lettere del C. a Luigi Mussato (cod. 619, vol. 3, c. 181rv, lettera del 19 apr. 1596; c. 182r, lettera del 10 maggio).
La parte che ci rimane, sicuramente attribuita al C., della sua opera storica inedita è custodita nella Biblioteca del Museo civico di Padova. Si tratta del ms. B.P.14.1479, fasc. a, b, i, l (il fasc. b porta nel verso questa nota: "Questo autore fu monsignor Carriero et l'opera è il Joanne da Nono ma falsificata… precipue nella famiglia Carriera…"). I fascicoli sicuramente attribuiti al C. si trovano inseriti fra altri simili. Una parte dei materiali conservati nel B.P.14.1479 si ritrovano, con alcune variazioni e aggiunte, nei mss. B.P.19.802 e B.P.2.149 (quest'ultimo apparteneva ai de Lazara).
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Padova, Morte. Ufficio di Sanità, reg. 469, cc. n.n.; A. Portenari, Della felicità di Padova…, Padova 1623, pp. 264 s.; I. P. Tomasini Patavini Illustrium Virorum Elogia Iconibus exornata…, Patavii 1630, pp. 362-367; G. Vedova, Biografia degli scrittori padovani, I, Padova 1832, pp. 234-236; N. C. Papadopoli Historia Gymnasii Patavini…, I, Venetiis 1726, pp. 282 s. Più recentemente: M. Maylender, Storia delle Accademie d'Italia, I, Bologna 1926, p. 198; S. Bertelli, Ribelli, libertini e ortodossi nella storiografia barocca, Firenze 1973, pp. 67, 170 s.; A. Rotondò, La censura eccles. e la cultura, in Storia d'Italia, V, I documenti, Torino 1973, p. 1469; A. Asor Rosa, La cultura della Controriforma, in Storia della letter. ital., Il Seicento, Bari 1973, p. 52.