CRESCENZI, Alessandro Cosimo
Nacque a Roma il 12 sett. 1607 (il Moroni pone la nascita nel 1603) da Giovanni Battista e da Anna Massimo, nella nobile famiglia romana, legata durante la Controriforma al cenacolo di s. Filippo Neri. Compì gli studi umanistici al Collegio Romano, poi, giovanetto, entrò nell'Ordine dei cappuccini dal quale passò alla Congregazione dei chierici regolari somaschi. In essa portò a termine gli studi superiori e rimase fino al 1643, quando fu creato vescovo di Termoli (13 luglio 1643). Il 13 giugno 1644 passò alla diocesi di Ortona e Campli e, al suo ritorno a Roma, fu nominato luogotenente delle cause civili nel tribunale del cardinal vicario. Alessandro VII lo inviò nunzio a Torino, dopo la morte di mons. Landi: là il C. rimase dal 15 nov. 1646 al 30 dic. 1658.
Del suo operato presso la corte dei Savoia il C. fornisce dettagliati ragguagli in una relazione conservata presso la Biblioteca Vaticana (Chigiano N.II.4I.6-7, ff. 70r-93v). Da essa si evince come la sua missione si fosse rivelata alquanto difficile e delicata, specie per i contrasti col potere civile in materia giurisdizionale.
Il duca Carlo Emanuele II aveva infatti richiesto al papa il diritto di nomina anche nelle abbazie del suo Stato, nell'intento di rafforzare ed estendere lo ius patronati che già gli permetteva di nominare, senza eccezione, tutti i vescovi ed arcivescovi nelle diocesi del ducato. Durante la nunziatura del C. la S. Sede esercitò forte pressione sulla corte sabauda per ottenere la revoca dell'editto emanato il 5 apr. 1641 con il quale si limitava fortemente la giurisdizione ecclesiastica. I primi contrasti erano sorti col Senato di Chambéry che metteva "mano nelle cose ecclesiastiche", adducendo a giustificazione il droit coutumier; il C., che ripetutamente si era adoperato per sanare i contrasti, anche prima della sua partenza da Torino "con una lettera di molto affetto" ammonì di nuovo i senatori di "non mettere le mani nelle cose ecclesiastiche, mettendogli davanti lo stato pericoloso d'Inferno nel qual'erano facendo il contrario" (f. 82r).
Durante la permanenza del C. presso la corte, due episodi misero in contrasto il nunzio con i duchi. Il primo avvenne quando un monaco cistercense, fattosi passare per astrologo ed infiltratosi a corte, andava predicendo la morte dei sovrani per influssi stellari maligni. Il potere civile, ottenuto dal C. il capiatur, fece arrestare l'impostore, venendo poi a scoprire che insieme al monaco numerose altre persone avevano ordito una congiura contro i duchi. Il C. dette notizia del fatto alla Congregazione dell'Immunità che trasmise la causa a mons. Miglietti, vescovo di Saint-Jean-de-Maurienne, cui il papa ordinò di rimettere il processo a Roma. Perché non fossero propagate e rese pubbliche le deposizioni "scandalose" rese nel processo, la duchessa si oppose alla trasmissione degli atti ad un giudice competente romano, ostacolando così in ogni modo la volontà e l'azione del C., appoggiato, in questa circostanza, anche dal parere del Senato. L'affare si concluse solo quando il monaco fu strangolato in carcere. Il secondo contrasto, presto risolto, contribuì a turbare i già difficili rapporti fra il nunzio ed i Savoia: incarcerati a Roma alcuni staffieri del duca il C. non fu ammesso per qualche tempo al cospetto della duchessa, finché questa non si ravvide del suo "errore".
Ma altri problemi più gravi turbavano il C., spirito rigidamente ortodosso: primi fra tutti, la diffusione dell'eresia protestante in territorio piemontese e le condizioni del clero nel ducato.
Secondo un criterio di giudizio ispirato ad una rigida volontà di moralizzazione, il nunzio coglieva acutamente il nesso fra i problemi suddetti. Infatti, come egli scrisse, se "i tempi e le guerre avevano cresciuto... in infinito il numero de' preti", lo spirito con cui si abbracciava la carriera ecclesiastica non era certo ispirato da sincera vocazione, ma fra il clero prevalevano coloro che "... sotto il manto della Chiesa vogliono salvarsi dalle comuni gravezze o con erettione de' Beneficij e Cappelle o con ius patronati... restando i medesimi donatori, venditori etc. in possesso de' beni", trasgredendo così la vera missione sacerdotale. Inoltre, rilevava ancora il C., "alcuni pochi cattivi religiosi ne hanno dato estremamente da fare non solo per li delitti scabrosi... e son di pessimo esempio e gli Heretici se li prendono per stabilimento della loro perfidia e gli chiamano lupi rapaci, ma molto più per riuscirmi quasi impossibile la correttione per haverli trovati hostinati nelli lor viti e per non haver havuto forze sufficienti per poterli castigare" (f. 89).
Il C. non dovette affrontare solo problemi posti alla Chiesa cattolica dagli "eretici" protestanti transalpini che facevano "ogni sforzo per mantenere questi [eretici] delle valli del Piemonte, parendogli d'haver in essi un piede in Italia et una porta aperta contra la S. Sede" (f. 90v), ma dovette vigilare contro le "insidie" del giansenismo. Il 31 maggio del 1651 egli scrisse a Roma annunziando la prossima visita al papa dell'ambasciatore di Francia presso la Repubblica di Venezia D'Argenson premendo, nel medesimo tempo, perché venissero senz'altro accordati gli aiuti che il diplomatico francese avesse richiesto per arginare la diffusione della dottrina giansenista che, propagandosi ulteriormente in Francia, avrebbe costituito un modello di "ateismo" per la nobiltà piemontese.
Mentre era nunzio in Savoia, il C. fu nominato vescovo di Bitonto il 26 ag. 1652 e, senza abbandonare le diocesi già da lui governate, resse la nuova sede vescovile fino al 1668. Dopo il suo rientro a Roma, il C., conforme ai suoi principi di rigorosa applicazione delle direttive controriformistiche nel governo della Chiesa, volle recarsi nella nuova diocesi per risiedervi e provvedere direttamente alla cura delle anime.
Nel 1659 vi tenne il sinodo diocesano; si distinse per il suo costante operato in favore dei poveri; si adoperò perché ai sacerdoti fosse impartita una seria preparazione religiosa e morale e a tal fine fondò un seminario; restaurò il palazzo vescovile, abbellendolo di nuove opere d'arte. Nel 1665, giuntagli una segreta denunzia che un calabrese di nome Ferdinando Lo Stocco andava propagando in Calabria il culto di un tal Giovanni Calà, mai esistito, il C. comunicò la notizia all'Inquisizione che, dopo un processo, condannò la venerazione dell'immaginario Calà, proibendone la diffusione delle immagini.
All'inizio dell'anno 1663 il viceré di Napoli Gaspar de Bracamonte y Guzmán chiese ad Alessandro VII di inviare a Napoli come commissario dell'Inquisizione un vescovo del Regno, conoscitore dei problemi locali, per non permettere che nel Tribunale si procedesse "a modo di Spagna", ma, piuttosto, si continuasse a seguire la "via ordinaria". Il papa destinò il C. al Tribunale napoletano, deludendo le aspettative e le richieste della corte, che, tuttavia, approvò la nomina del vescovo di Bitonto il 15 apr. 1663. Il C., sebbene "per natura burbero e severo" (Amabile, p. 52), esercitò la carica con la prudenza e la diplomazia che erano mancate al suo predecessore mons. Piazza, senza così fornire pretesti per contrasti col potere civile. Agì tuttavia con fermezza, soprattutto in episodi delicati per la competenza giurisdizionale. Nel 1669, per esempio, mentre venivano condotte a morte due persone condannate dal foro laico per il furto di una pisside, il C. riuscì a far sospendere l'esecuzione e ad ottenere la remissione della causa al Tribunale ecclesiastico.
Nel 1670 Clemente X chiamò il C. a Roma per nominarlo suo maestro di Camera in sostituzione di Camillo Massimo eletto cardinale.
Il C. non parve ai contemporanei molto adatto a tale carica sia perché già anziano, sia per il suo aspetto severo: tuttavia, anche nel suo nuovo compito, egli seppe dar prova delle virtù morali e dei costumi "veramente apostolici". Così, infatti, il Grimani, ambasciatore di Venezia, commentava la scelta del papa: "Dei scaltri o fini, come a Roma si chiamano, [il C.] non abbraccia volentieri la pratica, conoscendola pericolosa; vorrebbe unir denari per levar alcuna gabella ma, se il tempo e la generosità di chi gli è vicino non l'aiuta, svanirà il suo santo desiderio nella sola buona intenzione" (Relazioni..., p. 357).
Dopo averlo nominato patriarca di Alessandria il 19 genn. 1671. Clemente X creò il C. cardinale prete col titolo di S. Prisca il 27 maggio 1675, facendolo successivamente anche protettore della Congregazione di S. Bernardo. Il 24 febbraio 1676 il C. fu scelto come vescovo di Recanati e Loreto. Governò le diocesi della Marca per sei anni, operando, come nelle altre sedi da lui rette in precedenza, con profonda onestà e dirittura morale. Si prodigò in favore dei poveri della diocesi; abbellì il palazzo vescovile, del quale restaurò la scalinata; donò al tesoro della cattedrale un reliquiario d'argento per contenere i resti di s. Flaviano e due pianete laminate in oro con le armi della sua famiglia.
In questo periodo riemersero fra il C. ed il card. Paluzzo Altieri, protettore del santuario di Loreto, dissapori e contrasti già sorti in precedenza, quando, nel conclave del 1676, nel quale fu eletto Innocenzo XI, il C. si era rifiutato di obbedire alle istruzioni dei capigruppo Altieri e Chigi, mantenendo la sua indipendenza nella scelta del candidato (si deve ricordare, fra l'altro, che nel medesimo conclave il C. ottenne numerosi voti, anche se ben presto si profilò netta la vittoria del card. Odescalchi). Le divergenze soprattutto in materia giurisdizionale, con i ministri del card. Altieri, che aprirono "un arringo di competenza che non solo perturbò la quiete, ma eccitò lo scandalo ne' Pellegrini che compaiono alla venerazione di quel Santo Luogo, mentre ognun di essi [il C. e l'Altieri] difendeva la preminenza col fulmine delle censure, fatto il Sacro Tempio lauretano un'arena di questioni ed una sentina di dubbi" (Battaglini, IV, p. 316), avevano turbato il C. ormai vecchio e desideroso di ritirarsi dalla vita pubblica per dedicarsi più intensamente alla preghiera e al culto divino.
Lasciato il vescovado di Recanati il 9 genn. 1682, si ritirò a Roma, dove abbellì la chiesa del suo titolo, S. Prisca. Morì a Roma l'8 maggio 1688, colpito da apoplessia mentre celebrava la messa; fu sepolto in S. Maria della Vallicella.
Fonti e Bibl.: Arch. Segr. Vaticano, Segret. di Stato, Savoia, nn. 6r-75(15 voll. contenenti le lettere inviate dal C. da Torino dal 6giugno 1645 al 27 dic. 1648);Bibl. Ap. Vaticana, Chig. N. II.41, 6-7, ff. 70r-93v: Breve ma universale racconto delli Stati etc. che sono sotto il Seren.mo di Savoia qual depone in mani del Sommo Pontefice Alessandro VII Alessandro Crescentio vescovo di Bitonto, doppo essere stato Nunzio appresso quella A. dodici anni (1ºmarzo 1659); Ibid., Barb. lat. 8706 (lettere del C. al card. Fr. Barberini dal 12 giugno 1676 al 24 dic. 1677); Relazioni della corte di Roma lette al Senato dagli ambasciatori veneti nel secolo decimosettimo, a cura di G.Barozzi -G. Berchet, II, Venezia 1879, p. 357; M. Leopardi, Annali di Recanati, a cura di R. Vuoli, II, Varese 1945, p. 324; M. Battaglini, Annali del Sacerdozio e dell'Imperio, IV, Venezia 1711, p. 316; D. Calcagni, Mem. istor. della città di Recanati nella Marca d'Ancona, Messina 1711, p. 148 s.; L. Cardella, Memorie storiche de cardinali della S. R. Chiesa, VII, Roma 1793, pp. 231 ss.; A. Vogel, De Ecclesiis Recanatensi et Lauretana, I, Recanati 1859, pp. 395 s.; V. Forcella, Iscrizioni delle chiese e d'altri edifici di Roma, IV, Roma 1874, p. 159; L. Amabile, Il Santo Officio della Inquisizione in Napoli, II, Città di Castello 1892, pp. 52 s.; H. Biaudet, Les nonciatures apostel. permanentes iusqu' à 1648, Helsinki 1910, p. 263; L. von Pastor, Storia dei papi, XIV, 1, Roma 1932, pp. 636-638; XIV, 2, ibid. 1932, pp. 4, 7 s.; L. Bartoccetti, Serie dei vescovi delle diocesi marchigiane, in Studia Picena, XV (1940), p. 123; L. Ceyssens, La prémière Bulle contre Jansenius. Sources relatives à son historie, II, Bruxelles-Roma 1962, p. 759; P. Gauchat, Hierarchia catholica, IV, Monasterii 1935, pp. 116, 266, 334; R. Ritzler-P. Sefrin Hierarchia catholica, V, Patavii 1952, pp. 9, 76, 330; G.Moroni, Dizionario di erudiz. storico-ecclesiastica, XVII, p. 186.