D'ALESSANDRO (Alessandri), Alessandro
Nacque nel 1461 a Napoli e quasi certamente appartenne alla nobile famiglia dei D'Alessandro, del sedile di Porto, che aveva già dato alla città illustri giureconsulti: Angelo, Carlo, Antonio. I dati biografici relativi al D. in nostro possesso risalgono per lo più ad un'unica fonte, ai suoi Geniales dies.
Destinato sin da piccolo agli studi giuridici, il D. apprese i rudimenti della lingua latina alla scuola di grammatica di Giuniano Maio e completò la sua educazione umanistica, a partire dal 1473 all'incirca, a Roma, dove seguì le lezioni di Domizio Calderini e di Niccolò Perotti che in quegli anni andavano commentando gli Epigrammata di Marziale, e di Francesco Filelfo che vi leggeva le Tusculanae disputationes di Cicerone. Si addottorò quindi in diritto e tra Napoli e Roma esercitò per molti anni la professione di avvocato, finché, stanco della pratica forense, disgustato dalla corruzione e dagli abusi dei suoi avidi colleghi, si ritirò nella quiete della campagna napoletana e romana a coltivare i prediletti studi umanistici.
Contemporaneamente intensificò gli scambi culturali che già da tempo intratteneva con gli esponenti più in vista dell'umanesimo napoletano e romano. A Napoli il Pontano, il Sannazaro, Gabriele Altilio, Andrea Matteo Acquaviva, il Compatre, Elio Marchese; a Roma il Platina, il Leto, Raffaele Maffei, Ermolao Barbaro, Girolamo Porcari, Giovanni Lorenzi, Sigismondo dei Conti da Foligno, Paolo Cortesi. Era sicuramente a Roma nel 1485 quando lungo la via Appia nel fondo degli olivetani di S. Maria Nova fu rinvenuto in un sarcofago antico il corpo imbalsamato di una fanciulla (Geniales dies, III 2). Era invece a Napoli nel gennaio del 1493, quando con gli altri accademici si recò a far visita a Gabriele Altilio per congratularsi con lui della nomina a vescovo di Policastro (ibid., V 1).
Tra il 1484 e il 1490 il D. ottenne la commenda dell'abbazia basiliana dei SS. Elia e Anastasio di Carbone, succedendo a Roberto Sanseverino che il pontefice aveva sollevato dall'incarico in seguito alle proteste dei monaci, stanchi delle sue angherie e delle ripetute spoliazioni cui aveva sottoposto i beni di proprietà del monastero. Dopo aver tentato di ritornarvi con le armi, il Sanseverino, battuto e imprigionato in Castel dell'Ovo, lasciò nel convento come suo procuratore Lelio Della Valle, con il quale dopo qualche anno il D. compose la contesa concordando la spartizione delle rendite nella misura di due a uno a proprio favore. Il D. tenne la commenda sino al 1507, quando divenne abate di Carbone Giovanni Gesualdo, ma dovette più volte difendere i diritti dell'abbazia contro le pretese del vescovo d'Anglona e i tentativi di usurpazione dei signori di Bisignano.
Ancora vivo nel 1521, come risulta dalla lettera che Andrea Alciato inviò a Francesco Minizio Calvo in data 6 maggio per pregarlo tra l'altro di chiedere al D. di prestargli il codice di Alfeno menzionato nei Geniales dies (G. L. Barni, Lettere di Andrea Alciato giureconsulto, Firenze 1953, pp. 29 ss.), sarebbe morto a Roma il 2 ott. 1523 secondo l'anonimo annotatore del cod. Vat. lat. 3920, c. 49r (in I. Carini, Notizia antica de' principali umanisti vissuti sullo scorcio del secolo XV, in Il Muratori, II [1894], p. 247).
L'anno prima, il 1° di aprile, a Roma, "in aedibus I. Mazochii" era uscita l'editio princeps dei Geniales dies. L'opera, un enorme zibaldone di varia erudizione in sei libri, dedicato ad Andrea Matteo Acquaviva, fu composta nella maturità, ma forse non oltre il primo decennio del XVI secolo, se l'ultima notizia databile in essa contenuta ci riporta al 1504, l'anno della morte nell'esilio di Francia di Federico d'Aragona. Prima della stampa ebbe diffusione manoscritta: nella lettera già citata dei maggio 1521l'Alciato scriveva al Calvo di aver letto "diligenter" il libro del D. che gli aveva inviato. Non ci sono tuttavia pervenuti manoscritti completi dell'opera. Il cod. Lat. 8682della Biblioteca nazionale di Parigi (ff. 84, sec. XVI) contiene soltanto una scelta di capitoli: 111 1-6 (mutilo); V 1-18 (mut.); VI 1-4 (mut.), 11 (mut-), 12-14 (mut-). Il ms. Vat. lat. 8077presenta invece alle cc. 50ss. poche annotazioni di Teodoro Ameyden su alcuni luoghi dei Geniales dies. Mai più ristampato in Italia, il libro del D. ebbe una enorme fortuna per tutto il Cinque-Seicento in Francia e in Germania e fu più volte edito, spesso corredato del commento dei più insigni esponenti del cultismo d'Oltralpe, il Tiraqueau, il Mercier, il Coler, il Godefroy, sino all'ultima stampa in due tomi, che tutti li raccoglie, apparsa a Leida nel 1673 "ex officina Hackiana": Alexandri ab Alexandro... Genialium dierum libri sex cum integris commentariis Andreae Tiraquelli, Dionysii Gothofredi, Christophori Coleri et Nic. Merceri. Un elenco pressoché completo delle edizioni è in D. Maffei (A. D., pp. 175s.), ma va integrato con almeno quattro voci: Parisiis, "apud Vascosanum", 1549; ibid., "apud Aegidium Gorbinum", 1565; ibid., "apud Gabrielem Buon", 1575; Lugduni, "sumptibus Philippi Borde, Laurentii Arnaud et Claudii Rigaud", 1651. In Italia, invece, nel corso del Cinquecento furono ristampati solo alcuni capitoli dei Geniales dies.
A Roma uscirono senza note tipografiche (ma presso Francesco Minicio Calvo, 1524) due opuscoletti di pochi fogli. Il primo riproduce i capp. III 8e II 21 (Miraculum Tritonum et Nereidum quae variis in locis tempestate nostra compertae fuere, quod non parum fidei poetis et rerum naturalium scriptoribus adstruere videtur; Historia memorabilis de homine qui plus in mari quam in terris degebat maximaque aequora tranabat. Ubi disseritur de vi ac influxu stellarum quae reddunt mortales variis animiet corporis dotibus insignes. Authore Alexandro iurisconsulto Neapolitano) ed è una vera rarità bibliografica: un esemplare è alla Marciana di Venezia (cfr. Barbieri, p. 76) e un altro alla Vaticana segnato Racc. I, IV. 1855 (4). Il secondo, meno raro, riproduce i capp. I 11; II 9; IV 19; V23 (Alexandri iurisconsulti Neapolitani Dissertationes de rebus admirandis quae in Italia nuper contigere, id est: De somniis quae a viris spectatae fidei prodita sunt inibique de laudibus Iuniani Maii maximi somniorum coniectoris; De umbrarum figuris et falsis imaginibus; De illusionibus malorum daemonum qui diversis imaginibus homines delusere; De quibusdam aedibus quae Romae infames sunt ob frequentissimos lemures et terrificas imagines, quas author ipse singulis fere noctibus in urbe expertus est). Insieme alle Laurentii Vallensis in errores Antonii Raudensis annotationes furono ristampati a Venezia nel 1543 "per Alouisium de Tortis" con il titolo ExAlexandri ab Alexandro Genialibus libris in L. Vallam annotationes (pp. 103-15) i capitoli dei Geniales dies sulle Elegantiae del Valla (Geniales dies I 8, 21; II 28; III 19; IV 14; VI 9 = Elegantiae I 21; V 2; III 18; VI 46-47; VI 24; I 18, III 7). Furono utilizzati anche nel commento all'edizione veneziana del 1586 "apud Ioannem Gryphium" delle Elegantiae. Le osservazioni sulle epistole II 9, 12, 14 ad M. Caelium di Cicerone contenute nel cap. II 7 furono riprodotte insieme con tutte le annotazioni di Gellio, Beroaldo, Merula, Poliziano, Crinito ed altri nell'edizione veneziana del 1568 "apud Ioannem Mariam Bonellum" delle Familiares. Il cap. VI 10 sulle XII Tavole è stato interamente riprodotto da D. Maffei (pp. 162-74).
Il trattato è un'opera che non si lascia facilmente riassumere, una miniera senza fondo, un "magazzino" (Tiraboschi) dove la merce più disparata è ammucchiata nel disordine più assoluto. In una cornice frammentaria nella quale affiorano i ricordi personali dell'autore e che dà alla sua curiosa ed enciclopedica operazione antiquaria il sapore e la vivacità del dibattito culturale umanistico, i Geniales dies procedono di capitolo in capitolo affrontando al di fuori di un'organica architettura e di un ordine prestabilito argomenti eterogenei: tutto quanto, dalla storia agli ordinamenti militari, sociali e religiosi, al diritto pubblico e privato e alla vita quotidiana, da questioni di filosofia, scienze naturali, archeologia, grammatica e critica testuale alle curiosità, alle leggende, alle arti magiche e alla superstizione, riguardasse il mondo antico. Per questi caratteri non è difficile individuare gli ascendenti del libro del D., in particolare, accanto ai modelli classici delle Noctes Atticae di Gellio e dei Saturnalia di Macrobio, le opere che in area umanistica erano nate da medesimi intenti di sistemazione e di divulgazione erudita, i Convivia Mediolanensia di Francesco Filelfò, i Commentarii urbani di Raffaele Maffei, le opere antiquarie del Biondo, i Miscellanea del Poliziano, il De honesta disciplina del Crinito. Tuttavia i Geniales dies conservano all'interno di questa produzione una loro specificità, che è poi anche il filo rosso che attraversa l'opera e le restituisce una sua pur fragile unità di impianto e di concepimento: l'approccio del D. con il mondo antico nasce da un interesse legato sostanzialmente ad una problematica storico-giuridica. Tutto può diventare, così, occasione per indagare le istituzioni dell'antichità, persino la ricostruzione filologica e l'esegesi di un passo di autore classico, la discussione sul significato di una parola, una scoperta o un dubbio archeologico, un qualsiasi aneddoto sulle abitudini quotidiane dei Romani. È certo comunque che una sezione cospicua dell'opera é riservata proprio alla ricerca giuridica, grazie alla quale il D. occupa un posto di tutto riguardo nel rinnovamento portato dall'umanesimo anche nel campo degli studi del diritto - si pensi al Valla o al Poliziano -, tanto da poter essere considerato uno dei più immediati precursori e sollecitatori della metodologia culta che nel corso del Cinquecento si affermerà in Francia e in Germania: unico motivo poi della fortuna grandissima dei suoi Geniales dies in questi paesi sin quasi al Settecento. In possesso di una cultura vastissima, che dai giuristi romani e medievali spazia. ai filosofi, agli storici, agli scienziati, ai poeti greci e latini, oltre che naturalmente a molti contemporanei, il D., fondando le, sue indagini su un rigoroso metodo filologico - non si dimentichi che aveva avuto come maestri il Maio, il Calderini e il Perotti -, tocca via via tutti gli aspetti del diritto pubblico e privato romano. I capitoli sulle magistrature messi insieme possono configurare benissimo una storia del diritto pubblico a Roma dalla monarchia all'impero, perche in essi con ricchezza di fonti e di raffronti con le istituzioni di altri popoli delt'antichità sono minutamente descritte, tra puntuali trattazioni di carattere generale (capp. III 20; IV 5, 6, 10; V 10; VI 23), le caratteristiche (composizione, poteri, competenze, funzioni) di ogni singolo istituto dell'ordinamento costituzionale romano: tribù (I 17), comizi (III 17; IV 3), senato (II 29; IV 11; V 6, 17); magistrature ordinarie e straordinarie, consolato e tribunato militare (II 27; III 3; V 2; VI 18), pretura (II 15), edilità (IV 4), questura (II 2), tribunato della plebe (I 3; 11 24; V 2; VI 24), censura (III 13), dittatura (I 6; IV 23); cariche sacerdotali (II 8; III 27; V 3) e altre cariche minori o speciali (I 27; III 16; VI 3, 20). È questa la sezione forse più valida dei Geniales dies, in quanto in essa il D. fa storia più che erudizione. Convinto infatti che le istituzioni romane valessero come modello storico da emulare e perfezionare e non com e norma assoluta e immutabile, si impegna a recuperarle nella loro integrale fisionomia, attingendo direttamente ai giuristi romani e a qualsiasi altra fonte coeva, letteraria e non, potesse far luce sulla norma del diritto romano presa in considerazione; respingendo invece, pur senza l'acrimonia polemica di un Valla, di un Vegio o di un Traversari, l'autorità dei giuristi medievali campioni del metodo della glossa. L'organicità e il rigore scientifico che caratterizzano la ricostruzione del diritto pubblico romano lasciano il posto, nei capitoli riservati al diritto penale (II 13, 16; III 5, 23; IV 1; VI 10) e al diritto privato (I 1, 7, 10, 24; II 3, 5, 20, 23; IV 5, 8, 15, 22; VI 1, 14), alla occasionalità e alla frammentarietà. Nei primi la trattazione non va al di là della descrizione di alcune norme della legislazione romana sul crimine; oscilla, pertanto, tra la genericità e la dispersività, affollata com'è di caotiche rassegne di reati e pene, di divagazioni e di citazioni dotte. Ancor di più si coglie questo limite nei capitoli in cui il D. si sofferma su aspetti del diritto privato romano, perché in essi la curiosità dell'erudito prende il sopravvento sul giurista e dà all'esposizione, anche quando l'occasione è fornita da casi dibattuti nella sua carriera di avvocato, un prezioso ma soffocante sapore antiquario. Non mancano certo in questa sezione i capitoli (quelli sul diritto successorio) in cui l'indagine giuridica torna ad essere puntuale, così come nella sezione penale si isola per il rigore filologico della ricostruzione testuale il lungo capitolo sulle XII Tavole. Restano tuttavia slegati fra loro quanto le ricerche parallele sul significato di termini rari disseminati nei testi di diritto (I 4, 15, 19, 25; II 10, 20, 30; III 1, 4, 9, 10, 14, 19, 25; IV 15; V 5, 11, 17). Se il loro intento è quello, proprio della filologia umanistica, di risalire dai verba alle res, di restituire cioè ai testi degli antichi giuristi attraverso lo studio della parola il loro esatto significato, non riescono però a superare il limite della minuta analisi grammaticale e a farsi storia perché disperse e soffocate dalla mole dell'erudizione, esse stesse in fondo non altro che archeologia. Sullo stesso livello si mantengono gli altri capitoli dei Geniales dies che affrontano questioni grammaticali e linguistiche (I 8, 21; II 28; IV 14; VI 9, 24), appena ravvivati dalla polemica con il Valla, o problemi di critica testuale e di esegesi su luoghi critici di Properzio, Marziale, Svetonio e Cicerone (I 23; II 1, 7; IV 21; V 1, 20), notevoli peraltro per l'acume e la dottrina delle annotazioni. Dopo il diritto, gli altri temi che trovano ampio spazio nello zibaldone del D. sono la religione (I 13, 14, 29; II 14, 22; III 12, 18; V 12, 19; VI 2, 4, 12) e le istituzioni militari (I 5, 12, 20, 22; IV 2, 7, 18; VI 13, 17, 22, 25) degli antichi descritte nei minimi particolari, e la urbanistica della Roma antica studiata attraverso i testi e ovviamente i resti archeologici, tra i quali il D. amava passeggiare e discutere con gli amici romani (I 16; II 4, 6, 12, 18; III 6, 9; IV 16, 25; VI 11). Tutto il resto dell'opera è ammasso farraginoso di notizie e di curiosità sull'antichità, dalla storia etrusca alla filosofia, alle monete, all'arredamento, all'arte culinaria, ai funerali, allo sport, ai passatempi, ai proverbi, alle bestemmie, agli scongiuri nell'antica Grecia e a Roma (I 9, 18, 26, 28, 30; II 11, 25; III 2, 7, 11, 21, 24, 28; IV 13, 20, 24, 26; V 4, 8, 9, 15, 18, 21, 22, 24, 28; VI 5, 19). A parte si collocano quei capitoli dei Geniales dies (I 11; II 9, 17, 21, 31; III 8, 26; IV 9, 19; V 23; VI 21) nei quali il D. con estrema serietà e credulità racconta di personaggi favolosi (ad es. le Nereidi, i Tritoni e l'uomo pesce su cui da bambino aveva ascoltato rapito le storie dalla voce del Gaza, del Trapezunzio e di Dragonetto Bonifacio), di predizioni e portenti, di sogni premonitori (ne era stato un grande interprete il Maio), di fantasmi, di apparizioni diaboliche, portando la sua testimonianza o quella di amici e conoscenti degni di fede. Senza entrare nel merito di queste narrazioni fantastiche, frutto di secolari superstizioni ancora vive nell'Italia quattrocentesca anche al livello colto - si pensi soltanto al Bracciolini o al Pontano -, tanto è vero che sei di questi capitoli furono ristampati a parte a Roma nei due opuscoli già descritti, il loro interesse consiste invece nel fatto che tutte insieme ci offrono il quadro vivacissimo di un certo costume della Napoli aragonese. D'altra parte l'intera opera del D. può essere letta, erudizione a parte, come un disordinato diario di cinquant'anni circa di vita socio-culturale meridionale. Emerge dal latino sobrio ed elegante dei Geniales dies il profilo umano e intellettuale del D. e dietro di lui si compone in mosaico il contorno dell'umanesimo napoletano e romano, delle cui due scuole, l'una filologica, l'altra antiquaria, il libro è un interessante prodotto di sintesi. Se lo sfondo storico-politico è alquanto sfocato e il D. si limita a registrare come eventi fatali la caduta di Costantinopoli e il crolto della dinastia aragonese, le annotazioni sulla nobiltà e sulle plebi rurali del Mezzogiorno, sulla corruzione degli ambienti forensi e religiosi di Napoli e Roma, sull'insegnamento, sulle consuetudini e sugli interessi degli accademici e curiali suoi amici hanno valore autentico di documento (anche se scivolano spesso nella nota di colore), così come la polemica contro i "grammatici" e certe animate discussioni sull'opportunità del matrimonio o sui concetti di liberalità, avarizia e ingratitudine ci riportano nel vivo del dibattito umanistico.
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