GALANTE GARRONE, Alessandro
Nacque a Vercelli il 1° ottobre 1909, secondogenito di Luigi Galante e di Margherita Garrone.
Insieme ai fratelli Virginia (nata il 20 gennaio 1906) e Carlo (nato il 2 dicembre 1910), crebbe nel clima culturale dell’interventismo democratico che aveva spinto gli zii materni, Giuseppe ed Eugenio Garrone, a partire volontari per la prima guerra mondiale, dove erano morti nella battaglia del monte Grappa, nel dicembre del 1917. Il cognome Galante Garrone porta la memoria di quella duplice tragedia: un regio decreto degli anni Venti previde che, per non disperdere il nome di famiglia di due eroi della Grande Guerra, i figli di Margherita Garrone e i loro discendenti potessero aggiungere al cognome del padre quello della madre.
Con la morte prematura (gennaio 1926) del padre, preside del liceo di Vercelli, divenne ancora più intensa, nell’educazione del giovane Galante Garrone, l’austera figura della nonna materna, Maria, che instillò nei nipoti una dedizione intima alla Patria e un senso del dovere, spinto fino al sacrificio, che contrassegnò, come una severa religione civile, l’intera vita di Galante Garrone, costituendone l’impronta culturale più riconoscibile. La frattura – dapprima culturale e poi sempre più netta sul piano politico – fra interventismo democratico e nazionalismo sarà per tutta la vita uno dei temi di più profonda meditazione da parte di Galante Garrone. Non a caso erano stati interventisti democratici o comunque volontari nella Grande Guerra quasi tutti coloro che, mezzo secolo più tardi, Galante Garrone avrebbe indicato come i suoi 'maggiori': Ferruccio Parri, Piero Calamandrei, Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Emilio Lussu, Adolfo Omodeo. Gli interventisti democratici – osservò nell’introduzione alla riedizione (del 1974) degli epistolari di guerra degli zii Garrone – erano andati in guerra non solo per completare, con la conquista di Trieste e Trento, il Risorgimento ma anche per assecondare l’emancipazione di altri popoli, pensando a un'Italia libera nazione in mezzo alle altre.
Il nazionalismo aveva invece ribaltato questo ideale di solidarietà, erigendo l’immagine di una nazione che rivendica la propria diversità per proclamare la sua superiorità e la volontà di potenza. Partendo dalla riflessione su questo trapasso degenerativo, maturò, sul finire degli anni Venti, la scelta antifascista di Galante Garrone: un antifascismo 'di stile', prima ancora che politico, che affondava le radici nell’insofferenza, del suo ambiente familiare, verso la retorica violenta e le volgarità del regime fascista.
Terminati gli studi liceali a Vercelli, Galante Garrone si trasferì, con la famiglia, a Torino, dove frequentò la facoltà di giurisprudenza ed ebbe come maestri Luigi Einaudi e Francesco Ruffini. Negli stessi anni, a seguito della prima pubblicazione delle lettere dal fronte degli zii, Galante Garrone intraprese un’importante corrispondenza epistolare con il filosofo Benedetto Croce e lo storico napoletano Adolfo Omodeo, che paternamente ne seguirono la formazione, consigliando al giovane Alessandro letture, studi e (nel caso di Omodeo) scelte di vita.
L’insegnamento di questi maestri liberali si coniugò con gli ideali della nonna Maria, donna di profonda fede religiosa, ma convinta della necessità di una rigorosa separazione tra Stato e Chiesa e immediatamente critica verso il Concordato del 1929. Si radicò così in quegli anni la visione profondamente laica di Galante Garrone, che egli volle ribadire in uno dei suoi ultimi scritti (Un affare di coscienza, 1995). Una visione in cui lo Stato sia «al di fuori di tutte le fedi» e si adoperi «per assicurarne la libera e pacifica convivenza entro di sé». Dunque, uno Stato immaginato come un recinto che non sia chiusura, ma si ponga come «uno spazio imparziale e neutro», delimitato non da un filo spinato ma da porte capaci di accogliere e proteggere «su un piede di eguaglianza, il libero estrinsecarsi di qualsiasi professione di fede, sia in senso positivo sia […] in senso negativo» (pp. 31 s.).
Galante Garrone si laureò in legge nel luglio 1931, con una tesi di carattere storico. In quei mesi infittì la frequentazione con Aldo Garosci (cugino dell’amico e compagno di studi Giorgio Agosti e tra i fondatori di Giustizia e Libertà) e, dopo l’espatrio di Garosci in Francia (1932), con Vittorio Foa, che fu in seguito arrestato nella 'seconda retata' contro Giustizia e Libertà torinese (1935). L’influenza di Garosci e di Foa fu decisiva nel dare all’antifascismo culturale di Galante Garrone una connotazione più consapevolmente politica.
La sua passione per la storia e, in particolare, per il Settecento e l'Ottocento europei lo avrebbe naturalmente condotto a coltivare gli studi su questi temi e a intraprendere la carriera universitaria, ma l’obbligo di giuramento a formare cittadini «devoti […] al regime fascista», imposto ai professori con il decreto legge del 28 agosto 1931, indusse Galante Garrone ad abbandonare la prospettiva accademica e ad affrontare il concorso in magistratura, che superò nella primavera del 1933, dopo aver svolto il servizio militare. Fu dunque, dal 1934 al 1935, pretore a Mondovì, in seguito giudice al Tribunale di Cuneo e, dal febbraio 1937, giudice a Torino, dove svolse varie funzioni giudiziarie sino al 1963.
Suoi maestri, nella professione di giudice, furono Alessio Alvazzi Delfrate e Domenico Riccardo Peretti Griva: uomini che appartenevano alla solida tradizione dei magistrati liberali piemontesi, entrati nell’ordine giudiziario nell’epoca giolittiana e che avevano resistito alle invadenze del regime mussoliniano, ancorandosi al principio di stretta legalità e alle tradizioni della civiltà italiana.
C’era, alla base di questa concezione fatta propria da Galante Garrone, il convincimento che il quadro legislativo italiano fosse rimasto in larga parte coerente con l’impronta liberale che lo aveva caratterizzato prima del Ventennio e che il fascismo soltanto in parte aveva intaccato. E dunque, la rigorosa difesa della funzione interpretativa della norma affidata ai giudici, come momento meramente applicativo e non di creazione, fu vista come la migliore difesa contro la dittatura; il baluardo con cui si poté impedire l’ingresso nel sistema di meccanismi capaci di consegnare alla sfera della politica l’amministrazione della giustizia.
Nell’alveo di questa tradizione, Galante Garrone cercò, con tenacia, di limitare al massimo gli effetti nefasti delle leggi razziali del novembre 1938, in particolare contestando l’applicabilità della norma che affidava a una circolare ministeriale, anziché ai giudici, lo stabilire se una persona fosse soggetta o meno alle misure antisemite. Rivendicando tale decisione al giudice – e sostenendo che non fosse «esempio da imitare» il «sistema nazionalsocialista tedesco», che privilegiava la volontà politica rispetto alla lettera della legge, richiamando invece la dottrina di vecchi studiosi del diritto canonico – Galante Garrone, redigendo alcuni memoriali e una nota a sentenza (pubblicata con il titolo Conflitti di competenza in tema di 'razza' sull'autorevole Rivista del diritto matrimoniale italiano e dei rapporti di famiglia, 1939, n. 10) riuscì a creare una giurisprudenza che escludeva dalle leggi razziali i nati da matrimoni misti e i catecumeni (ovvero coloro che alla data del 1° ottobre 1938, fissata dalla legge, non erano ancora battezzati ma avevano chiesto l’ammissione al sacramento del Battesimo).
Nel settembre 1941 Galante Garrone sposò Maria Teresa Peretti Griva (1916-2011), figlia di Domenico Riccardo. Dal matrimonio nacque, nel 1946, la figlia Giovanna. Nei primi anni Quaranta, Galante Garrone riprese ad approfondire i suoi studi storici, incoraggiato da Omodeo, per cui tradusse i diari di Joseph Alexander von Hubner, ambasciatore austriaco a Parigi durante il Secondo impero.
Dopo l’8 settembre 1943, Galante Garrone ebbe un ruolo immediatamente operativo nella Resistenza all’occupazione nazifascista. Pur continuando a svolgere il suo lavoro di giudice fino al marzo 1945 (quando dovette abbandonare il Palazzo di giustizia sfuggendo miracolosamente alla cattura della polizia fascista), tenne vivo un costante collegamento tra Torino e le valli del Cuneese, dove operava militarmente l’amico avvocato Dante Livio Bianco. Il ruolo di Galante Garrone nella Resistenza fu però essenzialmente politico, rappresentando il Partito d’azione nel Comitato di liberazione nazionale del Piemonte. In tale veste, partecipò a una fondamentale funzione di direzione politica nell’organizzazione dell’insurrezione finale e nella liberazione di Torino e quindi nel governo della città e nel ripristino della convivenza civile, totalmente ristabilita prima ancora dell’arrivo delle truppe alleate (2 maggio 1945).
Terminata la guerra, Galante Garrone tornò immediatamente al suo lavoro di magistrato. Al contempo, riprese gli studi storici, sempre più indirizzati verso i rivoluzionari francesi perseguitati dalla reazione termidoriana. Partecipò inoltre attivamente al dibattito culturale di Torino e nel Paese, con un rapporto privilegiato con il mondo fiorentino di Piero Calamandrei (alla cui rivista, Il Ponte, collaborò assiduamente). Nel 1947 il suo intervento presso Franco Antonicelli, che aveva fondato la piccola casa editrice De Silva, fu decisivo per la prima pubblicazione di Se questo è un uomo, che l’amico Primo Levi gli aveva fatto leggere, dopo che l’opera era stata rifiutata da Einaudi.
Sempre nel 1947, a Parigi, conobbe e frequentò gli storici francesi della rivoluzione Albert Soboul e Georges Lefebvre (di cui due anni dopo curò la traduzione e l’introduzione di L’Ottantonove) e lo storico inglese Richard Cobb. Nello stesso periodo si dedicò allo storico e politico dell’Ottocento Edgar Quinet, di cui nel 1951 curò l’edizione italiana de La revolution, che Quinet aveva scritto nel 1865.
Il metodo storiografico di Galante Garrone è quello della petite histoire, da lui stesso illustrato nella sua introduzione (del 1978) alla raccolta postuma, Scritti vari, di Gaetano Salvemini: ricostruire i grandi eventi della storia parlando degli uomini e donne che l’hanno vissuta, raccontando la loro formazione ed evoluzione culturale, i motivi per cui si fecero coinvolgere. Facendo propria la lezione dello storico messinese, considerato come uno dei suoi 'maggiori', in un paragrafo intitolato Metodologia e moralità dello storico, Galante Garrone ricorda quelli che, secondo Salvemini, erano «i ferri del mestiere dello storico»: il disprezzo per la semplice e arida erudizione; lo «scrupolo della ricostruzione precisa dei fatti, ai quali [devono] essere commisurate le idee dello storico onesto, pronto sempre a considerarle come ipotesi provvisorie»; la necessità di coniugare costantemente «storia sociale» e «storia degli individui», perché dietro le «parole generali, come rivoluzione, classe, Riforma, Risorgimento», vi sono sempre, e vanno studiati, «gli uomini vivi e concreti». La 'simpatia morale' che lo studioso deve nutrire per il tema prescelto, si compendia nella massima salveminiana «non si può comprendere senza amare». Se nutrito di questo amore verso le persone, lo studio della storia appare come il principale «mezzo per conoscere noi stessi, per renderci conto della nostra genesi intellettuale e morale» e per comprendere quale efficacia i movimenti delle idee abbiano avuto e continuino ad avere sul presente. Perseguendo questo intento di raccontare la storia di un uomo fra gli altri uomini, Galante Garrone si impose, a partire dagli anni Cinquanta, come uno dei più autorevoli storici dei settori radicali e democratici del pensiero politico del Settecento e Ottocento.
Filippo Buonarrotti e Francois Babeuf e la loro fallita 'congiura degli uguali' del 1796 contro il Direttorio furono il tema del primo libro di Galante Garrone, Buonarroti e Babeuf, del 1948. Seguì, nel 1951, Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento, che riprendeva un primo studio inedito sul rivoluzionario pisano (Gli ultimi anni di Filippo Buonarroti) con cui, nel 1949, Galante Garrone aveva vinto il premio Gramsci. Del 1959 è la biografia di un altro 'rivoluzionario minore', Gilbert Romme. Storia di un rivoluzionario, il matematico e pedagogo, in Russia alla corte di Caterina II, che nel 1789, tornato a Parigi, si gettò nel vortice della Rivoluzione, votò la condanna a morte del re, inventò il calendario repubblicano, si oppose alla reazione del Termidoro, fu condannato a morte e, il 29 pratile 1795, si suicidò mentre veniva portato al patibolo, insieme agli altri cinque suoi compagni, passandosi l’un l’altro il coltello che affondarono nei propri corpi (furono chiamati 'i martiri di pratile', rappresentanti simbolici di una generazione che dette l’assalto all’ancien regime e finì per divorare se stessa).
Ricorre, in questi libri, un costante amore per il mondo dei vinti, sconfitti dal loro tempo: guardati però non con l’animo nostalgico di chi piange su un passato che poteva essere diverso, ma, al contrario, descritti come precursori, che hanno gettato semi da cui sarebbero nati frutti che altre generazioni avrebbero colto.
Con lo stesso animo, studiando l’Ottocento, Galante Garrone, negli anni Settanta e Ottanta, dedicò la sua attenzione a quel pensiero democratico e federalista che sul momento fu sconfitto, ma animò poi le correnti democratiche del Novecento: Mazzini, Felice Cavallotti e i radicali, Cattaneo e, a cavallo con il secolo nuovo, Salvemini e Umberto Zanotti Bianco.
C’è, sullo sfondo di queste opere, una precisa visione politica: la libertà della tradizione del Risorgimento può essere ricercata e attuata, nella concreta vicenda storica del Novecento, soltanto se la si intende non più solo con i criteri del tradizionale liberalismo politico, ma come libertà generatrice di giustizia. È la 'libertà liberatrice', preconizzata dal maestro Omodeo, cui sempre Galante Garrone si richiamava. Ritorna dunque, nella sua ricerca storica, il binomio che sta alla base del liberalsocialismo: giustizia e libertà. Si può dunque dire che l’avventura politica del Partito d’azione, interrotta nel 1946, prosegua, nella sua opera di storico, come ricerca culturale, riflessione sul passato che si proietta sui problemi del presente e su un’idea di futuro migliore. La medesima ispirazione orientò la lunga collaborazione di Galante Garrone a La Stampa. Sul quotidiano torinese, di cui fu editorialista dal 1955 sino al 2000, egli ingaggiò e vinse importanti battaglie per l’espansione e l’inveramento dei diritti affermati in Costituzione ma ancora negati dalla legislazione italiana: per l’emancipazione delle donne e in particolare per il loro ingresso in magistratura; contro le norme arcaiche ancora contenute nei codici (dal reato di adulterio, previsto solo per la donna, all’omicidio per causa d’onore; dal matrimonio 'riparatore' come causa estintiva del 'ratto a fine di matrimonio' alle assurde regole allora vigenti in tema di riconoscimento della paternità naturale); per un nuovo diritto di famiglia, fondato sulla parità dei coniugi; per l’introduzione del divorzio nel nostro ordinamento.
Negli stessi anni Galante Garrone fu, insieme ai suoi vecchi compagni azionisti, protagonista di numerose iniziative culturali che portarono alla fondazione di importanti istituzioni quali l’Unione culturale, l’Istituto storico della Resistenza, il Centro Gobetti e della rivista G.L. Resistenza. Anche attraverso queste istituzioni e la comunità di amici che le sostenevano, Galante Garrone fu il testimone di una cultura laica, di sinistra non comunista che, sia pure con l’angustia dello spazio culturale che tali iniziative riuscivano ad avere, cercò di mantenere in vita l’idea di una sinistra liberalsocialista, antistaliniana e saldamente radicata ai valori dell’Occidente.
Dopo aver difeso disciplinarmente Dante Troisi dalle accuse ricevute per aver scritto il libro Diario di un giudice (1955), Galante Garrone maturò la propria lontananza da una magistratura che, ai suoi occhi, appariva sempre più ancorata «ad angusti concetti di decoro, di professionalità, di mentalità arretrata» (Il mite giacobino, 1994, p. 41); una corporazione estranea, culturalmente, ai fermenti che iniziavano a farsi sentire in tutta la società e che andava interpretando la propria indipendenza come pretesa di separatezza. In tal modo maturò, in Galante Garrone, l’idea, realizzata nel 1963, di lasciare la magistratura, per dedicarsi all’insegnamento universitario. Nel 1965 vinse il concorso a cattedra per storia del Risorgimento e fu chiamato all’Università di Cagliari, dove rimase sino al 1969, quando tornò a Torino per insegnare storia del Risorgimento nella facoltà di lettere e filosofia.
Negli ultimi anni di vita Galante Garrone dedicò la sua riflessione alla memoria dei propri maestri e alle battaglie civili per la laicità dello Stato, contro l’antisemitismo e la corruzione.
Morì a Torino il 30 ottobre 2003.
Opere principali. Buonarroti e Babeuf, Torino 1948; Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento, Torino 1951 (Paris 1975); Gilbert Romme. Storia di un rivoluzionario, Torino 1959, Milano 1998; I diritti degli Italiani, Napoli 1968; I radicali in Italia, 1849-1925, Milano 1973; G. Garrone - E. Garrone, Lettere e diari di guerra, con introduzione di A. Galante Garrone, Milano 1974; Felice Cavallotti, Torino 1976; G. Salvemini, Scritti vari. 1900-1957, a cura di G. Agosti - A. Galante Garrone, Milano 1978; Salvemini e Mazzini, Messina 1981; I miei maggiori, Milano 1984; Zanotti Bianco e Salvemini, Napoli 1984; Padri e figli, Torino 1986; Calamandrei, Milano 1987; Amalek, il dovere della memoria, Milano 1989; Libertà liberatrice, Torino 1992; Il mite giacobino, conversazione su libertà e democrazia raccolta da Paolo Borgna, Roma 1994; Un affare di coscienza. Per una libertà religiosa in Italia, Milano 1995; L’Italia corrotta (1895-1996), Roma 1996 (riedito come L’Italia corrotta (1895-1996). Cento anni di malcostume politico, Torino 2009). Traduzioni: J.A. von Hubner, Nove anni di ricordi di un ambasciatore austriaco a Parigi sotto il secondo impero: 1851-1859, traduzione e introduzione di A. Galante Garrone, Milano 1944; G. Lefebvre, L’Ottantanove, a cura di A. Galante Garrone, con saggio introduttivo di A. Soboul, Torino 1949 (1975); E. Quinet, La rivoluzione, a cura di A. Galante Garrone, Torino 1951 (1974).
A. Gobetti Marchesini Prospero, Diario partigiano, Torino 1956; D.R. Peretti Griva, Esperienze di un magistrato, Torino 1956; G. Agosti - D.L. Bianco, Un’amicizia partigiana. Lettere 1943-1945, Torino 1990, 20072; V. Foa, Il cavallo e la torre, Torino 1991; Id., Questo Novecento, Torino 1996; W. Jervis - L. Jervis Rochat - G. Agosti, Un filo tenace. Lettere e memorie, 1944-1969, a cura di L. Boccalatte, Firenze 1998, Torino 20082; Le interdizioni del duce. Le leggi razziali in Italia, a cura di A. Cavaglion - G.P. Romagnani, Torino 2002; G. Agosti, Dopo il tempo del furore. Diario 1946-1988, Torino 2005; P. Borgna, Un Paese migliore. Vita di A. G. G., Roma-Bari 2006; P. Calamandrei, Fede nel diritto (conferenza del gennaio 1940), Roma-Bari 2008; A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, Bologna 2013; P. Borgna, Il coraggio dei giorni grigi. Vita di Giorgio Agosti, Roma-Bari 2015.