Alessandro di Alessandria
Il pensiero di Alessandro di Alessandria incarna la fase finale della breve parentesi in cui la scolastica medioevale tenta di operare una sintesi tra concezioni aristoteliche e tradizione cristiana. Nel suo Tractatus de usuris l’attenzione per i problemi teorici lascia il campo a una minuziosa analisi della realtà economica, nella quale la condanna del prestito a interesse basata su argomenti razionali mostra tutti i suoi limiti. Di qui il recupero di una nozione teologica del peccato d’usura che, in sintonia con la concezione francescana dei beni e del denaro, porta a dilatare gli spazi di legittimità del credito.
Alessandro Bonini (o Bonino), noto anche con il nome di Alessandro Lombardo o di Alessandria, nasce in quest’ultima città verso il 1268. Non si hanno notizie sui primi anni della sua vita, anche se sappiamo che, entrato piuttosto giovane nell’ordine dei frati minori, si reca per studiare teologia a Parigi dove segue i corsi tenuti da Giovanni Duns Scoto (1265/1266-1308). Nel giugno 1303 è però obbligato a lasciare la città per essersi rifiutato di aderire all’appello al Concilio lanciato, in funzione antipapale, dal re di Francia Filippo il Bello. Tornato in Italia, gli è confermata la laurea in teologia, cui segue, nel novembre dello stesso anno, la chiamata a Roma in qualità di lettore presso il Sacro palazzo lateranense. Il suo soggiorno romano sembra sia durato quattro anni, sebbene si ipotizzi che possa avere anche tenuto dei corsi a Bologna; dalla fine del 1307 è sicuramente di nuovo a Parigi per coprire la cattedra di teologia che spettava ai francescani, rimasta vacante dopo la morte di Scoto. Proprio recandosi in Francia deve aver sostato a Genova, dove prende corpo il suo Tractatus de usuris. La carriera accademica si interrompe però in modo definitivo l’anno seguente, quando è richiamato in Italia per ricoprire importanti cariche in seno all’ordine.
Le testimonianze in questo senso non sono chiarissime, ma è probabile che Alessandro di Alessandria sia dapprima nominato ministro della provincia francescana della Terra di Lavoro (Napoli e parte dell’Italia meridionale), per poi passare a quella di Genova. In questo periodo prende parte alle aspre discussioni sull’interpretazione del voto di povertà che contrapponevano la comunità agli spirituali, esprimendo un’opinione contraria a questi ultimi e contribuendo alla redazione del trattatello Religiosi viri a difesa della prima. Anche al Concilio di Vienne del 1311 è tra coloro i quali sono incaricati di confutare le tesi di Pietro di Giovanni Olivi (Pierre de Jean Olieu, 1248-1298), che, a oltre un decennio dalla sua morte, rimaneva il punto di riferimento ideologico della corrente spirituale. La posizione assunta da Bonini contribuisce in modo determinante alla sua elezione nell’aprile 1313 a ministro generale dell’ordine, sancita nel giugno dello stesso anno durante il capitolo di Barcellona.
Da questo momento però il suo atteggiamento inizia a cambiare, avvicinandosi sempre più alla politica di riconciliazione tra le due fazioni perseguita da papa Clemente V. La linea che segue non è tuttavia coerente, e così, pur tentando d’imporre il compromesso raggiunto a Vienne, egli assume delle decisioni che invece di placare le tensioni finiscono per alimentarle. Da un lato ha un ruolo attivo nella repressione del culto di Olivi, che ormai si era diffuso in area provenzale, dall’altro esonera tre conventi spirituali della Linguadoca dall’obbligo di adeguarsi alla versione ufficiale della regola francescana. Non sappiamo se queste scelte debbano essere inquadrate in un progetto di più ampio respiro, perché la morte lo coglie improvvisamente presso il convento dell’Ara Coeli di Roma, il 5 ottobre 1314 (Hamelin 1962, pp. 7-12; Manselli 1969).
Sulla riflessione economica di Alessandro di Alessandria sono stati dati in passato giudizi molto divergenti: per John Th. Noonan Jr essa manca di spessore teorico, per Marjorie Grice-Hutchinson è proprio la sua attenzione alla prassi a renderla degna di nota, per Raymond de Roover è profondamente innovativa (Langholm 1992, p. 446). Se tuttavia si vuole comprendere il senso dell’opera che conosciamo con il nome di Tractatus de usuris, l’unica in cui il pur prolifico teologo si accosta a temi di natura economica, è necessario contestualizzarne forma e contenuti. Con Alessandro Bonini si chiude infatti una pagina fondamentale della scolastica medioevale, ossia il tentativo dei teologi dell’Università di Parigi di operare una sintesi tra dottrina aristotelica e tradizione cristiana. Costoro ritenevano di aver trovato nella Politica e nell’Etica Nicomachea, tradotte in latino intorno alla metà del Duecento, un impianto concettuale di grande fascinazione, che avrebbe consentito di sviluppare su solide basi teoriche la proibizione dell’usura sancita dalla Bibbia e dal diritto canonico. Aristotele insegnava infatti che il denaro, in quanto semplice mezzo di scambio inventato per facilitare i commerci, era sterile.
Il Tractatus de usuris si viene così a trovare al termine di una lunga filiera di testi in cui i maestri parigini avevano costruito una serie di argomenti tesi a dimostrare su basi razionali che un mutuo non poteva essere in alcun modo retribuito. Questa pretesa si scontrava però con quanto elaborato dalla tradizione cristiana nei secoli precedenti, che identificava l’usura non con il credito remunerato, ma con un peccato che riassumeva in sé un ampio ventaglio di deviazioni economiche. Ne scaturisce una tensione che si manifesta dapprima con la necessità di spiegare le pratiche creditizie abitualmente ammesse dalla Chiesa alla luce dei concetti aristotelici, e poi con un disagio sempre maggiore, visibile soprattutto in ambito francescano, verso una condanna basata su principi razionali. La tensione attraversa anche la riflessione di Bonini che, come è stato giustamente osservato, discute gli argomenti fatti derivare da Aristotele «without much enthusiasm» (Langholm 1992, p. 443). Appartenendo a pieno titolo all’ambiente universitario parigino, il teologo non contesta l’autorevolezza di Aristotele in modo esplicito ma lo fa indirettamente, evitando con cura di porre al centro del proprio discorso i temi che tanto avevano appassionato i suoi predecessori. La modalità stessa che adotta per affrontare la questione è il sintomo di un distacco dai vecchi schemi; benché l’opera di Alessandro sia stata trasmessa in forma di trattato, è in realtà la trascrizione di un dibattito sostenuto pubblicamente a Genova che rivela la scelta di allontanarsi dalla teoria per calarsi nel concreto delle pratiche economiche cittadine.
È il peccato d’usura, e non la necessità di dare fondamento razionale al divieto di prestare a interesse, a costituire il nucleo della riflessione; lo dimostra il rilievo che è dato ai passaggi biblici, patristici e del diritto canonico che ne attestano la gravità (Tractatus de usuris, in Un traité de morale économique, 1962, pp. 127-31). Lo rivela soprattutto l’affermazione che, in assenza di tali proibizioni, la collettività potrebbe anche stabilire la piena legittimità dei profitti derivanti dall’attività feneratizia; in questo senso Alessandro anticipa la generazione di teologi francescani a lui immediatamente successiva, i quali sosterranno in modo esplicito che, se si escludono le condanne presenti nelle Sacre Scritture, non esiste alcun motivo razionale per proibire l’usura (Piron, in Ideologia del credito, 2001, p. 139; Langholm 1992, pp. 420-29, 510-35). Quest’ultima torna quindi a identificarsi con una deviazione economica che, prescindendo da una specifica fattispecie contrattuale, può manifestarsi in una miriade di obbligazioni, assumendo i connotati delle cosiddette frodi usurarie. Poste queste premesse, la necessità di chiarire in che modo tale infrazione si concretizzi nelle relazioni creditizie diviene lo scopo primario del teologo che a tale indagine dedica metà del trattato.
I fondamenti teorici alla base dell’analisi dei singoli contratti presi in considerazione riflettono però ancora la tensione irrisolta tra influssi aristotelici e tradizione cristiana. In linea con l’approccio parigino, si stabilisce che la deviazione usuraria si possa verificare solo nel mutuo, salvo poi ammettere che tale deviazione può riguardare anche altre obbligazioni le quali, proprio in ragione del peccato d’usura, mutano la loro fattispecie divenendo forme indirette di tale contratto (indirectuum mutuum). Contestualmente si ammette, però, l’esistenza di casi particolari di prestito retribuito i quali, in quanto tradizionalmente utilizzati dalla Chiesa, sono da considerarsi del tutto legittimi. Non siamo davanti a una novità particolare, dato che si tratta delle cosiddette eccezioni d’usura, cui il canonista Enrico da Susa aveva dato una prima sistematizzazione intorno alla metà del 13° sec.; nuovo è tuttavia l’approccio con cui il tema è affrontato, perché mentre la scolastica parigina si era sforzata di dare un’argomentazione razionale a tali anomalie, in Alessandro di Alessandria tale necessità non si coglie. Al teologo, che si attiene scrupolosamente alla scansione suggerita dai canonisti, la natura formalmente illecita di questi contratti sembra quasi irrilevante rispetto all’autorità di un diritto della Chiesa che è tale da rimuovere qualsiasi vizio d’usura da simili forme di profitto (Tractatus de usuris, cit., pp. 144-52).
Dietro alla difficoltà di conciliare i principi aristotelici con il concetto cristiano di usura, si cela in realtà il conflitto tra una visione di matrice francescana, che considerava il denaro in modo molto articolato, e quella di chi lo vedeva come mero oggetto inanimato. L’idea che la moneta fosse sterile era stata, infatti, tradotta da molti maestri parigini nell’affermazione che il suo utilizzo non potesse essere scisso dal suo possesso, un’affermazione alla lunga inconciliabile con quanto i frati minori andavano elaborando sul tema da quasi un secolo. Per ragioni tutte interne al loro ordine i francescani contemplavano invece questa possibilità che, nell’economia dei laici, si traduceva in una concezione multiforme del denaro capace di valutarne tutte le potenzialità produttive (Todeschini 2004, pp. 88-100).
Bonini si colloca a pieno titolo in questa linea di pensiero: aveva preso parte al dibattito sulla povertà che l’aveva innescata; era stato allievo di Duns Scoto, che era stato il primo ad applicarla in modo esplicito alla questione dell’usura; conosceva le tesi di Olivi che ne erano state la massima espressione. Tuttavia, con il modo di procedere che gli è proprio, non affronta la questione in modo diretto, avendo cura di riprendere pedissequamente Aristotele nella propria discussione sugli argomenti razionali contro l’usura (Tractatus de usuris, cit., p. 126; Langholm 1992, p. 438).
Il quadro però cambia in modo netto laddove questi argomenti devono essere applicati in concreto, facendo emergere una pluralità di modi di intendere il denaro di chiaro stampo francescano. Lo si può notare nell’ampia discussione sulla compravendita delle rendite, tema ormai ineludibile dopo il vivace dibattito che aveva suscitato negli ambienti accademici parigini a partire dagli anni Settanta del 13° secolo. I contratti di questo genere erano a tutti gli effetti delle forme di prestito a interesse: il proprietario di un bene immobile lo alienava, il più delle volte a un ente ecclesiastico, per poi riacquisirne l’uso in cambio di un pagamento periodico. Tale rendita era poi spesso rivenduta, cessando così di avere una relazione diretta con il bene cui originariamente era legata, rendendone così evidente la natura creditizia. Ben pochi avevano però equiparato queste obbligazioni a un mutuo remunerato condannandole in quanto usurarie, mentre la grandissima maggioranza dei maestri parigini le aveva assimilate alla compravendita del diritto di riscuotere una rendita in denaro. Tra coloro che si erano distinti nell’elaborazione di questa tesi, non casualmente troviamo alcuni teologi francescani come Matteo d’Aquasparta e Riccardo di Mediavilla. È proprio sulla scorta degli argomenti di quest’ultimo che Alessandro di Alessandria costruisce la sua trattazione, riprendendo la distinzione formale tra «denaro» e «diritto di percepire una rendita in denaro», che attesta quanto poco valessero in concreto i concetti aristotelici. Appena un decennio più tardi sarà Geraldo Odone a rendere esplicito il nesso esistente tra questa distinzione e le tesi francescane circa la separabilità tra uso e possesso del denaro (Ceccarelli 2006, pp. 499-504; Langholm 1992, p. 445).
Un altro ambito in cui si rivela la poliedrica natura della moneta è quello dell’attività cambiaria, una professione che Bonini descrive in termini altamente elogiativi, riprendendo temi che la tradizione francescana aveva messo a punto nelle trattazioni sul commercio e i mercanti. Anche in questo caso si ha l’accortezza di non contraddire Aristotele, i cui argomenti erano stati talvolta usati per equiparare i cambiavalute agli usurai, chiarendo che tale attività non va considerata né come compravendita di denaro, né come prestito remunerato, quanto piuttosto nei termini di un contratto di permuta. È in questo quadro che va inserito il riconoscimento del duplice valore della moneta, intrinseco e nominale, che si ricollega a quanto alcuni maestri parigini avevano sostenuto ragionando sulle politiche di svalutazione messe in atto dai sovrani francesi.
La discussione che si sviluppa nel Tractatus de usuris è però attraversata anche da un ulteriore valore che si può assegnare al denaro, il quale discende dall’utilizzo che ne viene fatto. Il cambiatore, dovendosi destreggiare nel gioco che si innesca tra titolo legale e contenuto metallico della moneta, diventa così un professionista capace di misurarne anche l’utilità soggettiva; è questo valore d’uso, di chiara matrice francescana, a essere contrattato quando si scambiano divise differenti, e dalla capacità di saperlo stimare deriva un guadagno del tutto legittimo. È un riconoscimento le cui implicazioni si dilatano anche all’ambito del credito che, come il teologo mostra di sapere perfettamente, nelle città medioevali si associava con frequenza all’attività cambiaria. In un contesto di continue fluttuazioni del valore nominale delle monete, un creditore può così pretendere che gli sia restituita una somma maggiore di quella originariamente prestata senza incorrere nel peccato d’usura. Tale pretesa si spiega, da un lato, come forma d’indennità contro possibili svilimenti del titolo legale della divisa in cui è stato concesso il prestito; dall’altro, però, si fonda sul diritto d’uso del denaro dato a credito il cui valore, in caso di svilimento monetario, emerge in modo evidente (Langholm 1992, pp. 436-38, 444; Todeschini 2004, p. 129).
La dimensione poliedrica del denaro (che la rilettura dell’economia concreta, attraverso il filtro interpretativo della tradizione francescana, suggerisce ad Alessandro di Alessandria) si scontra tuttavia con la difficoltà di procedere a una sua classificazione precisa. Laddove si tenta di farlo gli esiti sono incerti, mostrando tutti i limiti di un approccio teorico che, diversamente da altre sezioni del Tractatus de usuris, la scolastica successiva si guarderà bene dal riprendere. Tuttavia il senso profondo di un ragionamento che sfortunatamente ricorre a una terminologia ambigua, è piuttosto chiaro, e afferma l’esistenza di due tipi differenti di «capitale» (sors): uno è capace di accrescersi perché si collega a una logica d’investimento; l’altro è invece sterile perché rinvia a un modo di utilizzarlo che non coglie tale potenzialità, trasformando il denaro in un oggetto qualsiasi (Langholm 1992, pp. 439-40).
Un aspetto distintivo del Tractatus de usuris è l’attenzione che presta alle pratiche creditizie correnti nella Genova degli inizi del 14° sec., un’attenzione che fino a quel momento era stata abbastanza estranea alla riflessione scolastica. L’analisi dei contratti, pur prendendo spesso spunto da esempi di scuola, si dilata immediatamente all’economia urbana in un susseguirsi di casi che vanno dalla cessione a credito della gabella sul pane al prestito forzoso, dalla commenda alle pratiche bancarie, dalla vendita a credito di sale al comune di Genova al cambio tra sterline e lire tornesi (Tractatus de usuris, cit., pp. 168-86; Piron, in Ideologia del credito, 2001, pp. 139-40). Tale scelta è il sintomo di un atteggiamento che sta mutando, della necessità d’interagire con un sistema di relazioni creditizie che le autorità cittadine stavano progressivamente codificando. Non si tratta però di un arretramento della giurisdizione ecclesiastica di fronte a un’economia laica che si dota di regole autonome, quanto piuttosto di un riconoscimento reciproco che tiene ferme gerarchie e competenze. La domanda retorica con cui si apre il Tractatus de usuris è molto chiara in tal senso: è all’autorità pontificia che spetta l’ultima parola in materia di usura (Tractatus de usuris, cit., p. 122). Ciononostante Bonini anticipa una tendenza che nell’arco di qualche decennio diventerà evidente, quella di una scolastica che uscirà dalle aule universitarie per discutere pubblicamente i temi che emergevano dall’economia cittadina (Todeschini 2004, pp. 136-50).
Per spiegare il fenomeno, bisogna tenere conto del clima in cui il trattato si colloca; siamo infatti alla vigilia del Concilio di Vienne, momento conclusivo di un irrigidimento della condanna ecclesiastica dell’usura iniziata con il secondo Concilio di Lione del 1274. Dalle disposizioni pontificie, che confluiranno nelle raccolte normative del Liber Sextus (1298) e delle Clementinae (1317), traspare l’intento di coinvolgere l’intero corpo sociale della cristianità nella repressione di questo peccato economico, minacciando con la scomunica e l’interdetto le autorità laiche che mostrano di tollerarlo. Va però sottolineato che la legislazione papale non si preoccupa di definire in termini formali quali contratti siano proibiti, concentrandosi invece sulla condanna di una figura sociale ben precisa: l’usuraio manifesto. È contro chi presta pubblicamente a usura, soggetto estraneo alla comunità dei credenti che infrangendo l’autorità della Chiesa assume i tratti dell’eretico, che si scatena in concreto un’azione repressiva di natura inquisitoriale (cfr. M. Giansante, L’usuraio onorato. Credito e potere a Bologna nell’età comunale, 2008, pp. 9-15). Mentre la scolastica incontrava difficoltà sempre maggiori a definire le relazioni creditizie sulla base di criteri razionali e univoci, il diritto ecclesiastico suggerisce di spostare radicalmente i termini della questione, passando dal piano dei contratti a quello dei comportamenti.
Nel porre al centro del discorso l’usura in quanto peccato (e non in quanto forma contrattuale), come nel focalizzarsi sulle pratiche economiche correnti, Alessandro di Alessandria riflette appieno questo cambiamento di orizzonte. Lo slittamento è ancora più chiaro se si considera la sezione finale del trattato, quella in cui si affronta il problema della restituzione delle usure, alla cui discussione è significativamente concesso uno spazio molto ampio (Tractatus de usuris, cit., pp. 186-211). Qui gli aspetti teorico-formali perdono di rilevanza, per essere sostituiti da quelli di natura sociale, con una serrata indagine sui contraenti, le loro motivazioni interiori e la loro condotta esteriore, che pone l’accento non sull’usura ma sugli usurai di mestiere. Si scopre così che il valore d’uso del denaro può variare a seconda del soggetto che lo concede in prestito, seguendo una scansione che vede chi notoriamente presta a usura (usurarius notorious) agli antipodi rispetto ai mercanti, ai banchieri-cambiatori o agli appaltatori di gabelle comunali. Questi ultimi, utilizzati per esemplificare la casistica del credito legittimo anche se remunerato, sono emblematicamente assenti dalla discussione sulla restituzione. Chi è abituato a far fruttare la ricchezza, investendola nei commerci o dando il giusto prezzo alle monete scambiate, potrà talvolta incappare in un contratto che nasconde il peccato di usura; si tratterà tuttavia di un errore occasionale, non certo motivato da un’intenzione usuraria, e non avrà dunque effetto sulla potenzialità produttiva del denaro che, in ragione della professionalità (industria) di costoro, rimarrà intatta (Ceccarelli 2005; Todeschini 2004, pp. 124-25).
Il Tractatus de usuris deve aver goduto di una circolazione manoscritta relativamente modesta, ma il suo contenuto sarà ampiamente ripreso in uno dei più diffusi manuali per confessori del Medioevo, la Summa Astesana, garantendo così un’ampia diffusione delle tesi di Bonini (Ceccarelli, in Ideologia del credito, 2001). Il suo successo si spiega soprattutto per una casistica delle relazioni creditizie da cui emerge l’articolato spettro di valori che il denaro poteva incorporare e, implicitamente, rivela l’inadeguatezza degli assunti aristotelici.
Nonostante un’ampia produzione letteraria, Bonini discute di argomenti economici solo nel Tractatus de usuris. Il trattato è rimasto inedito fino all’edizione critica Un traité de morale économique au XIVe siècle. Le “Tractatus de usuris” de maître Alexandre d’Alexandrie, éd. A.-M. Hamelin, Louvain 1962, pp. 123-211, che tuttavia sconta grossi limiti e a un’attenta analisi si rivela imprecisa (si vedano le osservazioni espresse da Cesare Cenci nella rubrica Bibliographia dell’«Archivum franciscanum historicum», 1963, 1-2, pp. 191-97). In anni recenti è stato individuato un nuovo manoscritto del trattato, non incluso nell’edizione curata da Hamelin (cfr. La biblioteca manoscritta del convento di San Francesco Grande di Padova, a cura di M. Pantarotto, Padova 2003, p. 165).
La posizione tenuta da Bonini sulla questione del voto di povertà può essere desunta da un’opera collettiva che gli è stata a lungo erroneamente attribuita, il Tractatus de usu paupere, edito in A. Heysse, Ubertini de Casali opusculum “Super tribus sceleribus”, «Archivum franciscanum historicum», 1917, 1-2, pp. 116-22.
Un traité de morale économique au XIVe siècle. Le “Tractatus de usuris” de maître Alexandre d’Alexandrie, éd. A.-M. Hamelin, Louvain 1962, pp. 123-211.
R. Manselli, Bonino Alessandro (Alessandro d’Alessandria), in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 12° vol., Roma 1969, ad vocem.
O. Langholm, Economics in the medieval schools. Wealth, exchange, value, money and usury, according to the Paris theological tradition, 1200-1350, Leiden 1992, pp. 430-46.
R. Lambertini, La povertà pensata. Evoluzione storica dell’identità minoritica da Bonaventura ad Ockham, Modena 2000, pp. 227-48.
Ideologia del credito fra Tre e Quattrocento. Dall’Astesano ad Angelo da Chivasso, Atti del Convegno internazionale, Asti 2000, a cura di B. Molina, G. Scarcia, Asti 2001 (in partic. G. Ceccarelli, Usura e casistica creditizia nella “Summa Astesana”. Un esempio di sintesi delle concezioni etico-economiche francescane, pp. 15-58; S. Piron, Perfection évangélique et moralité civile. Pierre de Jean Olivi et l’éthique économique franciscaine, pp. 103-43).
G. Todeschini, I mercanti e il Tempio. La società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza fra Medioevo ed età moderna, Bologna 2002, passim.
G. Todeschini, Ricchezza francescana. Dalla povertà volontaria alla società di mercato, Bologna 2004, pp. 109-50.
G. Ceccarelli, L’usura nella trattatistica teologica sulle restituzioni dei male ablata (XIII-XIV secolo), in Credito e usura fra teologia, diritto e amministrazione. Linguaggi a confronto (sec. XII-XIV), Atti del Convegno internazionale, Trento 2001, a cura di D. Quaglioni, G. Todeschini, G.M. Varanini, Roma 2005, pp. 3-23.
G. Ceccarelli, “Whatever economics”. Economic thought in quodlibeta, in Theological quodlibeta in the Middle Ages: the thirteenth century, ed. Ch. Schabel, Leiden-Boston 2006, pp. 475-505.