GHERARDINI, Alessandro
Nacque a Firenze il 16 nov. 1655 da Domenico, stipettaio, e da Lisabetta Socci. Il mestiere lo apprese in giovane età da Alessandro Rosi, un tardo epigono della maniera di Pietro Berrettini da Cortona, già allievo di Cesare Dandini e dal 1677 pittore dell'arazzeria medicea.
Personaggio estroso e ribelle, a lungo giudicato artista eclettico e diseguale sebbene superiore nel "genio pittoresco" al rivale Domenico Gabbiani (Lanzi, p. 235), il G. è ormai unanimemente considerato "l'ultimo importante pittore fiorentino puro" (Ewald, 1963, p. 122), che anticipando le nuove correnti della pittura decorativa del Settecento si rivela come "il vero erede di Luca Giordano a Firenze" (Gregori, 1989, p. 324). Principale fonte per la ricostruzione dell'attività dell'artista è la biografia aggiunta da Francesco Saverio Baldinucci a quelle dedicate ai pittori fiorentini dal più celebre padre Filippo, sebbene la sequenza cronologica degli eventi risulti spesso imprecisa e le opere citate in gran parte perdute. Tuttavia, il carattere di quest'uomo iracondo ma di intelletto "acutissimo" e poco disposto a venali mercanteggi riguardo alla sua arte, emerge proprio dalle pagine di Baldinucci, che conobbe personalmente l'artista.
Uscito sui vent'anni dalla bottega del Rosi, il G. si iscrisse all'Accademia del disegno: il 29 ag. 1676 risulta infatti tra i novizi accademici che dovevano pagare la matricola, tassa versata dall'artista anche il 2 febbraio dell'anno seguente (Meloni Trkulja, 1975, n. 20 pp. 25 s.). Poi, venuto a sapere che il padre - un ubriacone attaccabrighe che morirà pazzo nella fortezza di San Miniato - aveva abbandonato il lavoro per vivere alle spalle del figlio, il G. si trasferì ai confini della Toscana, a Pontremoli, importante snodo commerciale verso la pianura padana, dove rimase per circa quattro anni tornandovi in seguito più volte.
Durante questo primo soggiorno, oltre al perduto affresco con il Martirio di s. Sebastiano e alla Trasfigurazione nella chiesa di S. Cristina, il G. realizzò un ciclo biblico nel salone di palazzo Negri, oggi Ceppellini, che consisteva in quattro tele da parete con le Storie di Sansone, da tempo scomparse, e un affresco sul soffitto con Sansone che demolisce il tempio, opera più originale e disinvolta, distrutta in un terremoto alla fine del secolo scorso ma documentata da una foto (Ewald, 1963, p. 102).
Intorno al 1682 il G. lasciò Pontremoli e intraprese un viaggio di studio attraverso la Lombardia che lo condusse probabilmente fino a Venezia, come dimostrano le opere successive fortemente influenzate dai maestri veneti. Durato circa cinque anni, il vagabondaggio si concluse a Parma, patria del Correggio e per questo tappa obbligata nella formazione di ogni artista barocco. Qui, in cambio di vitto, alloggio e 2 doppie al mese, il priore della certosa gli commissionò diverse opere, oggi perdute; ma i rapporti tra i due si guastarono presto e le controversie culminarono in violento litigio. Venuto quindi a sapere della morte del padre, verso il 1687 il G. tornò a Firenze e di lì andò a Pontremoli, dove sposò Francesca Calzolari. Poco dopo abbandonò la moglie, lasciandola senza mezzi, e si trasferì a Livorno dove sembra abbia dipinto non meglio noti quadri a olio per committenti locali e inglesi (Baldinucci, c. 178rv).
Probabilmente attratto dal fervore di iniziative che animò Firenze nell'imminenza delle nozze del gran principe Ferdinando de' Medici con Violante di Baviera, nel 1688 fece ritorno in patria, ottenendo dal gran principe l'incarico di decorare con le Storie della Vergine una cappella attigua alla "sala di Bona" in palazzo Pitti. Ma, stando a Baldinucci, il pittore terminò in ritardo e così di malavoglia la cappella da irritare profondamente Ferdinando, che non volle più servirsi di lui. Rimasto senza lavoro, il G. si unì ad Antonio Giusti, cui erano state commissionate altre decorazioni a tempera in occasione delle nozze principesche, ma poi ruppe il sodalizio e nella chiesa di S. Iacopo tra i Fossi realizzò la sua prima importante opera in luogo aperto al pubblico: la grande tela ottagona, databile agli inizi del 1689, posta al centro del soffitto della navata centrale che, con forti scorci prospettici e con modi concitati ispirati alla pittura di Luca Giordano, raffigura S. Agostino e il trionfo della Fede sull'Eresia.
Ridotta ormai in povertà, la Calzolari aveva nel frattempo fatto ricorso al governo; e il G. fu costretto da Cosimo III a recarsi nuovamente a Pontremoli per riprendere con sé la moglie. L'artista approfittò forse del viaggio per portare a termine alcune commissioni: il 1° ott. 1689 preannunciò infatti con una lettera il suo arrivo a Carlo Dosi, dicendosi ansioso di realizzare nel più breve tempo possibile la grande tela che illustra un Miracolo di s. Niccolò, tuttora conservata nel palazzo Dosi-Magnavacca (Ewald, 1963). Tornato a Firenze, il G. aprì una sua bottega in via de' Bardi e nel 1691 circa venne accolto tra i professori dell'Accademia fiorentina, in una seduta in cui vennero eletti anche il suo quadraturista di fiducia, Rinaldo Botti, e lo stesso Francesco Saverio Baldinucci (Meloni Trkulja, 1975, pp. 25 s.). Il marchese Filippo Corsini, influente consigliere del principe Ferdinando, lo chiamò quindi a decorare alcune stanze al piano nobile dell'imponente palazzo di famiglia sul lungarno in Parione.
All'impresa, capolavoro del tardo barocco fiorentino, parteciparono i più quotati artisti del tempo, tra cui il pittore favorito di Ferdinando, A.D. Gabbiani, che ebbe l'incarico di affrescare i due ambienti principali: il salone con la Glorificazione della famiglia Corsini e la galleria. Coadiuvato dal fido Botti, a partire dal 1692 e fino al 1697 il G. illustrò sui soffitti di un'alcova e di quattro ambienti contigui al salone scene allegoriche raffiguranti rispettivamente: La Notte, Le Arti liberali piangono sulle loro opere distrutte, Cerere e Pan, La Gioventù e l'Ozio, e infine l'Aurora. Quest'ultima è unanimemente considerata uno dei suoi capolavori, nonché vertice qualitativo della decorazione dell'intero palazzo. Le numerose ricevute di pagamento rilasciate al pittore tra il 26 nov. 1695 e l'11 ott. 1696, testimoniano il tempo e la cura dedicata all'esecuzione del vasto affresco con il Regno di Flora e il Trionfo di Galatea che anticipa con ineguagliabile leggiadria e divertimento la grande stagione del rococò settecentesco (Guicciardini Corsi Salviati).
Il G. venne in seguito impiegato anche nella decorazione di altri ambienti dello stesso palazzo, tra cui la celebre "grotta" (1697) incrostata di ciottoli, conchiglie e spugne, concepita dai Corsini come luogo di refrigerio e di svago durante i calori estivi. Qui il G. incontrò per la prima volta Carlo Marcellini, scultore e architetto bizzarro quanto lui, col quale collaborò altre volte. Il G. affrescò sulla volta dell'ambiente centrale il Trionfo di Giunone; le nereidi e il volo di putti sulla parete dell'edicola della fontana, su cui si staglia l'intervento plastico di Marcellini, Galatea col suo corteo marino (Visonà).
Ebbe così inizio il periodo di maggiore attività del G., chiamato a eseguire opere in diverse chiese e palazzi nobiliari di Firenze: nel 1692 affrescò la cupola e la volta della navata, distrutta, di S. Giovannino dei Cavalieri, l'anno seguente dipinse un tondo nella S. Annunziata, quindi eseguì un'Incoronazione della Vergine con i ss. Monica e Agostino (1694 circa) per la chiesa di S. Spirito e, contemporaneamente, affrescò I quattro elementi sul soffitto di una sala al piano nobile di palazzo Orlandini.
Gli Orlandini possedevano, ed esposero al pubblico nel 1729, in occasione della festa di s. Luca, anche due tele del G. entrambe di ubicazione ignota: un S. Girolamo e una Confidenza di Alessandro. Quest'ultima composizione, il cui pacato classicismo risalta anche nell'incisione di Carlo Lasinio pubblicata nel 1795 da Marco Lastri nell'Etruria pittrice (II, tav. CXVI), è chiaramente ispirata alla Morte di Germanico di N. Poussin, capolavoro a quei tempi posseduto dai Corsini.
Nel 1697 dipinse l'Assunzione della Vergine per il coro di S. Nicolò a Prato e tra il 1697 e il 1700 lavorò per lo spedale della stessa città, in occasione della costruzione del grandioso altare barocco nell'infermeria degli uomini: dipinse la vasta tela posta al centro dell'altare, una Probatica piscina affollata di figure e ravvivata da sciabolate di luce neogiordanesche, e raffigurò la Carità e la Misericordia nei medaglioni laterali.
Probabilmente agli inizi del 1698 l'artista si recò nuovamente a Pontremoli, chiamato dai Dosi ad affrescare quattro riquadri nel salone della loro villa fuori città, ai Chiosi, di cui oggi rimane quasi soltanto il notevole gruppo delle Tre Parche.
Mentre era impegnato nella villa gli giunse la notizia delle gravi condizioni in cui versava la moglie, che morì poco tempo dopo il suo ritorno a Firenze, il 6 apr. 1698. La reazione del G. al triste evento - scese a cantare in strada allegramente accompagnandosi con la chitarra - sembra abbia suscitato scandalo e riprovazione nel vicinato. Ma tant'è: nemmeno alla seconda moglie furono riservate maggiori attenzioni. Sposata di lì a poco Maria Erber, l'artista rimase a Firenze giusto il tempo per decorare con Scene mitologiche i soffitti di un'alcova e di altre due sale del palazzo Ginori, quindi tornò a Pontremoli. Qui portò a termine le diverse opere iniziate per i Dosi, tra cui una bella tela con le Virtù teologali, e seguì poi la nobile famiglia a Piacenza "per suo divertimento" (Baldinucci, c. 179r).
Nel 1700 il G. venne chiamato a Firenze dai domenicani di S. Marco e subentrò al settantatreenne C. Ulivelli nella decorazione del secondo chiostro del convento. Il contrasto con l'anziano maestro, pedissequo continuatore dello stile di B. Franceschini, detto il Volterrano, fu violento e immediato: il 27 marzo Ulivelli inoltrò all'Accademia del disegno una protesta scritta, in cui chiedeva venisse interdetto al collega l'accesso al chiostro fintantoché non avesse terminato il suo lavoro. Purtroppo solo una delle nove lunette, realizzate dal G. in gran parte a olio su muro, e una decina dei sedici peducci sono ancora pienamente leggibili; ma basta la scena in cui S. Domenico risuscita Napoleone Orsini, siglata e datata 1700, a testimoniare l'inventiva, il gusto cromatico e la sicurezza nell'esecuzione raggiunti ormai dal Gherardini. Il pittore lasciò a Sebastiano Gabbianelli e ad altri allievi il compito di terminare il lato sud del chiostro, dedicandosi ad altre opere commissionategli dai domenicani: il S. Pietro martire per la spezieria del convento, la S. Caterina da Siena portata dagli angeli in cielo, affresco staccato e conservato oggi nel Museo di S. Marco, oltre ad altri lavori in parte perduti.
Sempre nel 1700 - ma la data di incerta lettura posta sull'affresco potrebbe per alcuni essere il 1709 (Meloni Trkulja, 1989) - il G. realizzò il suo capolavoro: la Visione di s. Romualdo sulla volta della chiesa camaldolese di S. Maria degli Angioli a Firenze (oggi sconsacrata) e i due riquadri sulle pareti laterali, raffiguranti La Carità e La Fede con la Speranza.
Considerata "la decorazione sacra forse più elegante del Settecento fiorentino" (Ewald, 1963, p. 116), la luminosa e vasta composizione illustra sulla volta l'apparizione in sogno a s. Romualdo della lunga scala su cui salivano al cielo un drappello di religiosi del suo ordine vestiti di bianco, evento che spinse il santo a mutare la tonaca nera dei benedettini in quella immacolata dei monaci di Camaldoli. Popolata di angeli e putti che assistono alla scena da soffici nuvole, giocano con rosari o sono intenti a far musica, la Visione anticipa lo stile pittorico agile e brillante che contraddistinguerà la fine del secolo, e sarà attentamente meditata anche da S. Ricci durante il suo soggiorno a Firenze.
Nell'estate del 1701 il G. fu chiamato a decorare la cappella di S. Giovanni Gualberto nell'abbazia di Vallombrosa: mentre Marcellini si dedicava alle decorazioni in stucco, il pittore affrescò sulla volta la Gloria del santo e illustrò la Strage di s. Salvi nella pala dell'altare di destra (Visonà, pp. 94-98). La collaborazione tra i due amici continuò nel novembre dello stesso anno quando iniziarono i lavori di ristrutturazione della chiesa di S. Maria dell'Umiltà, attigua all'ospedale di S. Giovanni di Dio, affidati dalla confraternita fiorentina a Marcellini. Nella piccola chiesa il G. affrescò la cupola, completamente rifatta alla fine del Settecento, e dipinse la pala d'altare raffigurante la Madonna con il Bambino e s. Anna.
Negli anni seguenti l'artista continuò a lavorare per le più importanti famiglie fiorentine: per i Corsini nella villa di Castello, per i Giugni nella galleria del palazzo di città e per il cardinale Francesco Maria de' Medici, che nell'estate del 1703 gli commissionò la decorazione dell'alcova nella sua villa di Lappeggi. In diciassette giorni, coadiuvato dal fido Botti cui si devono le quadrature architettoniche, il G. eseguì l'Annunciazione che funge da testiera dell'alcova, le allegorie del Tempo e della Fama sulle altre pareti, e le sottostanti figure allegoriche a monocromo, alternate a putti e vasi. Ma l'attività dell'artista andava progressivamente estendendosi da Firenze a tutta la Toscana occidentale, come testimoniano la splendida e appassionata Crocifissione del 1704 già in S. Maria di Candeli (S. Maria Assunta a Bagni di Romagna), la Deposizione e l'affresco con S. Giorgio in gloria del 1705, eseguiti per la chiesa di S. Giorgio sulla Costa, o la contemporanea cappella di S. Ranieri in S. Giulia a Livorno, la cui decorazione è stata molto reintegrata dopo i danni subiti durante la seconda guerra mondiale, e gli affreschi nei palazzi Curini e Ceuli a Pisa.
Nel 1706 il G. si recò in pellegrinaggio a Loreto poiché la Compagnia della Natività gli aveva commissionato lo stendardo processionale con S. Francesco che riceve le stimmate, su di un lato, e, sull'altro lato, la Natività di Cristo (Baldinucci, c. 180r) che l'artista accettò di dipingere in cambio delle sole spese del viaggio. Nel marzo del 1708 venne quindi chiamato a ridipingere parte della pala eseguita nel 1600 da Iacopo Da Empoli per la chiesa di S. Verdiana a Castelfiorentino, ingrandita e riquadrata per adattarla a un nuovo altare, e ad affrescare in un grande "sfondo" sulla volta della navata centrale della stessa chiesa, in cui raffigurò la Gloriadi s. Verdiana, accolta dalla Ss. Trinità in un cielo affollato di angeli, vescovi, eremiti, martiri e predicatori.
Il carattere insofferente e la delusione nel non vedere riconosciuto appieno il suo talento in patria, spinse il G. a dichiarare di volersi trasferire in Inghilterra, e forse vi andò davvero a prestar fede a una annotazione nei registri delle tasse che gli artisti pagavano all'Accademia (Meloni Trkulja, 1985, p. 79 n. 3). In seguito, trascorse a Livorno gran parte degli ultimi anni, in attesa di essere chiamato alla corte di Danimarca dal re Federico IV.
Il monarca danese potrebbe aver effettivamente espresso qualche lusinghiero apprezzamento sui lavori eseguiti del G. nei palazzi di Firenze, Pisa e Livorno, che ebbe modo di visitare durante il suo soggiorno in Toscana nel 1709 (Id., 1995). Baldinucci afferma che l'artista tentò di entrare in contatto col monarca danese offrendogli dapprima in vendita un quadro del pittore genovese G.B. Langetti, aggiungendo che dell'ambizione del G. ne approfittarono alcuni falsi amici, i quali "si dilettarono molto a minchionarlo" facendogli credere di essere stato ufficialmente invitato a Copenaghen (c. 180rv). Impacchettati quadri, disegni e arnesi da lavoro, l'artista si trasferì quindi a Livorno in attesa di imbarcarsi; attesa che forse, contrariamente a quanto narrato da Baldinucci, non deve essere stata vana. Il soggiorno danese è infatti esplicitamente menzionato in una scritta (seppure non autografa) posta sul retro di una tela raffigurante un'Annunciazione rinvenuta recentemente in Francia (Meloni Trkulja, 1995, p. 72). Il pittore partì per Copenaghen, forse aggregandosi a un mercante che aveva una base in quella città e che lo tenne poi tra il suo personale. Potrebbe trattarsi del ricco banchiere tedesco-olandese Giovanni Antonio Huygens, con palazzo in via Borra a Livorno (dove alcune fonti dicono avesse ospitato il re) e per la cui cappella nella villa di Valle Benedetta il G. dipinse nel 1714 L'Immacolata Concezione coi ss. Giovanni Battista e Lucia (Firenze, Uffizi) e un altro quadro.
Il soggiorno danese deve comunque essere stato breve e di poca soddisfazione. Tornato in patria, il G. si ridusse in miseria sperperando tutto il suo denaro nella trasformazione della casa di Firenze in una stalla destinata ad accogliere i dodici cavalli e la splendida carrozza che era convinto di ricevere in dono dal re di Danimarca, e negli anni successivi non trovò di meglio che commissioni fuori città. Nel 1711 dipinse per Benedetto Mochi il S. Francesco di Paola che attraversa sul suo mantello lo stretto di Messina, composizione ariosa e disinvolta destinata alla chiesa di S. Filippo a Volterra e poi trasferita in duomo. L'anno seguente affrescò a Pistoia la piccola chiesa benedettina di S. Maria degli Angeli e nel 1713 tentò senza successo di farsi assegnare l'importante commissione di una cupola per i filippini di Genova, lasciando tuttavia in città lo splendido e vibrante gonfalone per la canonizzazione di s. Pio V, poi adattato a pala d'altare e collocato in S. Maria di Castello. A Firenze le ultime opere realizzate dal G. non furono tutte bene accolte. Non piacque la Madonna dei sette dolori commissionata dai filippini per la chiesa di S. Firenze (1715) e assai disprezzata fu la Gloria della Maddalena affrescata sulla cupola di S. Marco, mentre riscossero ampie lodi gli Evangelisti dipinti sui sottostanti peducci (1717) e i lavori eseguiti in palazzo Gerini.
Nel 1720, a conclusione di un processo durato due anni, il G. fu condannato a restituire agli eredi i quaranta quadri ricevuti in pegno nel 1697 dal pittore Vincenzo Gori o a risarcirne il valore, notizia d'archivio che conferma i traffici da piccolo mercante d'arte cui accenna spesso Baldinucci (Meloni Trkulja, 1985, p. 81 n. 17). Tuttavia, la situazione economica dovette tornare ad essere più solida. Con i soldi guadagnati con le ultime commissioni, narra infatti Baldinucci (c. 182v), il G. pensò di non aver più bisogno di lavorare e dissipò quindi tutti i suoi averi nel tentativo di terminare la stalla, in speculazioni sbagliate e in bagordi all'osteria con gli amici. Ridotto nuovamente in miseria, chiese 200 scudi in prestito lasciandone solo 25 alla moglie e al figlio, poi partì per Livorno. Probabilmente si fermò prima a Seravezza, dove il restauro di un quadro del duomo ha rivelato un'opera sconosciuta alle fonti firmata e datata 1722: una sorta di Sacra conversazione barocca di struggente bellezza, in origine collocata nell'oratorio di S. Antonio in Torcicoda. A Livorno dipinse un caravaggesco Amorino dormiente e due tele per la chiesa di S. Iacopo d'Acquaviva, tra cui la commovente e dolorosa Pietà.
Divenuto "quasi stolido, e inabile a tutto, e affatto infermo", entrò in ospedale e nel giro di sei mesi morì, a Livorno, "l'anno 1726 nel mese di Marzo giorno della Domenica delle Palme" (ibid., c. 182v).
L'Autoritratto degli Uffizi, dipinto dal G. nel 1707 all'età di cinquantadue anni, ci restituisce l'immagine ufficiale che questo artista intendeva consegnare ai posteri; tuttavia, il volto nobilmente atteggiato sotto la parrucca bianca non corrisponde al ritratto delineato da Baldinucci, che lo descrive "molto complesso rosso di faccia anzi brutta, che bella, con occhi gonfi, e grandi molto, e bocca sdrucita" (c. 183r). Eppure quest'uomo collerico, incostante e privo di modestia suonava il violoncello, aveva un'intelligenza pronta, era "spiritosissimo" e dimostrava, a volte, un animo gentile. In pittura il suo maggior merito fu di intuire prima e meglio di ogni altro la portata rivoluzionaria delle opere eseguite da L. Giordano a Firenze tra il 1680 e il 1685, che ispirarono la rinascita nel Granducato della grande decorazione religiosa e profana. Tuttavia, dopo l'iniziale, pesante influenza giordanesca, il G. seppe trovare una sua personale cifra stilistica, luminosa e sbrigliata, che esercitò una profonda influenza sulle nuove generazioni di artisti: da S. Galeotti, suo allievo, a G.D. Ferretti, a G.C. Sagrestani. Ma è la svolta corrusca e disperata che le vicende personali impressero alla sua arte nell'ultimo decennio ad affascinare lo spettatore moderno: quei "frutti tardivi e nascosti", come la Pietà di S. Iacopo d'Acquaviva, dove l'ansia tutta fiorentina per il disegno lascia il posto a una pittura corposa e impastata di luce; tali lavori se fossero stati visti in patria gli avrebbero forse valso una considerazione maggiore di quella che pure gli venne tributata (Meloni Trkulja, 1985, p. 76).
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