DELLA ROVERE, Alessandro
Discendente da un'antica famiglia di Savona (i Basso, che nel '400 avevano mutato il cognome per essersi imparentati con papa Sisto IV Della Rovere, e che successivamente si erano stabiliti in Piemonte acquisendo i titoli di conti e marchesi e feudi nel Casalese e nell'Acquese), nacque a Casale Monferrato il 26 ott. 1815, secondogenito del marchese Luigi e di Leopoldina Enrielli di Donnaz. Fu avviato, sulle orme del fratello maggiore Federico (generale, nato a Casale Monferrato nel 1805 e morto a Torino il 10 genn. 1865), alla carriera delle armi: entrato nella regia accademia militare di Torino l'11 genn. 1827, ne uscì nel 1835, primo del suo corso, col grado di luogotenente di artiglieria. Promosso tenente nel 1836, nel 1848 col grado di capitano ottenne il comando di una compagnia nel corpo dei pontieri. Durante la campagna del 1848-49 ebbe modo di segnalarsi all'attenzione dei superiori per le sue doti di organizzatore, in particolare quando quattro divisioni sarde dovettero sostenere per tre giorni l'urto di tutta l'armata austriaca per coprire la ritirata del grosso dell'esercito da Sommacampagna a Milano.
Nel maggio 1849 venne destinato, per rappresentare le esigenze militari, alla commissione per l'ampliamento del portofranco di Genova. In questo periodo gli fu di grandissima utilità l'appoggio del fratello Federico, legato ad Alfonso Ferrero La Marmora e agli ambienti di corte, divenuto nel 1848 direttore della Regia Fabbrica d'armi di Torino e, nel 1850, segretario del comitato centrale di artiglieria. Al D. non mancarono comunque le occasioni per segnalarsi individualmente: nel 1852 infatti ebbe la medaglia d'argento al valor militare per il coraggio dimostrato, il 26 aprile, nella direzione delle operazioni di estinzione dell'incendio scoppiato nella polveriera torinese di Borgo Dora. Promosso maggiore nel 1855, A. La Marmora lo volle a Genova quale responsabile dell'imbarco delle truppe sarde destinate alla spedizione di Crimea: durante la campagna in Oriente resse, con grande capacità amministrativa, l'ufficio dell'intendenza militare, meritando la promozione a tenente colonnello e la croce dell'Ordine militare di Savoia. Rientrato in Piemonte il corpo di spedizione, il D., che ormai faceva parte dell'entourage dei più fidati collaboratori del La Marmora, venne inviato in Francia, in Prussia ed in Inghilterra per studiare l'organizzazione e la preparazione di quegli eserciti. Dalle esperienze acquisite in queste missioni derivarono alcune riforme introdotte nell'esercito piemontese (ad es. la preparazione ginnica, fino ad allora assolutamente trascurata) e l'organizzazione della scuola di applicazione per gli ufficiali delle armi speciali, cui il D. diede un contributo notevole anche in qualità di docente con lezioni e corsi specifici (si ha notizia di un suo testo sulle tecniche di passaggio dei corsi d'acqua). Nel 1859, promosso colonnello, venne destinato a dirigere l'impianto del polverificio di Fossano, ma poco dopo, il 24 giugno, all'apertura della campagna di guerra, fu richiamato dal La Marmora all'incarico di intendente generale dell'esercito, per dirigere i servizi amministrativi e le sussistenze. Si trattava di un compito delicato e non semplice, in quanto era necessario coordinare l'organizzazione piemontese con quella dell'armata francese: anche in questa occasione il D. superò brillantemente la prova, meritandosi l'elogio dei generali transalpini e la promozione a maggior generale. Con questo grado fu intendente generale d'armata nella campagna del 1860-61 in Umbria e nelle Marche: ed ancora una volta la sua esperienza di organizzatore (nonché il successo della campagna) gli fecero ottenere la croce di grand'ufficiale dell'Ordine di Savoia, la promozione a tenente generale dell'esercito italiano e infine, nell'aprile 1861, la nomina a luogotenente del re in Sicilia, in sostituzione di M. P. G. Cordero di Montezemolo.
La luogotenenza siciliana durò circa cinque mesi e gli procurò, a Torino, la fama di uomo fermo e capace; in Sicilia invece la sua partenza non lasciò alcun rimpianto ed oggi il suo governo è generalmente considerato un tentativo di "governo forte" che preluse alla durissima luogotenenza del generale G. Govone.
In sostanza il D., come già aveva fatto il suo predecessore, "sbarcando a Palermo s'era subito insediato nel suo ufficio, senza averla [la Sicilia] visitata, sia pure superficialmente. Delle reali condizioni dell'isola, ... dei suoi reali bisogni nulla conosceva che potesse veramente illuminarlo nella sua azione di governo.... Era perciò naturale che anch'egli vedesse nella questione siciliana principalmente un problema di polizia da risolvere coll'aumento della forza. Troppo deboli le voci a lui pure giunte, che prospettavano, per assicurare all'isola prosperità e benessere, ben altre soluzioni che non quelle esclusivamente di pubblica sicurezza" (Brancato, pp. 170 s.). D'altra parte va rilevato che se da un lato la criminalità comune imperversava impunemente nelle città come nelle campagne, dall'altro anche la tensione tra le fazioni politiche (borbonici, liberali, garibaldini) e tra Palermo ed il resto dell'isola, era elevatissima: ed il luogotenente, che diffidava della guardia nazionale, poteva contare solamente su un contingente di 1.200 carabinieri. Il D. mirò a sdrammatizzare gli attriti politici evitando epurazioni indiscriminate ed impedendo l'arrembaggio delle fazioni alle cariche ed agli impieghi: sul piano della pubblica sicurezza, convinto che risolto questo problema la Sicilia non avrebbe avuto difficoltà ad integrarsi col resto del Regno, operò con durezza e persino con arbitrarietà. In tal modo egli, d'accordo col ministero, riteneva di poter spianare la strada alla leva del primo contingente isolano, che avrebbe dovuto dimostrare alla diplomazia europea la volontà della Sicilia di restare unita all'Italia sotto casa Savoia. Sostanzialmente la sua azione luogotenenziale fu quella di un militare, rigido nel colpire gli estremismi opposti, nel seguire le direttive ministeriali e nell'applicare le leggi. La disciplina e l'austerità che voleva imporre alla Sicilia scontentarono tutti i partiti e le fazioni: persino il giornale palermitano L'Unità politica che lo aveva a lungo sostenuto, il 10 sett. 1861 notava che il luogotenente "quanto più sta al potere, tanto più perde nell'opinione pubblica".
Sollevato dall'incafico, fu richiamato a Torino per assumere la carica di ministro della Guerra, che costituiva di fatto una specie di rivincita del La Marmora nei confronti del precedente ministro, il generale Manfredo Fanti, il quale per tutto il 1861 era riuscito a prevalere di stretta misura grazie all'appoggio di Cavour. Caduto infatti il governo alla morte del primo ministro, La Marmora, che non voleva alcuna modifica al suo regolamento del 1852 (studiato per la fanteria piemontese), riuscì ad imporre ai ministeri della Guerra e della Marina una serie di generali tratti dal suo entourage (oltre al D., il Petitti, il Menabrea ecc.), prevalendo così in maniera definitiva sul Fanti. Il D. ricoprì per due volte l'incarico di ministro della Guerra, dal 28 sett. 1861 al 6 marzo 1862 nel ministero Ricasoli e poi dall'8 dic. 1862 al 28 sett. 1864 nel ministero Farini-Minghetti.
Durante il primo incarico ministeriale non ebbe il tempo e la possibilità di introdurre o comunque avviare progetti di riforma di particolare impegno o rilevanza politica. Tuttavia, seguendo le sue attitudini lavorò intensamente all'organizzazione del ministero che suddivise in un segretariato generale e in cinque direzioni generali (per fanteria e cavalleria, per le armi speciali, per la leva, bassa forza e matricola per i servizi amministrativi e per la contabilità). Di fronte al grosso problema politico dei militari che avevano disertato per arruolarsi con Garibaldi, presentò una relazione con cui proponeva un decreto di generale amnistia che considerasse come non avvenute le diserzioni, cancellandone perciò tutti gli effetti militari, penali e civili. Si trattava in sostanza di una semplice proroga dei termini dell'analogo decreto reale del 29 sett. 1860, che lasciava del tutto impregiudicate le gravi questioni politico-militari in gioco: e cioè il problema delle promozioni sul campo decretate da Garibaldi, l'inquadramento dei volontari garibaldini, l'organizzazione e le funzioni della guardia nazionale, e l'integrazione dei militari ex borbonici nel nuovo esercito italiano. Il provvedimento, anche se nell'ottica rigida della casta militare sabauda doveva costituire un passo importante verso la pacificazione degli animi, di fatto manteneva intatta la situazione privilegiata dei "regolari" piemontesi: perciò, politicamente, sortì l'effetto opposto a quello voluto. Nel complesso l'unica iniziativa del D. di rilievo politico notevole, che però passò quasi inosservata, fu l'istituzione di una commissione militare permanente per la difesa dello Stato: si trattava di un organismo destinato a studiare e a predisporre operativamente l'assetto difensivo del regno nell'eventualità, che pareva inirninente, di uno scontro con l'Impero asburgico.
Il secondo incarico ministeriale affidato al D.; che nel novembre 1861 era stato nominato senatore (categorie V e XIV), non risultò molto più incisivo del primo, anche per effetto della difficile situazione politica ed economica. In effetti, dopo lo scontro di Aspromonte, s'erano acuiti i rancori tra l'elemento garibaldino (appoggiato dai democratici) ed il ministero della Guerra; il fenomeno della renitenza alla leva nelle province meridionali e soprattutto in Sicilia (anche se quantitativamente non gravissimo) pareva porre in discussione l'unità appena conseguita e determinava in Parlamento aspri contrasti circa i modi e i mezzi per risolverlo; infine i preparativi bellici dell'Austria richiedevano una politica di armamenti che il giovane regno non era in grado di sostenere finanziariamente, soprattutto a partire dal 1864. Operare in simili condizioni non era semplice. Comunque nel 1863, il D. riuscì a portare l'esercito a circa 400.000 uomini (ripartiti in venti divisioni ed in sette corpi d'armata); potenziò considerevolmente l'artiglieria, dotandola dei nuovi cannoni a canna rigata, di batterie campali da 9 cm e di posizione da 12 cm; portò a diciannove reggimenti la forza della cavalleria; riorganizzò e rafforzò, sulla base della nuova realtà territoriale, le difese stanziali; infine predispose la mobilitazione rapida deil riservisti e della gnardia nazionale e l'arruolamento di volontari. Tuttavia nel 1864 le limitazioni al bilancio della Guerra (ancorché ampiamente inferiori a quelle richieste dai conservatori) imposero la soppressione di numerosi depositi militari (ad eccezione di quelli della cavalleria e dei bersaglieri), la riduzione dei servizi amministrativi, nonché la predisposizione di un piano di anticipazione dei congedi e di ritardo della leva dei nuovi contingenti (attuato poi dal La Marmora nel 1865). Dalla fine del '63 il D. presentò in Parlamento una serie di proposte tese a riorganizzare (sempre sulla base della legge sarda) il sistema di reclutamento. Così dalla leva della classe 1843 gli arruolati di prima categoria vennero portati a 55.000 e la guardia nazionale a 18.000 uomini; vennero poste notevoli limitazioni alle possibilità di surrogazione dei coscritti, riducendo gli abusi e le disfunzioni che ne derivavano; invece il progetto di legge per togliere ai chierici l'esenzione dal servizio militare, benché già approvato dalla Camera nonostante le durissime proteste dei vescovi, cadde insieme al governo nel settembre 1864, mentre era in discussione al Senato.
Il prestigio personale del ministro cominciò a vacillare nel novembre '63, quando i deputati siciliani attaccarono duramente il ministero sul tema della repressione della renitenza alla leva operata in Sicilia dal generale Govone con estrema durezza; ancor più dannose furono però le voci insistenti e diffuse che spesso si levarono dalla stampa d'opposizione e persino in Parlamento circa lo'stato di impreparazione dell'esercito nell'eventualità della guerra all'Austria. Sofferente al cuore, nell'estate del 1864 il D. manifestò l'intenzione di dimettersi dall'incarico ministeriale: ma le esigenze politiche del momento (la definizione e la firma della convenzione di settembre per il trasferimento della capitale a Firenze) lo obbligarono a restare al suo posto sino al 28 settembre. Neppur due mesi dopo, il 17 nov. 1864, si spegneva nella sua casa torinese.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Palermo, Atti del Governo luogotenenziale, bb. 1860-64; Ibid., Prefettura, Gabinetto, Atti, bb. 1860-64, cc. 1861-62; Ibid., Prefettura, Polizia, bb. 1861-62; Arch. di Stato di Torino, Sez. Riunite, Patenti controllo finanze 1843-1850, voll. C-D, ad vocem; Ibid., Inventario de' documenti e titoli appartenenti alle famiglie della Rovere e delle Lanze ecc.; D. Cerri, Memorie istor. intorno alla nobilissima ed antichissima famiglia Della Rovere, Torino 1858, passim; L. **, Il luogotenente generale A. D. senatore del Regno, in Rivista militare italiana, IX (1864), 2, pp. 231-235; Almanacco nazionale. Pubblicazione del giornale "La Gazzetta del popolo" di Torino per l'anno 1866, Torino 1866, pp. 179-181; P. Bosi, Diz. storico-biografico-topografico-militare d'Italia compilato sulla scorta delle più accreditate opere antiche e moderne, Torino 1882, p. 221; F. L. Rogier, La Reale Accademia di Torino. Note storiche 1816-1870, II, Torino 1916, pp. 54 s.; S. Jacini, La crisi religiosa del Risorgimento. La politica ecclesiastica ital. da Villafranca a Porta Pia, Bari 1938, pp. 93 s.; F. Brancato, La Sicilia nel primo ventennio del Regno d'Italia, in Storia della Sicilia postunificazione, I, Bologna 1956, pp. 170-181; P. Pieri, Le forze armate'nell'età della Destra, Milano 1962, pp. 50, 70 s., 76; Storia del Parlamento ital., V, Dalla proclamazione del Regno alla convenzione di settembre, a c. di G. Sardo, Palermo 1968, pp. 122, 341-349; T. Sarti, Il Parlamento subalpino e nazionale..., Terni 1890, p. 369; Diz. del Risorg. nazionale..., II, pp. 892 s.; V. Spreti, Enc. storico-nobiliare italiana, V, pp. 842 s.