DELLA SETA, Alessandro
Nacque a Roma il 29 giugno 1879 da Giuseppe e Rachele Rosselli. La professione di medico esercitata dal padre avrà in seguito un influsso significativo sulla sua produzione scientifica.
Iscrittosi alla facoltà di lettere dell'università di Roma, si laureò in archeologia e storia dell'arte greca e romana sotto la guida di Emanuel Loewy nel 1901. Vincitore di una borsa di studio per l'archeologia, nei tre anni successivi alla laurea perfezionò la propria formazione con un lungo soggiorno in Grecia e con una serie di sopralluoghi alle più importanti raccolte archeologiche in Italia e in Europa. Nel 1904 conseguì il diploma di perfezionamento in archeologia. Fu quindi nominato assistente alla cattedra di archeologia nell'anno successivo; mantenne questo ruolo sino al 1909, anno in cui conseguì la libera docenza nella stessa disciplina.
Negli anni dello studio romano il D. sentì molto l'influenza dell'insegnamento, oltre che del Loewy, di K. J. Beloch e di F. Halbherr, che guidarono i suoi interessi sia nel campo della storia dell'arte antica sia in quello della storia greca, e in particolare dell'età omerica. Alla Evoluzione nell'epopea e nell'arte greca delle origini (in Rivista d'Italia, V [1902], 3, pp . 490-512) fu dedicato il primo scritto steso dal D. dopo il conseguimento della laurea: sia pure nei limiti di uno stile aulico e retorico e di una prospettiva non priva di ingenuità giovanili, lo scritto manifesta la piena appartenenza del D. al clima culturale del tempo, ancora pervaso delle idee dell'evoluzionismo darwiniano, cui il D. si ricollega rivendicando il valore universale della sua applicazione anche al campo, già al tempo estremamente dibattuto, della questione omerica. Il primo lavoro scientifico di grande impegno fu una lunga monografia su La genesi dello scorcio nell'arte greca (in Memorie d. R. Accademia naz. dei Lincei, cl. di sc. mor., stor. e filos., s. 5, XII[1906-07], pp. 122-242) per iniziativa dei soci Ghirardini e De Petra. Il lavoro, in realtà, si inserisce perfettamente nella scia della impostazione loewyana: al maestro il D. dedica, sia pure informalmente, il proprio scritto, che rappresenta tuttora uno dei suoi contributi più originali e certamente il più impegnativo degli scritti giovanili.
L'analisi del D. si sofferma su alcuni problemi chiave dell'arte della Grecia, quali la rappresentazione dell'obliquità, il parallelismo e la corporeità nella scultura, e infine lo scorcio nelle diverse arti figurative e nei suoi rapporti con la tecnica del chiaroscuro. L'ampio, minuzioso esame portato avanti dal D. si avvale di una serie di molteplici confronti sia con le arti orientali (in particolare con l'arte del Gandhāra) sia con le arti da lui definite "incolte", che dimostra un approccio alle problematiche dell'arte greca non viziato dal pregiudizio classicistico, unito ad un saldo metodo scientifico e ad "una puntigliosa, implacabile analisi formale che costituiranno la caratteristica saliente dei lavori successivi, non disgiunte da una capacità di dimostrazione addirittura matematica e da una facoltà eccezionale di sintesi" (Arias, p. 52).
L'interesse per i problemi della civiltà minoico-micenea, risvegliati in quegli anni dalle ricerche dello Evans a Creta e dall'inizio delle esplorazioni italiane nell'Egeo guidate dallo Halbherr e da Pernier, trovò riflesso in una serie di saggi pubblicati dal D. tra il 1907 e il 1909 sui Rendiconti dell'Accademia dei Lincei, supresentazione di I. Guidi e L. Pigorini.
In questi lavori, ad una acuta capacità di indagine filologica sui testi omerici, si aggiunge una matura tendenza a far convergere nell'unità dell'oggetto indagato le specificità delle singole discipline, dall'archeologia alla glottologia, dalla topografia alla storia delle religioni, nelle quali il D. dimostra di muoversi con agio sulla scorta di un rigoroso metodo analitico, che lo conduce ad una "determinazione stratigrafica dei canti omerici ricalcata sui successi della investigazione stratigrafica di quella civiltà iniziata da Schliemann" (Achaioi, Argeiot, Danaoi nei poemi omerici, in Rend. d. R. Accademia naz. d. Lincei, cl. di sc. mor., stor. e filos. XVI [1907], pp. 133-210; la citaz. a p. 166), o ad una sistematica, minutissima analisi dei segni indecifrati del disco di Festo, da poco portato alla luce negli scavi della missione italiana diretti dal Pernier (Il disco di Phaistòs, ibid., XVIII [1909], pp. 297-367).
Dopo l'impegnativo esordio giovanile nel campo della storia dell'arte antica, il D. andò consolidando esperienza e metodo in una serie di ricerche particolari, di non ampio respiro ma di solido impianto filologico, e in periodiche rassegne bibliografiche su problemi di scultura greca, apparse in Ausonia tra il 1906 e il 1908, ed articolate per schede, secondo un metodo che ritroveremo di lì a poco nel volume da lui dedicato al Museo Vaticano di scultura (Roma 1909), in cui volle presentare una scelta dei marmi antichi delle collezioni vaticane che fosse anche testimonianza della ritrovata importanza dell'arte romana. L'ambito della scultura greca rimase tuttavia anche in quegli anni a lui più congeniale; grazie ai suoi rapporti con Giulio E. Rizzo, allora direttore del Museo nazionale romano, poté portare a conoscenza degli studiosi e del pubblico alcune delle opere d'arte classica recentemente venute alla luce ed ancora inedite, quali La statua di Porto d'Anzio (in Boll. d'arte, I [1907], pp. 19-23)e La Niobide degli Orti Sallustiani (in Ausonia, III [1908], pp. 1-15), della quale rivendicò la natura di originale.
Già in questi studi, e ancor più nella analisi di Una statua arcaica di Villa Borghese (in Bull. d. Commiss. archeol. comun. di Roma, XXXVI [1908], pp. 3-20) - uno dei rari esempi di statuaria greca dell'inizio del sec. V a. C. copiata in età romana - affinò il proprio metodo basato su un'analisi estremamente minuta del panneggio, del ritmo, e specialmente del nudo, che rappresenterà in seguito uno dei più costanti e originali interessi del Della Seta.
Nel 1909, in qualità di libero docente, svolse all'università di Roma un corso monografico che trovò sbocco in un impegnativo volume (Religione e arte figurata, Roma 1912), con il quale il D. riprese alcuni dei temi che gli erano stati più cari sin dall'inizio della sua carriera scientifica. Lo scritto affronta il problema del rapporto storicamente determinatosi tra le arti figurative e le diverse concezioni religiose, prendendo le mosse dal concetto di magia e quindi dell'arte intesa come strumento magico di rapporto con la divinità, per svilupparne poi le tappe del progressivo distacco dalla religione in un processo di storicizzazione.
Come già aveva dimostrato nella sua precedente monografia, il D. allarga l'orizzonte della sua analisi ad altre culture figurative diverse da quella classica, rivelando da un lato di risentire delle impostazioni metodologiche del suo maestro, E. Loewy, e della scuola di Vienna, in particolare dell'opera di A. Riegl, dall'altro di essere particolarmente sensibile a quanto si andava sviluppando in quegli stessi anni in altri campi disciplinari, anche attraverso la mediazione del Golden Bough di J. G. Frazer.
La sua produzione scientifica abbondante e qualificata gli aprì le porte della amministrazione delle Antichità e belle arti, della quale entrò a far parte nel 1909 in qualità di ispettore presso il Museo nazionale di Villa Giulia, allora alle dipendenze di Giuseppe A. Colini. L'ingresso nell'amministrazione dei Musei e del territorio comportò anche un allargamento dell'orizzonte dei suoi interessi verso i problemi dell'archeologia etrusco-italica, che lo condusse a più diretto contatto con i materiali archeologici ed alle prime esperienze di scavo (Città di Castello. Scoperta di edificio romano, in Notizie d. scavi di antichità, s. 5, VIII [1911], pp. 57-63). Più che la sua attività sul territorio (rimangono scritti dedicati a scoperte e recuperi di antichità effettuati a Trevignano, a Gubbio, a Campagnano), appare in quegli anni di particolare mole il lavoro svolto sui materiali in deposito nel Museo di Villa Giulia, prima fra tutte la pubblicazione della Collezione Barberini di antichità prenestine (in Boll. d'arte,III [1909], pp. 161-211), da poco acquisita al museo e ricca della suppellettile di numerose tombe rinvenute negli anni immediatamente successivi alla metà del sec. XIX e scavate - secondo la definizione del D., che è anche una presa di posizione sul metodo d'indagine - "colla quasi esclusiva preoccupazione di raccogliere gli oggetti preziosi" senza prestare attenzione alcuna ai reperti ceramici, cioè - annota il D. - a "quel manufatto che solo rende possibile una cronologia relativa degli strati" (p. 161). La sua attività di attento ed instancabile catalogatore dei materiali museali si esplicò in quegli anni non solo nel Museo di Villa Giulia, ma in numerose altre sedi dell'Italia centrale, in particolare a Tarquinia, Todi, Gubbio e Terni. Il frutto più cospicuo di questi anni di lavoro vide la luce qualche anno più tardi con l'edizione del voluminoso catalogo del Museo di Villa Giulia (Roma 1918): una presentazione estremamente analitica., ed esemplare per il tempo, dei materiali di uno dei maggiori musei nazionali sorti con la formazione dello Stato unitario, preceduta da una illustrazione della storia e dell'architettura della villa e del museo, e non priva di spunti scientifici innovativi, tra cui il primo tentativo di inquadramento storico dello sviluppo del tempio etrusco e della sua decorazione fittile.
La parentesi nell'amministrazione statale ebbe fine nel 1913 con la chiamata del D. alla cattedra di archeologia dell'università di Genova, da lui vinta per concorso a soli 34 anni. La sua prolusione al corso di archeologia svolta nella nuova sede (L'archeologia dai Greci a Winckelmann e a noi [compiti e metodi],in Nuova Antologia, 1º febbr. 1913, pp. 499-512) costituisce uno dei rari scritti dedicati dal D. ad un ripensamento della storia e dei fini della propria disciplina; il classicismo del secolo passato viene messo in discussione dall'apporto delle nuove discipline, quali l'archeologia orientale e la paletnologia e dai nuovi rapporti instaurati con la sorgente indagine etnografica che tolgono l'archeologia classica dal proprio isolamento; la paletnologia, in particolare, modifica radicalmente gli atteggiamenti e i metodi dell'archeologia classica fornendole innanzitutto il metodo di scavo e dimostrandole l'importanza, ai fini di una ricostruzione storica delle civiltà passate, dei documenti più umili, della ceramica in primo luogo.
In questa prospettiva il D. si colloca apertamente da quella parte dell'archeologia classica italiana che andava apprendendo sin dai primi anni del secolo il meglio della lezione di Giacomo Boni, affermando la necessità di un profondo rinnovamento degli studi archeologici attraverso un allargamento dei confini della disciplina nel tempo e nello spazio, pur mantenendo al momento classico il primato che gli deriva dal rappresentare pur tuttavia il "nucleo fondamentale" dell'archeologia.
Nell'agosto 1914 il D. fu nominato commissario prefettizio presso il Museo di Arezzo allo scopo di compilarne l'inventario ufficiale a seguito di una lunga crisi di ordine amministrativo che aveva travagliato la precedente gestione di G. F. Gamurrini. L'opera, svolta dal D. con grande cura senza abbandonare l'impegno didattico presso l'ateneo genovese, gli consentì di acquisire una notevole esperienza e pratica amministrativa, interrotta il 28 luglio 1915, allorché, con lo scoppio della guerra, il D. rassegnò il mandato (Fraternità dei laici. Relazione del commissario prefettizio A. Della Seta, Arezzo 1915). Schierato nel campo degli interventisti, il D. si arruolò volontario e combatté per tre anni sul fronte trentino, conseguendo i gradi di ufficiale di artiglieria e il riconoscimento della croce di guerra. Al fronte corresse le bozze del volume dedicato al Museo di Villa Giulia.
Al termine del conflitto il D. ottenne l'incarico di direttore della Scuola archeologica italiana di Atene che, fondata su iniziativa di F. Halbherr e diretta da L. Pernier dal 1909 al 1916, aveva dovuto sospendere le proprie attività nel corso della guerra. Il D. ricevette le consegne dal Pernier nel maggio 1919: ebbe allora inizio un periodo ventennale durante il quale resse ininterrottamente le redini della Scuola, affermandosi come una delle maggiori personalità del tempo in campo archeologico. Su richiesta del comandante del corpo di occupazione dell'Egeo, V. Elia, compì nel giugno-luglio 1919 una missione nel Dodecanneso e in Asia Minore. La ripresa effettiva delle attività della Scuola si ebbe solo nel dicembre dello stesso anno con l'arrivo ad Atene dei nuovi allievi e con la ripresa delle attività amministrative, condizionate sin da allora dalle ristrettezze finanziarie che costrinsero il D., specie nei primi anni, a concentrare le iniziative scientifico-didattiche in viaggi di istruzione e in esplorazioni topografiche, rinunciando per il momento ad avviare campagne di scavo sistematiche.
Ebbe inizio con il 1920 una organizzazione efficiente delle attività della Scuola - destinata a divenire tradizionale negli anni successivi - imperniata su corsi di lezioni dedicate alla topografia ateniese ed ai problemi di scultura greca, alternati con esercitazioni nei musei sulla tecnica vascolare e con viaggi di istruzione. Contemporaneamente il D. si impegnava da un lato nella istituzione di corsi culturali dedicati alla comunità italiana di Atene, dall'altro in un programma scientifico per lo studio della Atene romana, sino ad allora trascurato da altri studiosi e da lui sentito come "dovere nazionale della Scuola", che il D. concepì sin dall'inizio del suo compito come strumento di una "missione scientifica e politica in Grecia e in Oriente" dell'Italia (R. Scuola archeologica di Atene, in Cronaca delle belle arti, in Boll. d'arte,XIV[1920], pp. 34 ss.).
Gli atteggiamenti e gli scritti del D. si colorano in questi anni di un più forte accento nazionalista in sintonia con la sua adesione al regime fascista. Troveremo tracce di questo atteggiamento nelle cronache da lui stese sulle attività della Scuola sia prima sia dopo l'avvento del fascismo, dove non mancano accenni retorici d'occasione a "Rodi lembo di mondo latino, ove l'arte" attesta "l'inesauribile genio della razza" (Cronacadelle belle arti. Dal Dodecaneso, in Boll. d'arte, XIII[1919], pp. 25-30) o esplicite attestazioni di fiducia per il nuovo governo nazionale e per la "mente illuminata di colui che dirige la nostra politica estera" (R. Scuola archeologica di Atene, ibid., IV[1924-25], pp. 77-93), ma anche e specialmente in una opera di carattere scientifico-divulgativo come il volume Italia antica. Dalla caverna preistorica al palazzo imperiale (Bergamo 1922). Si tratta di uno scritto - dedicato alla memoria della madre - venato di trionfalismo nazionalistico, steso - come affermerà lo stesso D. nella Prefazione alla seconda edizione (Bergamo 1928) - "rapidamente nell'autunno del 1921, in periodo di debolezza e di umiliazione politica, e volgendo lo sguardo, per consolazione mia ancor prima che per quella del lettore, al grande passato d'Italia", rinnovata ormai "nel suo spirito nazionale sotto il segno romano del Fascio littorio".
Nel 1921 il D. compì, in compagnia di A. Maiuri, un viaggio in Caria, spinto dal desiderio di impostare le basi per uno studio del problema della origine e della fine della civiltà cretese-micenea. A questo interesse ed a quello parallelo per l'origine della civiltà greca dedicò in seguito gran parte delle attività scientifiche della Scuola. Decise di avviare scavi nell'isola di Lenino allo scopo di meglio definire sul piano archeologico la cultura di cui era espressione la nota stele "tirrenica" di Kaminia, collegata al problema, in lui sempre vivo, della origine della civiltà etrusca. In attesa dell'autorizzazione per lo scavo da parte delle autorità greche, il D. avviò altre ricerche sia in Atene (scavo alle pendici sud dell'Acropoli) sia nel continente (Farsalo), in Caria (Budrum) e specialmente nelle isole dell'Egeo, a Coo, Scarpanto, Tino e nella stessa Rodi. Lo scavo archeologico di maggiore impegno e di più vaste implicazioni fu tuttavia quello nell'isola di Lemno, cominciato nel 1926 in due distinte località, Vriocastro e Efestia, sul sito di una importante necropoli di età geometrica e classica.
Gli scavi a Lemno dureranno per diversi anni e verranno proseguiti anche sul sito dell'abitato di Poliochni, sorto nella prima età del bronzo, scelto dal D. anche per motivi di carattere didattico "perché lo scavo in terreno preistorico obbliga ad una costante e precisa osservazione dei dati di fatto" (Atti della Scuola, in Annuario d. Scuola archeol. ital. di Atene, XIII-XIV [1930-31], p. 502).
I risultati delle diverse attività di ricerca svolte nell'ambito della Scuola verranno periodicamente pubblicati nei voluminosi fascicoli dell'Annuariodella Scuola archeologica italiana diAtene, che, dopo la parentesi della guerra, aveva ripreso le sue pubblicazioni nel 1921 con il vol. III (1916-20), apprestato ma non condotto a termine dal Pernier.
I rendiconti periodici delle diverse attività di ricerca sul territorio, e in particolare degli scavi, troveranno la loro sede prevalentemente solo in appendice ai volumi dell'Annuario, a conferma di una non ancora pienamente matura consapevolezza della centralità della ricerca sul terreno, pur tuttavia sentita dal D. come attività di alto livello scientifico, secondo la scuola di F. Halbherr, alla cui morte il D. dedicò nel 1930 un ampio necrologio (Federico Halbherr, ibid., XIII-XIV [1930-31], pp. 1-7).
Accanto agli interessi di ricerca intorno a cui si concentravano prevalentemente le attività di scavo della Scuola, il D. portò avanti, attraverso i successivi corsi monografici tenuti per gli allievi, una ampia ricerca di natura storico-artistica destinata a confluire nella sua opera maggiore (Il nudo nell'arte, I, Arte antica, Milano-Roma 1930), dedicata significativamente alla memoria del padre dal quale aveva appreso l'interesse per il corpo umano e per la sua anatomia.
Il volume, il cui primo capitolo è dedicato alla "Forma naturale dell'uomo", ossia ad una accurata descrizione delle ossa, delle articolazioni, dei muscoli e delle vene del corpo umano, è inteso a dimostrare "non fino a qual punto l'arte abbia raggiunto la natura, copiandola, ma quale ispirazione abbia tratto da essa, modificandola" (Prefazione). L'impostazione positivistica del D., che è alla base del suo metodo di descrizione diagnostica del prodotto artistico, si unisce ad "una fine sensibilità intuitiva nella comprensione dell'opera d'arte" (R. Bianchi Bandinelli, Introduzione all'archeologia, Bari 1976, p. 107), vista sotto l'aspetto, limitativo ma scrutato con minuziosissima profondità di analisi, della resa del nudo. Apparso in un momento di prevalente impostazione idealistica della critica d'arte e degli studi di arte antica, il volume del D. - che ottenne il premio reale dei Lincei - non conseguì un particolare favore per l'evidente matrice positivistica delle sue formulazioni, anche se costituì e tuttora rappresenta un esempio mirabile di critica di anatomia artistica ecioè di un "passaggio obbligato di natura tecnica per giungere ad una sintesi storico-artistica delle personalità degli artisti, e dei caratteri e delle fasi della storia dell'arte greca" (Arias, p. 62). L'obiettivo del D. di seguire attraverso la resa del nudo l'intero evolversi dell'arte figurativa, non solo nella Grecia classica, ma anche nelle civiltà artistiche a noi più vicine, si concretò in un secondo volume, dedicato all'arte della prima età cristiana e quindi del Rinascimento, che non vide mai la luce perché a lungo bloccato dal ministero per la Cultura popolare per motivi di carattere razziale.
Dal 1926, per iniziativa personale del ministro Fedele, il D. aveva avuto il trasferimento della propria cattedra presso l'università di Roma sull'insegnamento di etruscologia e archeologia italica (G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, Venezia 1966, pp. 232 s.). Socio corrispondente dell'Accademia dei Lincei sin dal 1922, ne entrò a far parte come ordinario nel 1930; socio dell'Accademia di S. Luca dal 1927 e membro, dallo stesso anno, della Società archeologica greca, fu chiamato anche nel comitato tecnico della nuova Enciclopedia Italiana, in qualità di direttore della sezione Archeologia (dal 1925 al 1930: Archivio storico dell'Ist. dell'Enciclopedia Italiana). Ma la vicenda pubblica del D. ebbe termine con la promulgazione delle leggi razziali nel novembre 1938, che verranno ad interrompere la sua lunga carriera direttiva e la sua stessa attività scientifica e didattica. Le sue ultime produzioni scientifiche edite risalgono al 1937 e sono entrambe dedicate al problema della cultura tirrenica di Lenino (Arte tirrenica di Lemno, in Archaiologike Ephemeris, 1937, 2, pp. 629-54; Iscrizioni tirreniche di Lemno, in Scritti in on. di B. Nogara, Città del Vaticano 1937, pp. 119-46). Nello stesso anno, in occasione del Centenario della ᾿Αρχ εταιρεία, il D. fu insignito di medaglia d'oro in qualità di decano dei direttori degli istituti stranieri operanti in Atene. Nel novembre 1938, israelita d'origine, fu colpito dalle sanzioni delle leggi razziali, nonostante avesse dato durante tutto il ventennio trascorso in Grecia sicura testimonianza di sincera adesione al regime fascista, in sintonia con le posizioni politiche interventiste e nazionaliste da lui assunte ancor prima dell'avvento del nuovo regime, e non ignote allo stesso Mussolini (cfr. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1961, p. 116). Venne compreso nella lista dei discriminati (ibid., p. 401; S. Ferri, Gli indirizzi teorici dell'archeologia italiana negli ultimi cento anni, in Un secolo di progresso scientifico italiano: 1839-1939, Roma 1939, p. 72 n. 3) in considerazione dei suoi meriti culturali, ma fu costretto a lasciare il suo incarico di direttore della Scuola archeologica italiana di Atene al successore, Guido Libertini, designato dopo il rifiuto opposto da R. Bianchi Bandinelli di assumere l'incarico (R. Bianchi Bandinelli, Dal diario di un borghese e altri scritti, Milano 1962, p. 71). Il passaggio delle consegne avvenne tuttavia solo nell'aprile 1939.
Rimpianto dai suoi numerosi allievi - tra cui G. Becatti, che dedicherà alla memoria del maestro i suoi Problemi fidiaci (Milano-Firenze 1951), e numerosi altri rappresentanti di primo piano dell'archeologia italiana degli ultimi decenni - per le doti di profonda umanità e raffinata sensibilità, nonché per le grandi capacità di insegnamento e di interpretazione della cultura greca, il D. accettò in silenzio il proprio allontanamento, scomparendo dalla scena pubblica così come da quella del mondo culturale.
Il D. morì isolato, in seguito a rapida malattia, nel pieno del secondo conflitto mondiale, il 20 settembre del 1944 a Casteggio di Pavia. La notizia della sua morte giunse a Roma assai più tardi, nel maggio 1945, allorché l'università di Roma aveva già provveduto a reintegrarlo nella cattedra da cui era stato forzatamente allontanato.
Bibl.: R. Paribeni, A. D., in L'Osserv. romano, 17 giugno 1945; M. Pallottino, A. D.,in Annuario d. R. Univers. d. studi di Roma, 1944-45, pp. 349 ss.; G. Becatti, Ricordo di A. D.,in Arti figurative, I (1945), pp. 102 ss.; E. Pontieri, A. D., in Nuova Riv. storica, XXVIII-XXIX (1944-45), p. 416; R. Paribeni, A. D. Cenni biografici. Bibliografia, in Annuario d. Scuola archeol. ital. di Atene, n. s., VIII-X (1946-48), pp. 371 s., che raccoglie la bibl. del D., ripresa anche da P. E. Arias, Quattro archeologi del nostro tempo, Pisa 1976, pp. 43-63 (in part. pp. 139 s.); Encicl. Ital., XII, p. 557; App. II, I, p. 769.