DEL BORRO, Alessandro
Nacque il 25 apr. 1600 ad Arezzo, in una famiglia di lontana ascendenza milanese, quivi riparata, dopo varie vicissitudini connesse col suo proclamato ghibellinismo, e ascrittavi alla nobiltà di secondo grado senza - per quanto sempre vissuta signorilmente e "senza fare arte alcuna" - conseguire, però, il primo, monopolizzato da poche famiglie interessate a sbarrare, così, l'accesso al gonfalonierato.
Padre del D., quel Girolamo d'Alessandro, uomo d'arme d'un certo credito (combatté al soldo dell'Impero in Ungheria divenendo capitano; in Toscana ebbe incarichi di sovrintendenza a Portoferraio, nella fortezza del Belvedere, e in altre località) e dilettante di poesia. Suo vanto l'invenzione d'uno strumento, il "buttafuoco", che "ogni bombardiere", a suo dire, adoperava, permettendo la misurazione d' "ogni distanza" sia col "chiaro" che nel "bruno" notturno. Ed egli, previa invocazione alla "musa gentil", celebrava "il modo" da lui "ritrovato per levare le distanze" in un poemetto in ottave, Il bombardiere (alla Laurenziana di Firenze segnato Med. Pal., 83), che dedicò al conte Orso d'Elci, parente di quell'omonimo che otterrà, nel 1629, l'infeudazione di Montepescali (G. Pansini, Per una storia del feudalesimo ... di Toscana..., in Quaderni storici, XIX [1972], pp. 151-153). Ulteriore e ben più ponderosa fatica di Girolamo del Borro (designato anche Borri o Borro o dal Borro; e tale lieve varietà grafica varrà anche per il D.) la versificazione, sempre in ottave, dell'intera Storia d'Italia guicciardiniana (alla Laurenziana colla segnatura Med. Pal., 91), prolisso esercizio di testarda applicazione del tutto impari all'ambizione di realizzare un maestoso poema epico.
Quanto al D., favorito da uno stipendio granducale, inizia dodicenne a Firenze, sotto la guida di Giulio Parigi, i suoi studi di matematica e meccanica chiaramente finalizzati al destino militare che l'attende. Intraprende, infatti, la carriera delle armi nel 1619, quando milita in Germania come "corazza" d'Ottavio Piccolomini, che gli rilascia, il 28 luglio 1621, un attestato di servizio, mentre una patente imperiale del 10 maggio 1623 lo nomina luogotenente di Gregorio Gaetani.
Particolarmente fitto d'incombenze, che paiono addirittura sovrapporsi ed interferire, per lui il 1625: preposto, come risulta da una patente del 16 gennaio e da un passaporto del 25 febbraio, agli arruolamenti, si spinge, a tal fine, sin nel Milanese, ove, forte d'un'apposita licenza imperiale e d'un benservito, del 27 marzo, di Gottfried Heinrich von Pappenheim, s'impiega presso Gomez Suarez de Figueroa duca di Feria, che, ad Alessandria, il 26 maggio, gli conferisce la patente di capitano d'una "compagnia franca di 300 alemanni", mentre Leopoldo, il fratello dell'imperatore, a sua volta dispone, il 21 giugno, assoldi gente nel suo territorio.
Di fatto il D. milita temporaneamente per la Spagna; ed è del 27 giugno la patente imperiale per l'arruolamento, a spese del granduca mediceo, dei 300 soldati tedeschi, appunto, della sua "compagnia franca". Licenziatosi il 6 luglio 1627, il D. rientrò nei ranghi imperiali, ove, con relativa patente di Wallenstein del 30 novembre, è dapprima capitano nel reggimento del colonnello Tommaso Cerboni. Distintosi per particolare competenza in fatto di fortificazioni, il generale dell'artiglieria conte Hannibal di Schauenburg gli fa ispezionare, nel febbraio del 1628, quelle dello Holstein; e della sua esperienza in materia s'avvale pure, all'inizio del 1631, il luogotenente generale Jean Tserclaes conte di Tilly. È quindi, col grado di sergente maggiore di battaglia, alle dipendenze del barone Heinrich Paradies che, il 1° marzo 1632, l'incarica d'assoldare uomini. Si guadagna, altresì, prodigandosi senza risparmio di energie nell'ampliamento e rafforzamento delle difese fortificatorie di Vienna, la stima dell'imperatore che ha modo d'osservarlo mentre dirige i lavori. Donde gli ulteriori avanzamenti di carriera. Nel 1633 è tenente colonnello agli ordini del colonnello barone Philipp Friedrich Breuner, il cui reggimento - per ordine di Wallenstein - alla fine di novembre conduce a Passau, di cui, ribellatosi Wallenstein, irrobustisce, specie per disposizione di Piccolomini del 6 febbr. 1634, l'apparato difensivo. Presente, in settembre, alla battaglia di Nördlingen, si merita, col suo vigoroso comportamento, una lusinghiera lettera d'elogio da parte di Ferdinando II. Per incarico, del 30 marzo 1635, del luogotenente generale Mattia Galasso provvede, tramite l'allestimento di ponti portatili, al sollecito trasporto delle artiglierie in Lorena. Partecipa poi all'assedio di Stettino e a quello di Ratisbona, sovrintendendo, durante quest'ultimo, alla costruzione d'ingegnose macchine suscitanti l'ammirazione del re dei Romani, il futuro imperatore Ferdinando III, che, memore della sua bravura, lo chiamerà per qualche tempo a Vienna con lettera del 21 febbr. 1639. Uomo di fiducia di Galasso, che gli affida compiti di sempre maggior responsabilità sino a delegargli di fatto il comando della fanteria, il D. si batte validamente, specie il 23 ag. 1639, nella difesa di Praga. E, a riconoscimento delle sue prestazioni, il D., con patente del 2 maggio 1640, viene promosso sergente generale di battaglia, colla provvigione mensile di 800 fiorini e la "riserva" del reggimento da lui comandato.
Particolarmente brillante il suo operato nel recupero di Zwickau per il quale il principe elettore di Sassonia Giovanni Giorgio I si complimenta, il 9 giugno 1641, con una lettera colma d'elogi e fervida di riconoscenza. In seguito il D. - a favore del quale viene pure risolta una fastidiosa lite per ragioni di precedenza scoppiata tra lui e Camillo Gonzaga nei pressi di Wolfenbüttel - diventa, così premiato del soccorso arrecato alla piazza di Friedberg assediata dagli Svedesi, generale dell'artiglieria (6 maggio 1642).
Ma il D. è, anche, "suddito" mediceo ed il granduca Ferdinando II, pressato dalle "occorrenze" dei suoi inaspriti rapporti con Urbano VIII e i suoi nipoti, desidera contare - insistendo con Vienna perché conceda la relativa "licenza" - sull'apporto direttivo di "uno de' più scielti et esperimentati soldati" (così il residente veneto a Firenze Valerio Antelmi) dell'esercito imperiale.
Non insensibile all'allettamento d'un ruolo di prestigio, il D., il 12 marzo 1642, fa il suo ingresso nella corte granducale, "accolto" da Ferdinando II, come puntualmente nota il veneziano Antelmi, "con modi di straordinaria benignità et con segni di molta stima".
Viene, infatti, "alloggiato et spesato in palazzo", dove "tutti i primi signori della corte" l'omaggiano e lo riveriscono. Dapprima, tra la fine di marzo e quasi tutto aprile, il D. ispeziona "tutte le fortezze dello stato" e si porta a "riconoscere le confinanze de' stati vicini ancora", non senza risentito malumore del marchese Giovanni Medici di Marignano che sente la sua autorità scalzata e mal sopporta le severe obiezioni ai provvedimenti, inutili ed inadeguati a detta del D., da lui adottati per le fortificazioni di Pisa e Livorno. Avviati nel contempo gli arruolamenti, il D. sovrintende ai connessi concentramenti e smistamenti di soldati, la cui qualità valuta di persona - ad esempio recandosi, a fine maggio, a Prato per la "mostra", che ivi si svolge, di 2 mila uomini - in occasione delle rassegne. E il suo giudizio è positivo ché, come informa in una lett. del 3 maggio Antelmi, va dicendo di "non haver mai veduta la più bella gente".
Dopo la parentesi del rientro temporaneo in Germania, il D., nel 1643, è di nuovo in Toscana ad assumervi il comando delle operazioni belliche come luogotenente del principe Mattias, il fratello di Ferdinando II, col titolo - sancito da patente granducale del 4 giugno - di "maestro di campo generale".
Così diventa, in certo qual modo, esponente di punta del guizzo di combattivo sussulto che pare momentaneamente scuotere dal torpore politico e militare lo Stato mediceo; ed è, in effetti, fautore d'un'impostazione aggressiva della guerricciola antibarberiniana. Donde il piglio quasi incalzante da questa assunta nel giugno: si concentrano le truppe a Montepulciano, entrano fieramente in terra pontificia, occupano Città della Pieve e assediano, quindi, Castiglione del Lago.
Piantando l'artiglieria su fascine accatastate a ricoprire il bassofondo del Trasimeno, il D. la fa bombardare sinché, per quanto in grado di resistere a lungo, non s'arrende per proditoria decisione dell'imbelle governatore, il duca Fulvio Della Cornia (M. G. Donati Guerrieri, Lo Stato di Castiglione del Lago e i della Corgna, Perugia 1972, pp. 276-283).
Ma segue, a scorno della smania del D. di sbaragliare l'avversario in un decisivo scontro frontale, una prolungata fase di ristagno operativo caratterizzata da uno stillicidio di modestissimi episodi: qualche perdita nemica, qualche prigioniero, qualche diserzione in campo toscano. Instancabile il D. - lo dice un suo anonimo sottoposto - cavalca "di buonissim'ora per andar a vedere i posti de' nemici" per "veder ben bene dove poteva principiare qualche scaramuccia", che funga, pel suo attivismo, da surrogato.Attestate, comunque, le forze granducali nel campo trincerato di Magione, contro questo muovono due colonne pontificie, una guidata da Taddeo Barberini, l'altra da Vincenzo Della Marra. Prevenendo la saldatura, il D. attacca, il 4 settembre, il secondo, presso Mongiovino, di sorpresa e, incalzandolo dappresso, lo costringe a riparare nel vicino castello, le cui vetuste mura malamente resistono al gagliardo fuoco d'artiglieria scatenato dal Del Borro. Alfine Della Marra, indebolito da pesanti perdite e non soccorso dall'altro contingente, è costretto alla resa. Vittorioso, il D. vuole strappare Perugia ai Pontifici, a costo d'utilizzare il grosso delle truppe medicee lasciando così sguarnita - non senza proteste - Pistoia verso la quale muove baldanzoso Antonio Barberini.
Ma, per quanto s'agiti "per fuggir l'ozio", per quanto s'aggiri mattiniero a cavallo "per riconoscere e scoprire dove il nemico stava", per quanto attizzi ogni tanto "un poco di combattimento", per quanto, quasi sbocconcellando il territorio, occupi via via "castelli" e "terre" e faccia man mano "nuovi acquisti", l'egemonia sul contado non si fa risolutiva. Non ha forze tanto numerose da controllarlo tutto e da espugnare, nel contempo, la capitale umbra. D'altra parte i Pontifici, ora guidati da Federico Imperiali, saviamente schivano la battaglia campale. Quando il D., il 12 ottobre, punta, con tutta l'armata su Perugia, essi si ritirano in questa senza nemmeno azzardare una "scaramuccia". Non c'è ingegnoso stratagemma che valga e stanarli di lì. Vanamente, il 13, il D. li sfida. "Si scaramucciò tutto il giorno - annota l'anonimo - con tiri di cannonate da una e dall'altra parte, ma il tutto seguì con poco danno d'ambidue le parti". Un po' di fracasso per nulla. Solo la "retroguardia", il 14, è impegnata in un abbozzo di modesta zuffa. Retrocesso a San Biagio in Valle, il D. vi attende per ore la comparsa del nemico e, poiché questo non si fa vedere, non gli resta che far "ristorare un poco la cavalleria" e sequestrare un po' di bestiame ai "paesani". Prosegue anche nei giorni successivi il taglieggiamento del territorio, mentre l'infittirsi delle piogge rendono sempre più uggiosa la permanenza. Giunge, per di più, avviso, il 26 novembre, che a Firenze c'è Alessandro Bichi e già si parla di pace. È quanto basta perché sfarini ogni residua velleità combattiva.
Il granduca - che del D. apprezza anche il suggerimento d'eliminare "il salto" dell' "acqua della Chiana alla Pescaia dei Frati" sì da esitare "tutte l'acque superiormente stagnanti"; una proposta, questa, semplicemente azzardata dal D., che il futuro autore del Trattato della direzione de' fiumi... (Firenze 1664) Famiano Michelini rilancia corredata da argomentazioni teoriche entrando, per questo, in polemica con Torricelli che, invece, esprime un motivato dissenso - si mostra riconoscente con le benemerenze militari del Del Borro. E, il 14 ott. 1644, l'investe del castello del Borro, del feudo di Castiglion Fibocchi e della pieve di San Giustino "con facoltà" di trasmissione ai figli "secondo la sua volontà".
Inoltre, poiché il D. è rimasto vedovo della contessa Caterina Cunegonda Schlick (zio paterno della quale era Heinrich Schlick il presidente del Consiglio di guerra), Ferdinando II si preoccupa del suo riaccasamento, altrettanto decoroso, con la nobildonna senese Penelope Fantoni figlia dell'auditore Niccolò e dama d'onore di sua moglie Vittoria.
Allietata perciò da domestici affetti la vita del D. nella sua dimora aretina, ma ben presto turbata dal dovere, derivante dalla carica di "mastro di campo generale", di tutelare con una parvenza di dignità militare la neutralità politica - di fatto costretta a funamboliche acrobazie - di Ferdinando II di fronte alla Francia e alla Spagna disputanti ad Orbetello a Piombino a Portolongone ed esercitanti, nel contempo, sul granduca lusinghe e minacce. Donde, comunque, l'adoprarsi del D. per l'infoltimento degli effettivi, il suo disporre milizie a Livorno, a Portoferraio, nelle "maremme di Siena", il suo assicurare ai "paesani", vittime di "incursioni" e "sortite" d'entrambi i contendenti, che ulteriori devastazioni non sarebbero state tollerate, che le "diligenze" della sorveglianza sarebbero aumentate.
Come scrive, il 19 genn. 1647, il residente veneziano Giovanni Zon, il D. è sollecito nel recarsi a "rivedere" i "posti", loro malgrado, coinvolti nel conflitto, un po' per "premunirli", un po' per "tranquillare le perplessità" angosciate degli abitanti. Comunque, osserva Zon il 27 giugno 1648, movimenti delle "militie pagate" e delle "bande" sono ispirati dalla preoccupazione di "non mostrar confidenza co' francesi nelle prossimità dell'armi loro" stornando, così, "le diffidenze e le gelosie" spagnole. Troppo subalterno e debole il granduca per ordinare alle sue forze una vigorosa difesa dello Stato. Quanto al D., il successore di Zon Tadeo Vico informa, il 12 dicembre, che egli ha chiesto "licenza di passar al servitio" della Spagna ove "pare" gli si sia "promesso il supremo comando dell'armi in Cattalogna". Un' "improvisa rissolutione" che suscita "maraviglia", che fornisce "materia di discutere et formare concetti diversi". Sconcerta voglia andarsene, pur godendo di grande autorità e di "rendita considerabile". S'avanza la spiegazione ciò si debba al "non passar da un pezzo in qua" tra il D. e "il principe Mathias intiera corrispondenza", arrogandosi il secondo l'esclusivo "merito delle passate imprese". Per cui il D., "per ovviare" a futuri eventuali "disgusti", pare ritenga opportuno "procacciarsi altrove più quieti e vantaggiosi impieghi". Fatto sta che, il 14, parte alla volta dell' "Alemagna per l'aggiustamento d'alcuni suoi interessi con l'imperatore", lasciando le "truppe ... senza capo", fungendo, per il momento, in sua vece, un "tribunale" costituito dai "sargenti di battaglia".
Una volta a Vienna con "licenza" granducale, l'imperatore, con patente del 15 febbr. 1649, gli conferisce il grado di maresciallo di campo con provvigione mensile di 1.800 fiorini e scrive, il 13 marzo, una lettera elogiativa nei suoi confronti al granduca. Dopo di che il D. e tra gli accompagnatori di Maria Anna, la figlia di Ferdinando III, che s'avvia, scortata dal fratello Ferdinando re d'Ungheria, alla volta della Spagna per sposarne il re Filippo IV. Giunto a Madrid, il D. sembra - così una lettera del 6 ott. 1649 dell'ambasciatore veneziano Pietro Basadonna - il più indicato ad assumere "il comando" delle "armi" in Catalogna in sostituzione di don Giovanni di Garray anziano e malandato di salute. Nominato, in effetti, il 28, maestro di campo generale, parte per la Catalogna "con ordine - precisa Basadonna il 14 novembre - di assister ad acquartierare le genti". Ispeziona, quindi, nel dicembre, "le frontiere del regno di Valenza", dedicando particolare attenzione alle fortificazioni. Di nuovo a Madrid, ne riparte per il teatro delle operazioni il 16 maggio 1650. Congiuntamente al conte d'Oropesa induce i Francesi a desistere dall'assedio di San Matteo e poi li fuga dal basso Ebro; quindi, con rapida mossa non prevista dall'avversario, punta su Flix che costringe alla capitolazione. Segue fulmineo l'attacco a Miravet; agevole l'occupazione della "villa", mentre il castello resiste una quindicina di giorni.
Reso baldanzoso dal successo, il D. convince il marchese di Mortara - è questi il reale successore di Garray, "dispensato dal comando", come aveva avvisato, il 26 marzo, Basadonna e, appunto, da lui sostituito peraltro non pienamente accontentato nella sua pretesa di "titolo assoluto di capitano generale" - ad attaccare la stessa Tortosa che viene stretta con un'autentica morsa. Come spiega una lettera, del 2 novembre, di Basadonna, l'occupazione del "forte di Amporta poche leghe" discosto, impedisce i soccorsi francesi dal mare risalendo l'Ebro, che resta sbarrato pure a monte grazie alla presa di Flix e Miravet. "Impedite", altresì, "assolutamente", pure le "venute" di "terra" tramite "la circonvalatione nella quale" gli Spagnoli "si sono potentemente e con buona regola stabiliti". Dura comunque "l'espugnatione" ché la città s'arrende solo il 5 dicembre. Una felice conclusione d'una campagna nella quale - così ancora Basadonna il 14 dicembre - gli Spagnoli sono stati "ben serviti dall'isperienza" del D. "e dal credito" del marchese di Mortara, il quale, d'altronde "ha subordinato" la sua autorità di "capitano generale al valore e peritia" del primo.
Fruttuoso da un lato, dunque, il "concerto" tra i due e merito precipuo del D. dall'altro, par di capire, l'impostazione strategica e l'esecuzione pratica. Non ci dovrebbe, dunque, essere "mutatione di capi". Il D. dovrebbe, pertanto, essere riconfermato. Ma, di lui invidioso, il "capitano generale" marchese di Mortara, adopera - lo si apprende dai dispacci di Basadonna del 31 maggio e 14 giugno 1651 - tutta la sua intrigante "industria" a corte per ridimensionarlo e sminuirlo. Spettandogli "assolutamente la direttione", o il D. s'assoggetta all'obbedienza più docile o per lui non c'è posto. Sdegnatissimo il D., autore di "tanti successi felici", conscio del suo "valore", nel vedere come si posponga l'interesse stesso della Corona al "capriccio e mala volontà di un ministro". Altezzoso rifiuta di "servire sotto" il misconoscente marchese, a gran voce protesta che il "torto" fattogli non è risarcibile con "alcuna mercede" e minaccia d'abbandonare clamorosamente Madrid, di tornare bruscamente in Toscana e d' "accompagnarsi con altro prencipe". Basadonna, che lo stima molto, suggerisce d'approfittare di questa sua intenzione di militare altrove e d'assoldarlo nell'impari lotta che la Serenissima sta sostenendo contro il Turco: il D. - assicura l'ambasciatore - ha "habilità di fare quelli miracoli che forse soli possono ristorare lo stato presente delle cose". Un'opportunità che, pel momento, sfuma, venendo il D. - più roboante a parole che intransigente nei fatti - agevolmente tacitato con un avanzamento di grado e un sensibile aumento retributivo.
È stato "dichiarato - scrive deluso Basadonna l'8 luglio 1651 - governatore dell'armi nelle frontiere di Galitia ... onde resta per hora acquetato, né può con ragione applicarsi ad abbandonare il servitio, nel quale viene premiato anco sopra la pretensione". E la sua posizione migliora quando si prospetta - l'annuncia sempre Basadonna in una lettera del 15 maggio 1652 - per lui il "nuovo impiego", comportante "utile e riputatione" ulteriori, del "governatorato dell'armi" di Badajoz, "alla frontiera di Portogallo" che gli frutta - precisa, il 1° genn. 1653, il successore di Basadonna, Giacomo Querini - "mille scudi il mese pagatigli pontualmente". Stipendio gratificante (tanto più che gli viene corrisposto in "scudi ... di plata", che valgono un terzo in più di quelli "di viglione") per il D. il quale, peraltro, più che avido di denaro sembra interessato all'alta retribuzione in quanto questa significa prestigio, lo rende agli occhi propri e altrui vieppiù rispettabile; ma non al punto da fargli tollerare l'inazione cui è costretto, la sottoutilizzazione delle sue capacità. Fisicamente prestante, robusto sino alla corpulenza (non per questo dev'essere il trivialissimo e panciutissimo omaccione d'un ritratto del tempo a lungo passato per suo) smania d'agire, malamente s'acconcia di rimanere "otioso" a Madrid. Non bastano le lusinghe del grado e gli omaggi a fargli scordare l'eccitante richiamo della battaglia proprio quando "la corona tiene tante occasioni da travagliare". Perciò, come informa Querini, va "sospirando di continuo gl'impieghi et i travagli" marziali lamentandosi che, se non viene "adoperato", la sua "riputazione" ne scapita. Infatti - sono sue parole riferite da Querini in una lettera del 22 gennaio - "la riputatione d'un soldato non dev'essere stimata fra gl'otii e le piume, ma quando s'adopera fra i cimenti dell'armi e ne gl'incontri". Preclusigli questi in Ispagna dall'altrui gelosia, il D. preferisce andarsene. "È stato dispacciato con un regalo" di 6.000 reali, avverte, il 20 agosto, Querini. Il quale - al contrario di Basadonna tutt'altro che estimatore del D. che l'ha urtato colle sue pretese finanziarie quando l'ha invitato a combattere per Venezia a Candia - non manca di precisare che il D. "in tre anni ha riscosso" ben 70.000 scudi. Valuti, insomma, esorta sarcastico l'ambasciatore, il Senato "il calore di questo stomaco che digerisce con facilità ogni grande vivanda". Arruolarlo, sottintende, sarà certo una gran spesa. E, in effetti, ancora nel giugno, il D. gli aveva fatto intendere che, per essere di suo gradimento, il "soldo" avrebbe dovuto ascendere a 12.000 ducati di buona valuta.
Tornato in Toscana (ove, ad ulteriore riconoscimento dei suoi meriti, il re cattolico gli conferirà, il 25 dic. 1655, il "marchionatus" di Tricastro, terra dello Stato dei Presidi dall'annuo reddito di 1.500 ducati), vi si svolge una vera e propria trattativa tra lui e A. Sarotti, il residente veneto che, per ordine del Senato, pazientemente e abilmente s'adopera per indurlo ad accettare l'offerta della Serenissima.
Via via smussati gli spigoli delle difficoltà - troppa distanza specie nei sondaggi iniziali, tra quanto, in fatto di "titolo" e "stipendio il D. esige e quanto la Repubblica propone si giunge all'accordo. Il D., visto che ha appena rifiutato d'andare in Germania "col solo titolo di generale dell'artiglieria", visto che quello di "general della cavalleria" offertogli da Venezia è per lui inadeguato e visto, d'altro canto, che quest'ultima non contempla quello di "maestro di campo generale" che egli, invece, desidera, servirà "senza titolo" dovendo dipendere solo dal capitano generale da Mar e con espressa "superiorità nel rimanente" sui "generali di cavalleria, artiglieria collonelli et ufficiali minori". Non inferiore altresì a quella percepita in Spagna la retribuzione annua di 10.000 ducati "di banco".
Così "soddisfatto", il D., alla fine di febbraio del 1654, parte, sicuro di "far gran favore alla Repubblica", come osserva con una punta di malignità il residente toscano presso questa Giovanni Francesco Rucellai, su "lettica" prestatagli dallo stesso granduca, alla volta di Rimini, quivi imbarcandosi per Venezia, dove giunto a metà marzo esprime ben presto le sue riserve sull'impostazione complessiva della guerra, troppo dispendiosamente dispersiva per essere coerentemente difensiva, troppo poco mobilitante per diventare efficacemente offensiva. Necessario comunque, a suo avviso, un incremento delle truppe; andrebbero, a tal fine, accelerati e ampliati i reclutamenti e sarebbero da imbarcare le stesse cernide di Terraferma.
Il D. "ista - scrive il nunzio pontificio, il vescovo di Città di Castello Francesco Boccapaduli, l'11 aprile - per maggior numero di gente et ha più volte proposto che giovarebbe assai il fare reclute. Ma ciò rendesi più facile a discorrere che a mettersi in pratica". Le esauste finanze veneziane non possono permetterselo; d'altra parte non si vuole sguarnito d'uomini il territorio. E, suo malgrado, il D. ne prende atto.Imbarcatosi nella flotta guidata dal capitano generale da Mar Alvise Leonardo Mocenigo - che salpa da Venezia all'inizio di maggio -, il D. ispeziona le postazioni venete delle isole e utilizza le soste per un addestramento intensivo delle truppe. Quindi si reca a Candia, la capitale dell'omonima isola assediata, per "investigare et informarsi con essattezza dello stato e circostanze più essentiali di questo recinto", come scrive, il 23 settembre, il provveditore generale dell'isola Andrea Corner, il quale, in una successiva lettera del 27 genn. 1655, rileva quanto il D. sia "tutto allestito a operare in ogni occasione che si presenti di ben pubblico", quanto il "fervor delle sue applicationi e progetti" lo rendano "svisceratissimo nel servitio" della Serenissima. Nell'attacco ad Egina, voluto nel febbraio da Francesco Morosini (il provveditor dell'Armata con funzioni di capitano generale essendo morto Mocenigo), il D. guida - con abile disposizione degli squadroni dei fanti, mentre la cavalleria precede in avanscoperta - l'agevole conquista dell'isola, base di appoggio pei rifornimenti turchi a Candia. Al saccheggio della "villa" e alla presa della "fortezza", segue, sotto la direzione del D., la "demolizione" di quest'ultima che egli peraltro - così, almeno, lo storico Andrea Valier - avrebbe preferito rafforzare e presidiare. Sono ancora le milizie addestrate dal D. ad occupare, quindi, Volo, non però sotto la sua guida ché Morosini, preferendo primeggiare da solo, lo lascia a bordo. Toccata Andro - ma qui muore, alla fine d'aprile, il nuovo capitano generale Girolamo Foscarini sì che Morosini mantiene il comando -, l'armata si sposta ai Dardanelli. E il D. fa sbarcare in terra turca la milizia per esercitarla e per provocare il nemico a piccoli scontri. Si porta quindi, sempre agli ordini di Morosini, nel luglio, all'assedio di Malvasia, partecipandovi più per obbedienza che per convinzione. In effetti la piazza si rivela imprendibile e lo stesso Morosini deve, dopo circa tre mesi di protratti sforzi, convincersi a desistere. Passato Morosini a Candia, il D. è ora alla dipendenze del capitano generale Lorenzo Marcello. Ha perciò modo, imbarcato col figlio Nicolò nella galeazza di Marco da Riva, d'esibire - così il provveditore dell'armata Barbaro Badoer nel resoconto della battaglia ai Dardanelli del 26 giugno 1656 durante la quale cade Marcello - "tenendo sempre a suo lato et esposto ad ogni pericolo il ... figlio, ... le prove sempre isperimentate del suo solito valore", contribuendo, pertanto, alla "più sublime impresa" delle vittoriose armi venete.
D'assoluto rilievo, di lì a poco, il ruolo del D. nella "impresa ... felice e fortunata" di Tenedo ultimata il 13 luglio. Anche se leggermente colpito "nel stomaco" da una "moschettata", è l'energico "principal direttore" d'ogni fase dell'operazione dallo sbarco all'avanzata, dalla conquista del "borgo" (qui, perché i soldati non rallentino, fa "sfondar le botte" di vino) al cannoneggiamento della fortezza, centrata alfine "nel luoco delle munitione", sino alle trattative di resa coll'avvilito "bassà", allo sgombero del nemico, all'acquisizione del cospicuo bottino. "Le commendationi" dovute al suo operato - scrive Badoer il 25 - "sono proprie della pubblica riconoscenza, né io posso che ammirar il suo merito ben grande, mentre godo da vicino il frutto delle sue applicationi e delle regole ch'egli ha disposto tra le militie ... degne d'osservatione e piene di profitto". Riattata sotto la sua guida la fortezza e munitala di presidio, il D. dirige la successiva conquista di Lemno che, iniziata l'11 agosto, si conclude in otto giorni, durante i quali sono soprattutto gli ininterrotti cannoneggiamenti convergenti da diverse posizioni sulla fortezza "piantata su l'eminenza d'un grebano scosceso" ad indurla ad alzare bandiera bianca.
Un altro successo, dunque, del D., avvelenato, però, dall'aspro contrasto esploso, nel frattempo, tra lui e Badoer per la "divisione" del bottino - il D. lo vorrebbe pei soldati, Badoer non può dimenticare le spettanze dello Stato e dei marinai - e per la destinazione degli "schiavi", da utilizzare per il D. a "riscattar camerate de' soldati", mentre Badoer rivendica all'armata il "dominio de' schiavi", senza il cui apporto "rimarebbe per la maggior parte inutile e insufficiente". Fatto sta che quando - in esecuzione dei patti di resa - la guarnigione turca s'accinge allo sgombero, i soldati, persino quelli destinati alla scorta dei partenti, delusi nelle loro aspettative di preda, ritengono "lecito" alleggerirla del "bagaglio". Un "disordine" che viola gli accordi, disdicevole per la dignità della Serenissima. Donde i rimproveri di Badoer al D.: sono state le sue demagogiche promesse ad aizzare l'ingordigia della truppa. Occorre, per far rientrare "il disordine già principiato del svaleggio", che il D. adoperi tutta la sua autorità perché questo cessi, mentre Badoer, per convincere anche i più riottosi a rispettare la "promessa fede" di indisturbata partenza ai Turchi, fa sparare, ad ammonizione minacciosa, due dimostrativi "tiri di falcone" dalla galera.
Irreparabilmente guastati, però, dall'episodio i rapporti tra il Badoer e il D., il quale ha, altresì, da un pezzo chiesto "licenza" di rimpatrio per occuparsi dei suoi "affari" in Toscana, essendo morto il suocero che li amministrava con "general procura". Divenuto capitano generale da Mar Lazzaro Mocenigo, il D. si stacca da Badoer per portarsi ad incontrarlo a Zante. Aggredito, durante il viaggio, come scriverà il nunzio pontificio a Venezia Carlo Carafa il 19 genn. 1657, "nelle acque della Sapienza", dai barbareschi, si batte animosamente contro di loro rimanendo però - restando per fortuna "illesi" il figlio Nicolò e la moglie, che, donna energica, ha sempre voluto seguirlo - gravemente ferito. E, non ristabilendosi, muore giorni dopo, il 2 dic. 1656, a Corfù, dove il suo malandatissimo "vascello" è riparato per la "concia".
Rimangono, a proseguirne la valentia militare, i figli. Natogli dalla prima moglie contessa di Schlick, Francesco, già paggio dell'arciduca d'Austria Leopoldo Guglielmo durante il suo governo dei Paesi Bassi, dopo aver combattuto in Ungheria a capo d'una compagnia di fanti del principe di San Gregorio Giberto Pio di Savoia ed essersi distinto - così un attestato imperiale del 5 dic. 1665 - quale "capitaneus" delle corazze "legionis" del colonnello Enea Silvio Caprara, si porta, come "venturiere" desideroso di battersi contro "immanes ... inimicos", a Candia cadendovi nella primavera del 1669. Suo fratello Marco Alessandro (1626-1701), dopo essere stato istruito in meccanica e arte fortificatoria a Firenze, dapprima è stipendiato mediceo, quindi "venturiere" in Germania alle dipendenze d'Innocenzo Conti e poi passa a combattere per la Spagna in Portogallo e Catalogna divenendo "generale del cannone" e soprintendente alle fortificazioni. Richiamato dal granduca Cosimo III, il "credito di ben intendere le fortificazioni" gli vale, come scrive, il 5 dic. 1674, l'inviato lucchese Silvestro Arnolfini, la carica di "governante dell'armi di Livorno", cui s'aggiunge "il posto di generale del cannone", che induce - come riferisce, nel 1684, Giovanni Claudio Bonvisi successore d'Arnolfini - alle dimissioni da sergente maggiore di battaglia il conte Ludovico Caprara, fratello d'Enea Silvio, cui, "secondo le regole della militia", la qualifica sarebbe spettata. Ciò rafforza vieppiù il primato del "general Borri" su "tutti gli altri" ufficiali granducali e per l'importanza della carica e - così, il 12 dic. 1693, un altro rappresentante lucchese, Scipione Lucchesini - per "la stima grande che fa il granduca della sua perizia nell'architettura e nell'arte militare" e per il "governo" di Livorno da lui esercitato "indipendentemente da ogni uno fuorché dal principe ... sopra soldati e cittadini con pienissima autorità". Già curato nell' "intermittenza di polso" e nella "febbre terzana" da Redi, una volta morto un magnifico monumento funebre erettogli, a spese dei Medici, nel duomo livornese da Giovanni Battista Foggini, ne impone la memoria. Quanto alla prole di secondo letto del D., attorno al 1670, la figlia Angela risulta sposa al tenente colonnello Nicolò Malogonelle, mentre la figlia Teresa è al servizio della granduchessa madre Vittoria. Dediti alle armi i due figli maschi: Nicolò che, già "condotto" dalla Serenissima e successivamente al servizio del granduca, risulta militare, attorno al 1670, al soldo della Spagna come capitano di fanteria nel reggimento di Domenico Pignatelli, muore nel 1690 alla Valona pugnando contro i Turchi per la Serenissima; Girolamo, dopo un periodo alla corte arciducale di Innsbruck, capeggia una compagnia di duecento fanti oltramontani nel reggimento del barone Heinrich Ulrich von Kielmansegge inviato nel 1667 a Candia da Leopoldo I. E, a riconoscimento del suo operato, una ducale del 20 giugno 1671, conferisce a Girolamo una collana d'oro. Pronipote, infine, del D. - figlio cioè di Pierfrancesco di Vieri, fratello quest'ultimo del D. - quell'Alessandro Del Borro (1672-1760) che sarà uomo d'armi, inventore d'uno strumento agricolo, amico di Muratori nonché promotore della milanese società palatina per la pubblicazione dei Rerum Italicarum Scriptores.
Fonti e Bibl.: Arch. Segr. Vaticano, Nunziatura Venezia, 85, cc. 95r, 171v; 89, c. 47r; Arch. di Stato di Firenze, Arch. Mediceo del principato. Carteggi con Venezia, 3027, cc. 697r-698r; 3028, cc. 1010, 1015; Arch. di Stato di Venezia, Senato, Corti, regg. 29, c. 151r; 30, cc. 83r, 225v-226r; 31, cc. 13, 14r; Ibid., ... Dispacci Firenze, filze 52, passim dalla lettera 34; 53, lettere 5-23 passim; 56, lettera 188; 57, lettera 10; 58, lettere 18, 20; 62, lettere 85, 113, 114, 116-118; 63, lett. 120, 123; Ibid., ... Dispacci Spagna, filze 82, lett. 53, 62, 67; 83, lett. 101, 156; 84, lett. 207, 209, 211; 85, lett. 263 e lett. di G. Querini 54, 65, 71; 86, lett. 104, 105; Ibid., ... Lettere Provv. da Terra e da Mar, filze 805, lett. del 23 sett. e 2 ott. 1654, 23 e 27 genn. 1655; 1097, lett. del 6 apr., 7 apr. (con allegata copia di lett. del D.), 25 maggio 1656; 1328, lett. del 31 ag. 1656 del cap. delle navi Marco Bembo; Ibid., Senato, Mar, reg. 116, c. 418r, delibera senatoria del 10 dic. 1653 in cui è "solevato dall'obligo di condursi al governo di Cerigo" il sessantaduenne omonimo del D. "Alessandro Bori"; dedicata al D. L'Armida disperata e il Lesbino ucciso, Arezzo 1647, del can. Felice Francucci; V. Siri, Il Mercurio..., III, Lione 1652, pp. 414, 862, 863, 864; M. Bisaccioni, Hist. delle guerre civili ..., Venetia 1655, p. 315; Ragguaglio della vittoria ... a' Dardanelli... sotto il comando del... Marcello, Venetia 1656, pp. non num.; L. Marcello e la battaglia dei Dardanelli…, a cura di I. Malaguzzi-A. Manoni, Modena 1894, p. 13; Briefe und Akten ... Wallensteins …, a cura di H. Hallwich, Wien 1912, II, pp. 199-200; IV, p. 783; G. G. Gualdo Priorato, La scena d'huom. ill., Venezia 1659, nella "nota de' ritratti d'altre stanze" all'inizio; M. A. 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