ALESSANDRO de' Medici, primo duca di Firenze
Fu considerato, nell'ambito della famiglia medicea, figlio naturale di Lorenzo duca di Urbino, nipote del Magnifico. Corse però largamente la voce che, in realtà, egli fosse figlio del cardinale Giulio, il futuro papa Clemente VII, e questa tesi è stata anche modernamente sostenuta da un autorevole studioso (G. Pieraccini); da quest'ultimo viene altresì spostata al 1512 la data di nascita di A., che tradizionalmente soleva assegnarsi al 1510. Infondata viceversa èl'altra diceria corsa nel Cinquecento che la madre di A. fosse una schiava mora: è provato che essa fu, invece, una servente della famiglia Medici, sposata poi ad un vetturale del Lazio.
A. fu allevato a partire dal 1519, cioè dopo la morte di Lorenzo duca di Urbino, presso la corte di Leone X. Di lui e di un suo cugino quasi coetaneo, Ippolito, figlio naturale di Giuliano di Nemours, fratello del papa, si volle fare i continuatori delle fortune della dinastia, a preferenza dei rampolli del ramo collaterale dei Medici, discendente da un altro Lorenzo, fratello di Cosimo il Vecchio. Già nel 1522 veniva procurato ad A. un feudo nel Regno di Napoli, il ducato di Penne; asceso Giulio de' Medici al pontificato col nome di Clemente VII, A. era mandato nel 1525 a raggiungere in Firenze Ippolito, il quale vi era stato inviato sin dall'anno precedente a rappresentarvi la signoria dei Medici, sotto la tutela del cardinale Passerini.
Nel 1527, dopo il Sacco di Roma, Firenze cacciava i Medici e ripristinava la Repubblica, ma Clemente VII, pacificandosi nel 1529 con Carlo V, otteneva che egli inviasse un esercito a sottometterla ed avviava anzi, più che il ripristino della signoria medicea di Cosimo il Vecchio e Lorenzo il Magnifico, la trasformazione di quest'ultima in principato assoluto. Elevando perciò Ippolito al cardinalato, sgomberava ad A. la via del dominio su Firenze e gli otteneva da Carlo V la promessa della mano della figlia naturale Margherita d'Austria, quando essa avesse raggiunto l'età nubile.
Ai piani di Clemente VII Firenze opponeva la sua strenua resistenza all'assedio postole dagli imperiali. In odio ai "popolari" prevalenti nella Repubblica, i "grandi" cioè le più ricche e potenti casate cittadine si riconciliavano col pontificato mediceo, cui erano legate da cospicui interessi e talvolta (Ridolfi, Salviati, Strozzi) da parentele. Ma gli stessi "grandi" volevano un regime oligarchico, il quale conservasse le magistrature repubblicane, accordando ai Medici solo una egemonia come "primi inter pares". Carlo V, infine, si atteggiava ad arbitro fra Firenze ed i Medici, per meglio dominarli ambedue. Clemente VII allora si sbarazzò della Repubblica e popolare, mercé gli imperiali, cui Firenze si arrese nel 1530,col patto della conservazione della sua libertà. Nel 1531, ottenne che i "grandi" chiamassero A. come supremo reggitore delle magistrature fiorentine e che l'imperatore ne consacrasse la posizione con unabolla di investitura. Nel 1532, infine, procurò un rimaneggiamento della costituzione, per cui al tradizionale governo di una "Signoria", composta di un gonfaloniere e un collegio di priori, si sostituiva un compromesso tra oligarchia e principato: A. subentrava al gonfaloniere, col titolo ereditario di "duca della Repubblica Fiorentina", affiancato da un Consiglio di duecento cittadini ed un Senato di quarantotto membri: ai priori subentrava un Consiglio ristretto di quattro membri del Senato rinnovabili trimestralmente.
Si creava così un equilibrio quanto mai instabile tra il potere di A. e quello dei "grandi", in cui non tardarono a sorgere malumori ed attriti. A. era certamente dotato di energia e non mancava, forse, di una certa vivacità di mente, ma non possedeva qualità personali tali da imporsi facilmente all'ambiente fiorentino: scarso di tatto, specie rispetto alle suscettibilità degli ottimati, e di umanità - sino a lasciare la madre stessa nella miseria, malgrado le sue richieste di soccorsi - il duca era privo di quelle elevate doti intellettuali, che avevano fatto la gloria dei Medici, e spiccava per una sua esuberanza fisica, che si sfogava in bravate violente ed avventure da donnaiolo, suscitando risentimenti e dicerie sinistre. Politicamente, A. mostrava un certo studio di giustizia imparziale ed una certa solerzia amministrativa, rivolte a guadagnare i ceti più umili della città e del contado, quasi a contrapporne l'appoggio alla ostilità dei "popolari", schiacciati nel 1530, ed ai malumori dei "grandi". Ma gli stessi provvedimenti da lui adottati per consolidare il suo trono recente, come la creazione di un nuovo apparato burocratico e militare, la costruzione di fortezze, le misure poliziesche, non facevano che inacerbire i "grandi" e suscitarne le accuse di tirannide contro il duca.
La situazione precipitò dopo la morte di Clemente VII, nel 1534, ad opera dei parenti del duca, come Ippolito de' Medici, i cardinali Salviati e Ridolfi, il ricchissimo banchiere Filippo Strozzi, che si posero alla testa dei "grandi" malcontenti. Usciti da Firenze, invocarono Carlo V, chiedendo che Ippolito fosse sostituito nel governo al cugino. L'imperatore tornava così arbitro delle questioni fiorentine, con grave pericolo per l'indipendenza della città e le parti contendenti furon convocate al suo cospetto a Napoli, dov'egli sbarcava nel 1535, reduce dalla vittoriosa spedizione a Tunisi. Ippolito si spegneva, per viaggio, ad Itri, di una morte improvvisa, che i fuorusciti attribuirono - quasi certamente a torto - al veleno di Alessandro. Ma i "grandi" ne trassero nuovo argomento giuridico: riconciliandosi cioè con gli esuli "popolari", chiesero a Carlo V non più di sostituire un Medici ad un altro, ma di rispettare integralmente i patti della resa del 1530, restituendo a Firenze la sua libertà.
Per A. si schierarono invece quei "grandi", che avevano preferito restare a Firenze, anziché esulare come lo Strozzi, capeggiati da Francesco Guicciardini, timoroso che la scomparsa del duca portasse al ritorno dei "popolari" al governo o peggio al completo asservimento di Firenze a Carlo V. Da Firenze, pertanto, si mostrò a Carlo V come A. gli fosse sempre stato devoto e si prospettò l'iniziativa degli esuli come una mossa diretta a colpire il duca per questa sua fedeltà, onde indebolire le posizioni imperiali in Italia; si sollecitò il compimento della promessa, fatta anni prima ad A., della mano di Margherita d'Austria; si fece balenare la possibilità per Carlo V di valersi delle ricchezze medicee per rinsanguare le proprie esauste finanze. Quando, nel gennaio 1536,si venne a Napoli al giudizio arbitrale, il repubblicano Iacopo Nardi sostenne invano le ragioni degli accusatori e l'opposta tesi, abilmente difesa dal Guicciardini, fu accolta da Carlo V. A. poté rientrare a Firenze da trionfatore e sposare poco dopo Margherita d'Austria.
Quel successo, tuttavia, era stato pagato a caro prezzo. Nel contratto di nozze, oltre a gravose clausole finanziarie, figurava un impegno per cui, se A. fosse morto senza figli, le fortezze di Firenze, Pisa e Livorno dovevano essere consegnate all'imperatore: la minaccia asburgica continuava perciò a gravare sull'indipendenza fiorentina. Né A. stesso sopravvisse a lungo al proprio trionfo sugli esuli. In quel suo parentado, così pieno di rancori, era anche un giovane poco più che ventenne, di cui il duca si era fatto un intimo familiare e compagno di avventure amorose: Lorenzino de' Medici, un discendente dal ramo collaterale della famiglia dotato, a differenza di A., di notevoli doti intellettuali e passione per la cultura classica. Forse suggestionato dal fantasma di Bruto, tanto esaltato dagli umanisti, ed avido della gloria del tirannicidio, o forse sospinto da un oscuro risentimento verso il parente più fortunato, Lorenzino attrasse con un pretesto A. in casa propria, nella notte fra il 5 e il 6 genn. 1537, e lo assassinò con l'aiuto di un sicario, fuggendo subito dopo a raggiungere Filippo Strozzi e gli altri esuli.
Il tirannicidio restava privo di effetti politici, in quanto il Guicciardini e gli altri dei Quarantotto si affrettavano a dare come successore nel principato ad A. un altro rampollo del ramo collaterale della casata, Cosimo di Giovanni delle Bande Nere, per prevenire moti popolari o mosse da parte di Carlo V. Esso chiudeva, però, la storia del ramo primogenito dei Medici, in quanto A. non aveva altri figli se non illegittimi, dei quali il primogenito, Giulio, era troppo piccolo per potere governare. Né costui, del resto, né le sue due sorelle minori Giulia e Porzia, fecero in seguito parlare di sé.
Bibl.: Carattere novellistico, anziché storico, ha la Raccolta di sentenze del duca A. de' M.,più volte edita nel Cinquecento sotto il nome di A. Ceccherelli, ed attualmente restituita al suo vero autore, Ser Sforzo da San Gimignano (ediz. a cura di G. Baccini, Mugello 1903). Né esiste una biografia di A., fuorché l'ormai antiquata di M. Rastrelli, Storia di A. de' M., primo duca di Firenze,Firenze 1781. In mancanza d'altro, v. pertanto, passim,L.A. Ferrai, Lorenzino de' Medici e la società cortigiana del Cinquecento,Milano 1891; A. Rossi, F. Guicciardini e il governo fiorentino dal 1527 al 1540,Bologna 1896-99; G. Pieraccini, La stirpe Medici di Cafaggiolo,Firenze 1924; A. Otetea, F. Guichardin, sa vie publique ..., Paris 1926; G. E. Moretti, Il card. Ippolito de' Medici, in Arch. stor. ital.,XCVIII (1940), pp. 131 e ss.