FORTIS, Alessandro
Nacque a Forlì il 16 sett. 1841 da Carlo e da Francesca Ghinassi. Affidato dopo la morte del padre a uno zio di sentimenti ultraliberali, Gaetano Ghinassi, il F. visse un'adolescenza tranquilla fino al conformismo. Quando aveva quindici anni, infatti, la famiglia, di condizione molto agiata, lo collocò in un collegio tra i più tradizionali, il "Tolomei" di Siena, tenuto dagli scolopi, cui sarebbe seguita l'iscrizione all'"Apollinare" di Roma per gli studi superiori di filosofia. Nel 1859, d'improvviso il F. scoprì il patriottismo, s'indignò per la repressione papalina del moto di Perugia, patì un arresto e quindi il bando per aver preso parte a una manifestazione sediziosa, e finalmente, passato a Pisa per frequentare i corsi di giurisprudenza, trovò l'ambiente e i compagni giusti (tra gli altri S. Sonnino e il futuro deputato radicale C. Parenzo) per dare sfogo alla passione nazionale.
Cominciò allora la stagione dell'impegno attivo, prima nelle organizzazioni studentesche (il Circolo democratico fondato a Pisa col Parenzo nel 1862), poi nel volontariato militare che, avvicinato timidamente nel 1860 con una breve esperienza nel corpo dei Cacciatori delle Marche, uno dei tanti raccolti della Società nazionale, acquistava un carattere decisamente democratico nel passaggio alle formazioni garibaldine: arruolato nel 1° reggimento volontari e poi incorporato nel 3°, il 3 luglio 1866 il F. combatteva a Rocca d'Anfo agli ordini di G. Bruzzesi e l'anno dopo prendeva parte alla spedizione che si sarebbe conclusa alle porte di Roma. In entrambe le occasioni aveva avuto per compagno il cugino A. Cantoni, che, caduto a Mentana il 3 nov. 1867, sarebbe stato ricordato da G. Garibaldi nel romanzo Cantoni il volontario.
Questa morte tragica, mentre inaspriva l'animo del F. e lo sospingeva verso un risoluto anticlericalismo, predisponendolo a entrare nell'organizzazione che allora faceva maggiormente leva su tale sentimento, la massoneria, favoriva anche la radicalizzazione del suo orientamento politico, avvicinandolo al mazzinianesimo proprio quando questo ritrovava il repubblicanesimo delle origini e riscopriva la sua anima più eversiva.
Conseguita la laurea in legge nel 1864, frequentando come praticante lo studio bolognese di O. Regnoli, il F. si specializzava nei processi politici, entrava in contatto con le figure più in vista della democrazia emiliana e soprattutto si affermava a Forlì nella scia e sotto la protezione di A. Saffi come il più autorevole esponente di una lotta politica tutta votata all'opposizione.
Rifulgevano già allora quelle che un giorno sarebbero state le sue doti principali: l'intuito pronto, la parola calda e trascinante, una grande simpatia umana, una brillantezza d'analisi che, pur non poggiando su una solida cultura, centrava subito i problemi. Tutto ciò ne faceva la figura di maggiore spicco all'interno di quel ricchissimo tessuto di associazioni che fiorivano a Forlì e in provincia con una caratteristica di meno pronunciato settarismo rispetto ad altre città della regione. Socialmente la sua posizione era garantita da un patrimonio immobiliare che nel 1869 si faceva ascendere a 45.000 lire e da una professione nella quale non aveva tardato ad affermarsi; ideologicamente lo caratterizzava una duttilità che, se lo manteneva attento alla questione sociale, lo distanziava notevolmente dalla visione che del problema avevano forze emergenti come gli anarchici o i socialisti e gradualmente lo separava dall'intransigentismo dei repubblicani, avversi per principio a ogni ipotesi di conciliazione con la monarchia. Mentre le varie articolazioni della Sinistra estrema lottavano per l'affermazione della classe operaia o per il trionfo dell'ideale repubblicano, ciò che cominciava a stare a cuore al F. erano l'ampliamento degli spazi di libertà e il rafforzamento delle istituzioni.
Gli anni e gli eventi scandivano tale percorso con gradualità ma anche con la consapevolezza, chiara nel F. sin da quando nel 1874 era assessore comunale a Forlì, che ogni iniziativa politica dovesse mirare a smorzare le tensioni e a colmare la distanza tra istituzioni e popolo. Il fatto è che dopo il 1871, e cioè al suo ritorno dalla Francia dove nell'armata dei Vosgi si era conclusa la sua storia di garibaldino, il F. aveva preso a considerare risolta la questione nazionale ed era destinato perciò a mutare il ruolo avuto fino ad allora dalla Sinistra democratica. Il 2 ag. 1874 era presente, con gli altri mazziniani forlivesi A. Saffi e A. Fratti, a quel convegno di villa Ruffi in Romagna che, interrotto da un'irruzione della polizia, aveva secondo le autorità lo scopo di concertare una iniziativa rivoluzionaria di tutta l'Estrema: tutti i partecipanti furono arrestati per cospirazione e incarcerati nella rocca di Spoleto, ma li si dovette prosciogliere in istruttoria - il F. uscì a dicembre - perché in realtà la riunione era stata convocata, stando alla ricostruzione che ne avrebbe lasciato uno dei partecipanti, per decidere "della partecipazione o no dei repubblicani di Romagna - sino allora fedeli alla dottrina mazziniana - alla lotta legale intorno alle urne politiche" (Comandini, p. 576). Questa testimonianza è credibile perché in effetti quello del comportamento elettorale era il tema attorno al quale si arrovellavano allora il F. e il suo maestro Saffi, tanto da farne un momento discriminante nel congresso nazionale delle società operaie tenuto a Genova nel settembre 1876: prevalse allora la posizione del Fratti, favorevole all'astensionismo, ma il F. aveva ormai preso la sua strada, tanto più dopo che nell'avvento della Sinistra al potere aveva scorto quel ricambio del ceto di governo di cui il paese abbisognava per un serio programma di riforme.
Con tali idee il F., che non era mai stato un mazziniano autentico, si muoveva già in una prospettiva nazionale; il suo impegno nella vita pubblica forlivese e la disponibilità a collaborare con altre forze servivano a un'ambizione - costruirsi un forte elettorato - che lasciava perplessi i più accesi democratici di Forlì, che vedevano in tali aspirazioni una deviazione dal solco tracciato con la pregiudiziale antimonarchica. Il F., però, seppe compiere con tale gradualità la sua evoluzione, collocandola nel contesto di una sempre maggiore stanchezza della gente per una sterile opposizione di principio, che il consenso dei Forlivesi non gli venne mai meno.
Battuto da un moderato nelle politiche del 1876, in quelle del 1880 si prese la rivincita ed entrò in Parlamento, dove esordì il 31 maggio 1880 con un intervento a sostegno della mozione presentata da F. Cavallotti per una sollecita approvazione della riforma elettorale.
In seguito parlò molte altre volte, tenendosi su una linea che, risultando molto vicina a quella cavallottiana, lo etichettava come radicale-legalitario ma lo proiettava anche verso quella Sinistra costituzionale che, avversa ad A. Depretis, avrebbe trovato il suo capo carismatico in F. Crispi. Tra i repubblicani forlivesi una scelta così evoluzionistica suscitò scandalo. Così iniziò la sorda lotta contro di lui che, per primo, aveva osato venir meno agli obblighi della militanza repubblicana, e si avviò un meccanismo che spesso, non potendo poggiare su alcunché di concreto, si alimentava di calunnie e diffamazioni, prendendo a pretesto i rapporti d'affari che, anche per la sua professione, il F. aveva con l'imprenditoria forlivese, soprattutto con le banche. Dal crescendo di livori che lo investì a mano a mano che si avvicinava al potere, il F. si salvò grazie a un seguito elettorale sempre più forte.
Erano accadute intanto molte cose che avevano esasperato il clima di scontro: favorita dalla comune presenza nel Consiglio del Grande Oriente, si era compiuta la convergenza del F. sulle posizioni del Crispi, l'uomo che nel 1887 era giunto al potere con un programma di larghe riforme amministrative e legislative e con l'ambizione di portare l'Italia al rango di potenza. Della necessità di un rafforzamento dello Stato mediante un progressivo allargamento delle basi dell'esecutivo era persuaso da tempo anche il F. che, non a caso, da antitriplicista dichiarato nel 1883, dopo Dogali aveva illustrato alla Camera un ordine del giorno di critica al ministero Depretis ma anche a favore di una continuazione della politica coloniale nel Mar Rosso. Coerente fu, dunque, la sua decisione di votare il 12 maggio 1888 (quattro mesi dopo essersi astenuto su un voto di fiducia al governo Crispi) a favore della politica militare del nuovo presidente del Consiglio (11 maggio 1888). Radicali, repubblicani e socialisti parlarono allora di trasformismo del F., ma questi, imperturbabile, tirò dritto e nell'agosto-settembre dell'88 si diede da fare perché la visita del re in Romagna, pensata come un momento di pacificazione tra la dinastia e una regione dominata da passioni politiche furibonde, si svolgesse senza problemi di ordine pubblico, risultato che si poté ottenere anche concedendo la grazia all'anarchico A. Cipriani proprio per intercessione del Fortis. Il suo lealismo monarchico fu premiato il 2 dic. 1888 quando ricevette l'incarico dell'appena istituito sottosegretariato all'Interno.
Il F. si rivelò uno dei collaboratori più preziosi del Crispi e fu accortissimo nel tenere compatta la maggioranza intorno al programma di quel primo governo, che si trattasse della legge sull'emigrazione o della politica coloniale, della legge comunale e provinciale o di quella sul contenzioso amministrativo. Dello statista siciliano il F. pensava che fosse il solo capace di un progetto politico suscettibile di emarginare i gruppi eversivi e raccogliere popolo e borghesia intorno a un grande partito liberalcostituzionale. Ma, se sul piano personale nutriva un affetto sincero fino alla devozione per il leader, il F. politicamente sapeva guardare oltre ed essere uno dei pochi crispini a nutrire stima per l'emergente G. Giolitti, al quale si era accostato dopo che l'8 giugno 1890 si era dimesso dal suo incarico per le critiche ricevute in seguito a uno scontro tra polizia e braccianti avvenuto a Conselice due settimane prima. Localmente la sua posizione era ancora solida, tanto da consentirgli di imporsi con largo margine nelle politiche del novembre 1890; riflettendosi nella Sinistra costituzionale, tale forza ne faceva il capo naturale di una corrente il cui sostegno avrebbe fatto comodo al Giolitti. Si andava in questa direzione quando si verificò lo scandalo della Banca romana.
Benché si parlasse allora e in seguito di un suo coinvolgimento diretto nelle malversazioni, il F. ebbe come sola colpa quella di essere stato in passato il difensore di B. Tanlongo, governatore della Banca. Una macchia restava tuttavia sul F. anche dopo la decisione di non assumere la difesa del banchiere romano, e ciò non tanto per l'irrisoria somma di denaro che anche lui aveva ricevuto dalla Banca quanto per il consiglio di tacere a tutti i costi che aveva dato al Tanlongo subito dopo l'arresto; il risultato fu che, nel momento in cui (novembre 1893) per la successione a Giolitti si lavorò all'ipotesi di un governo Zanardelli - Fortis, questi si trovò la strada sbarrata da S. Sonnino e da quanti ritenevano gravissima l'eventualità che un incarico agli Interni lo mettesse in grado di esercitare un'indebita ingerenza nel sistema bancario. A colmare la misura giungeva, nel 1894, il fallimento della forlivese Banca popolare, un istituto che, nelle mani di due uomini di fiducia del F., aveva in passato finanziato le sue campagne elettorali e gli aveva procurato, favorendo il decollo dell'economia cittadina, l'appoggio di coloro che contavano. Anche in questa vicenda il F. "non aveva responsabilità dirette né obblighi cui non avesse fatto fede" (Lotti, I repubblicani…, p. 31), tuttavia ai suoi avversari non parve vero poterlo attaccare in un momento in cui era abbastanza scoperto: le volgarità si sprecarono, qualcuno si spinse sino a definirlo "l'ebreo 33 della Massoneria" (ibid.).
Il F. in definitiva reggeva ancora bene a Forlì quantunque il Cavallotti in persona nel 1895 si fosse scomodato per un comizio cittadino con la speranza e la presunzione di liquidarlo. Ma era a Roma che i problemi si addensavano, soprattutto dopo che era andata a vuoto l'idea assurda del F. di mediare tra Crispi e Giolitti: in realtà sperava di conseguire quanto meno un'attenuazione dell'opposizione liberale a Crispi, ma ciò dava anche la misura di come, nella sua fedeltà al primo ministro, egli non si fosse reso conto della piega sempre più autoritaria presa dalla politica dello statista siciliano. La crisi che accompagnò il disastro di Adua ebbe perciò nel F. una delle vittime designate e una delle più disorientate: nel 1894 tra l'altro, per sostenere la ricerca di un'intesa coi cattolici a fini di conservazione, non aveva esitato a porsi in urto con alcuni elementi della massoneria. Dopo Adua, nel dissolversi dei tradizionali punti di riferimento parlamentari, gli pareva che l'unica via per contrastare l'avvento di A. di Rudinì fosse quella di accordarsi col Sonnino, ipotesi destinata presto a cadere anche per il rifiuto preventivamente opposto dal F. all'eventualità di un'inchiesta del Parlamento sulla recente politica africana.
Intanto a Forlì andava finalmente in porto il ventennale impegno con cui repubblicani e socialisti avevano deciso di punire la sua apostasia, ma il calo di popolarità, che aveva avuto un preavviso nelle manifestazioni orchestrate sotto la sua abitazione forlivese (cui fu anche dato fuoco), non lo colse impreparato dal momento che si era già determinato a puntare su un collegio più sicuro, quello di Poggio Mirteto, che lo elesse nel 1897. In realtà a espellerlo dalla sua città non era stato l'elettorato ma le intimidazioni continue e la violenza che nel 1895 aveva colpito a morte un altro deputato "trasformista", L. Ferrari.
Pur senza Crispi il F. era tornato in orbita governativa. È vero che molti, anche tra gli amici, ormai criticavano i suoi eccessi di spregiudicatezza, ma il F. si giustificava anteponendo a tutto la difesa dello Stato dalle spinte eversive e considerandosi un tecnico più che un uomo di potere. Quando L. Pelloux gli offrì il ministero dell'Agricoltura nel suo primo governo (29 giugno 1898) il F. accettò, pensando di poter lavorare bene con un ministero che, godendo dell'appoggio esterno di Giolitti e di G. Zanardelli, puntava a restaurare l'ordine salvaguardando le libertà statutarie. In tal senso si può ritenere che l'esordio da ministro servisse più che altro al F. per gettare un ponte verso le posizioni giolittiane, tesi che sarebbe confermata dalle dimissioni da lui presentate il 14 maggio 1899, e cioè dopo che si era chiarita la natura reazionaria dell'esperimento Pelloux; senonché si sa con certezza che a preparare il testo delle leggi liberticide presentate alla Camera nel febbraio del 1899 era stato il guardasigilli C. Finocchiaro Aprile con il contributo del F., le cui dimissioni avrebbero dunque altre motivazioni. Probabilmente il F. si ritirava davanti al profilarsi di eccessi legislativi che gli parevano tradire lo spirito degli interventi da lui stesso auspicati.
La partecipazione al governo Pelloux aveva comunque chiarito al F. che il solo spazio rimastogli era quello che lo legava a Giolitti. Egli aveva d'altronde tutti i requisiti per piacere a questo: un passato di sinistra, una professione d'avvocato, un buon seguito tra i deputati della sua regione, nonché alcuni pregi caratteriali come l'intuito e la saldezza di nervi: il solo difetto attribuitogli da Giolitti nelle Memorie (I, p. 233), una certa pigra superficialità, non impedì a questo di pensare nel 1905 proprio a lui per uno di quei governi che gli storici avrebbero definito d'intermezzo.
Ora, è indubitabile che la soluzione Fortis fosse del tutto provvisoria, ma non per ciò egli si comportò come una controfigura passiva di Giolitti. Intanto va detto che, ricevuto l'incarico il 12 marzo 1905, rinunziava quattro giorni dopo per non essersi voluto limitare, secondo l'indicazione di Giolitti, a prendere su di sé presidenza e Interni, lasciando tutti gli altri ministri al loro posto. Non si trattava di un'impuntatura: quando, dopo un interim di T. Tittoni, il 28 marzo 1905 il F. formò il suo primo governo, assegnò i due posti chiave del Tesoro e del Lavori pubblici, prima ricoperti da L. Luzzatti e da F. Tedesco, a P. Carcano e a C. Ferraris, noto quest'ultimo perché, come docente di economia politica, aveva teorizzato il socialismo della cattedra.
Tali scelte erano funzionali al primo dei due punti qualificanti del programma del F., la nazionalizzazione delle ferrovie (l'altro era l'aumento delle spese per la Marina), e, ricollegandosi idealmente alla strenua lotta da lui ingaggiata vent'anni prima contro le convenzioni ferroviarie di Depretis, toglieva ogni credibilità alla tesi, subito affacciata dai socialisti, di un F. che rilanciava la linea privatistica mentre fingeva di battersi per l'esercizio statale. Lasciata sul tappeto da Giolitti, la questione era scottante perché toccava anche l'assetto del personale: con una determinazione di cui pochi lo avrebbero creduto capace il F., messe da parte le cautele giolittiane, presentò il 7 aprile un progetto di legge per il riscatto delle reti Adriatica, Sicula e Mediterranea, ottenendo in due settimane l'approvazione di Camera e Senato; subito dopo, con l'istituzione della direzione generale delle Ferrovie dello Stato, creò una struttura verticistica, i cui dipendenti, assimilati ai pubblici ufficiali, vedevano fortemente limitato il diritto di sciopero. Mentre falliva una protesta sindacale, si profilava - ed era più arduo - lo scoglio delle liquidazioni da pagare alle società cessionarie e del riscatto delle Meridionali, sulla cui opportunità il governo era diviso e il F. incerto. Il progetto di legge per le liquidazioni fu preparato il 15 giugno ma, sottoposto all'approvazione della Camera a fine luglio, suscitò un tale fuoco di sbarramento da parte della Sinistra e di esponenti della stessa maggioranza giolittiana che se ne dovette rinviare la discussione a novembre in base a un ordine del giorno che, se confermava la fiducia al governo, lo invitava a riflettere sull'onere finanziario che gli accordi conclusi per le liquidazioni avrebbero comportato per le finanze statali.
Nel suo posto dietro le quinte Giolitti lavorò molto a ricucire una maggioranza in disfacimento. Il F. dal canto suo, accantonata la questione ferroviaria, recuperò una certa popolarità col viaggio riparatore compiuto in Sicilia, dove a Grammichele il 18 agosto quattordici braccianti erano rimasti uccisi in uno scontro con la forza pubblica, e con la legge speciale per la Calabria appena colpita dal terremoto dell'8 settembre; ma già nuove e più ampie contestazioni gli si erano sollevate contro per la conclusione (8 nov. 19o5) dell'accordo commerciale con la Spagna, il cosiddetto modus vivendi che, riducendo i dazi sui vini spagnoli, colpiva i viticultori del Piemonte e delle Puglie.
Su di esso si sgretolò la composita maggioranza che, con frange di radicali e cattolici (le trattative con questi ultimi erano costate al F. una nota ufficiale di biasimo dei vertici massonici), aveva sostenuto il governo: nel voto di un ordine del giorno diviso in due parti il modus vivendi fu bocciato alla Camera (17 dicembre) e la fiducia confermata. Per questo motivo il re non ritenne di dover accettare le dimissioni presentategli dal F. il 18 dicembre e gli conferì un nuovo incarico. Nasceva così il 26 dicembre un secondo ministero Fortis, appendice inutile quanto improduttiva del primo che nemmeno l'immissione di forze fresche come A. di San Giuliano agli Esteri, l'ex socialista E. De Marinis all'Istruzione, il cattolico N. Malvezzi all'Agricoltura e il recente oppositore F. Tedesco ai Lavori pubblici riuscì a rianimare. Presentato in Parlamento il 30 genn. 1906 dopo la pausa natalizia, il governo crollava subito, il 2 febbraio, sotto le bordate del Sonnino che, rilanciando la polemica avviata qualche mese prima sul Giornale d'Italia, criticava i ritardi nelle trattative per le liquidazioni ferroviarie e sottolineava l'inefficienza del nuovo ministero. Il F. in effetti sentiva di avere esaurito la propria funzione. Giolitti da parte sua premiò i risultati raggiunti dal F. difendendolo fino all'ultimo e votandogli a favore nel momento in cui 288 voti contrari ne decretavano la caduta.
Negli anni che seguirono il F. si mantenne fedele alla politica giolittiana, lavorando attivamente nella commissione incaricata di esaminare il progetto per la conversione della rendita. La sua disciplina di partito parve subire una sola eccezione con l'intervento nel dibattito sulla politica estera del Tittoni in relazione all'annessione all'Austria della Bosnia Erzegovina: il 3 dic. 1908 il F. prendeva la parola per proclamare, con toni da antico garibaldino e da ex crispino, la necessità per l'Italia di restare nella Triplice ma anche l'impossibilità di tollerare i continui riarmi degli Imperi centrali. Il primo a congratularsi con lui fu Giolitti, ma anche se l'intervento del F. era potuto sembrare ad alcuni un siluro contro il suo governo la cosa non ebbe seguito e il 4 dic. 1908 il F. votò con i 297 deputati che approvarono la politica estera del ministero.
All'inizio dell'estate del 1909 il F. fu colpito da setticemia uricemica; dopo lunghi mesi di sofferenze si spense a Roma, assistito dall'unica figlia Maria (che aveva sposato un figlio del Saffi), il 4 dic. 1909.
Fonti e Bibl.: Il Fondo Fortis presso l'Archivio di Stato di Forlì, inaccessibile agli studiosi per molti anni, è stato recentemente utilizzato da R. Balzani, A. Saffi e la crisi della Sinistra romantica (1882-1887), Roma 1988, ad Indicem; tra le altre fonti, risultando irreperibili le lettere catalogate negli inventari della corrispondenza segreta 1887-1889 del Fondo Crispi, Gabinetto dell'Archivio centrale dello Stato, è da segnalare il materiale conservato nella Bibl. comunale di Forlì, comprendente un'ottantina di lettere del F., molte altre a lui dirette, appunti per discorsi, manifesti, articoli di giornale e caricature a lui relativi (cfr. Inventari dei manoscritti delle Bibl. d'Italia, XCIV, Forlì. Bibl. comunale A. Saffi, Firenze 1979, ad nomen); la presenza di sedici lettere del F. al Cavallotti per gli anni 1880-1890 si ricava dall'elenco in appendice a L'Italia radicale. Carteggi di F. Cavallotti 1867-1898, a cura di L. Dalle Nogare - S. Merli, Milano 1959, mentre di altre sette lettere si ha notizia dall'inventario delle Carte di A. Bertani, Milano 1962, ad Indicem; una corrispondenza giovanile del F. con la famiglia è stata pubblicata da A. Sacco, La campagna garibaldina del 1866 attraverso autografi ined. di A. F., Forlì 1967. Molti riferimenti all'azione del F. nelle raccolte di fonti dei maggiori personaggi del suo tempo: tra le principali G. Giolitti, Memorie della mia vita, Milano 1922, I, pp. 145, 229-233; G. Finali, Memorie, a cura di G. Maioli, Faenza 1955, ad Indicem; L'Italia radicale. Carteggi di F. Cavallotti, cit., ad Indicem; D. Farini, Diario di fine secolo, a cura di E. Morelli, Roma 1962, ad Indicem; Quarant'anni di politica italiana.Dalle carte di G. Giolitti, I-II, a cura di P. D'Angiolini - G. Carocci, Milano 1962, ad Indices; L. Pelloux, Quelques souvenirs de ma vie, a cura di G. Manacorda, Roma 1967, ad Indicem; S. Sonnino, Diario 1866-1912, a cura di B.F. Brown, I, Bari 1972, ad Indicem; F. Turati - A. Kuliscioff, Carteggio, I-II, Torino 1977, ad Indices; S. Sonnino, Carteggio 1891-1913, a cura di B.F. Brown - P. Pastorelli, Bari 1981, ad Indicem. Fondamentali gli Atti parlam., Camera, Discussioni per le legislature (dalla XIV alla XXIII) in cui il F. sedette in Parlamento.
Poche e tutte in forma di brevi profili le biografie del F.: a parte quella molto sarcastica con cui un repubblicano intransigente lo salutò presidente del Consiglio (Sereno [F. Albani], A. F. Dalla giovinezza a Villa Ruffi, e da Villa Ruffi al Quirinale, Firenze 1905), sono utili i due necrologi apparsi su Il Corriere della sera del 4 dic. 1909 e su Il Resto del carlino del giorno dopo, e quello di A. Comandini, A. F., in L'Illustraz. ital., 12 dic. 1909; approfondimenti successivi in G. Maraldi, A. F. e i suoi tempi, in La Pié, XXIX (1960), pp. 27-30, 86-90; U. Guglielmotti, I presidenti del Consiglio dei ministri dall'Unità a oggi, Roma 1966, pp. 359-365; L. Lotti, Protagonisti della lotta politica a Forlì: A. F. e G. Gaudenzi, in Studi romagnoli, XXIII (1972), pp. 205-220; A.A. Mola, A. F., in Il Parlam. ital. 1861-1988, VII, 1902-1908, Milano 1990, pp. 319-336. Per le cariche pubbliche ricoperte dal F. cfr. M. Missori, Governi, alte cariche dello Stato, alti magistrati e prefetti del Regno d'Italia, Roma 1989, ad Indicem. Sul primo F., dalla giovinezza al 1888, un buon lavoro è quello di M. Zunino, Il radicalismo di A. F. negli anni dell'opposizione, tesi di laurea, Università degli studi di Roma "La Sapienza", facoltà di lettere, a.a. 1976-1977 (rel. A. Garosci). Lo stesso periodo con particolare attenzione all'evoluzione dal repubblicanesimo al crispismo sullo sfondo della Romagna è messo a fuoco in lavori a carattere più generale: per gli anni precedenti il 1876 cfr. G. Castellini, Eroi garibaldini, Milano 1931, ad Indicem; L. Faenza, La retata. Tra repubblica e anarchia…, Rimini 1974, ad Indicem; per il periodo radicale e il travaglio che allontana il F. dall'opposizione: G. Carocci, A. Depretis e la politica interna ital., Torino 1956, ad Indicem; L. Lotti, I repubblicani in Romagna dal 1894 al 1915, Faenza 1957, ad Indicem; A. Spallicci, A. Fratti, Milano 1965, ad Indicem; A. Galante Garrone, I radicali in Italia, Milano 1973, ad Indicem; U. Levra, Il colpo di Stato della borghesia…, Milano 1975, ad Indicem; M. Gavelli, La rivolta all'ombra delle istituzioni. Egemonia repubbl. e partiti a Forlì, in All'origine della "forma partito" contemporanea. Emilia Romagna 1876-1892 un caso di studio, a cura di P. Pombeni, Bologna 1984, pp. 262 s., 274, 283 ss., 291 s.; R. Balzani, Politica e gioco d'azzardo: circoli privati forlivesi del secondo Ottocento, in Boll. del Museo del Risorgimento, XXXII-XXXIII (1987-88), pp. 59, 67 ss.; Id., A. Saffi…, cit., ad Indicem; M. Ridolfi, Il partito della repubblica. I repubbl. in Romagna e le origini del PRI nell'Italia liberale (1872-1895), Milano 1990, ad Indicem. Sul F. massone: F. Cordova, Massoneria e politica in Italia 1892-1908, Bari 1985, ad Indicem. Sui due governi Fortis non esiste un lavoro specifico, ma l'argomento è trattato in modo più o meno rapido nelle principali storie dell'Italia giolittiana: tra quelle consultate si ricordano: G. Natale, Giolitti e gli Italiani, Milano 1949, pp. 628, 656 s., 659-662; G. Volpe, Italia moderna, II, 1898-1910, Firenze 1949, pp. 420-424, 429, 432, 436, 446, 448; G. Carocci, Giolitti e l'età giolittiana, Torino 1961, ad Indicem; B. Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Bari 1962, pp. 195 s., 235; Ch. Seton Watson, Storia d'Italia dal 1870 al 1925, Bari 1972, ad Indicem; A. Labriola, Storia di dieci anni 1899-1909, Milano 1975, pp. 158-163; G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, VII, La crisi di fine secolo e l'età giolittiana, Milano 1976, pp. 207-211; C. Ghisalberti, Storia costituz. d'Italia 1848-1948, Bari 1976, ad Indicem; H. Ullrich, La classe politica nella crisi di partecipazione dell'Italia giolittiana, 1909-1913, Roma 1979, ad Indicem; F. Gaeta, La crisi di fine secolo e l'età giolittiana, Torino 1982, ad Indicem; A. Aquarone, L'Italia giolittiana, Bologna 1988, pp. 245 ss.; E. Gentile, L'Italia giolittiana, Bologna 1990, ad Indicem. Fondamentale per il problema ferroviario A. Papa, Classe polit. e intervento pubblico nell'età giolittiana. La nazionalizzazione delle ferrovie, Napoli 1973, ad Indicem.