Alessandro II
Secondo il più attendibile catalogo dei pontefici di questo periodo, Anselmo, futuro A., era figlio di un Arderico.
La sua famiglia, di Baggio, aveva il capitanato della pieve di Cesano ed era strettamente legata alla corte imperiale. Adalardo del fu Arderico da Baggio, parente del nostro Anselmo, era "missus" del re Enrico IV in Milano nel 1064. Anselmo, verso il 1045, fu a studiare al monastero di Le Bec presso la scuola aperta da Lanfranco di Pavia. Quindi, non ancora sacerdote, egli fu presso la corte di Enrico III "tamquam domesticus et familiaris", forse contemporaneamente ad Anselmo il Peripatetico, la cui presenza a corte è attestata per gli anni 1048-1050, o subito dopo. Anselmo da Baggio si era quindi formato in ambienti nei quali erano vive le esigenze di riforma della Chiesa, ma, nello stesso tempo, si affermava l'importanza della funzione dei signori laici nella realizzazione di un programma di rinnovamento religioso.
È probabile che Anselmo rientrasse in Milano fra il 1053 e il 1055, in occasione del riavvicinamento della nobiltà milanese all'imperatore, quando la città divenne uno dei capisaldi della politica italiana di Enrico III. In Milano Anselmo fu ordinato sacerdote dall'arcivescovo Guido da Velate verso il 1055-1056. Verso la metà di settembre del 1056 Anselmo e l'arcivescovo Guido si trovano alla presenza dell'imperatore, forse a Goslar, in occasione del solenne ricevimento tributato a papa Vittore II. Non sembra, però, che fosse sorto un contrasto fra Guido e Anselmo per aver questi assunto già atteggiamenti di opposizione di tipo patarinico, e non è credibile che Enrico III nominasse vescovo di Lucca l'irrequieto sacerdote per accontentare l'arcivescovo milanese allontanando un fastidioso predicatore di riforma. Alla corte di Enrico III, in quella circostanza, si risolse probabilmente, invece, la controversia giuridica fra la nobile famiglia da Baggio e il monastero di S. Vittore; e pertanto la nomina di Anselmo a Lucca fu piuttosto un atto di fiducia da parte di un sovrano che intendeva ricoprire con una persona fidata e di sicuri intenti riformatori la più importante diocesi del Marchesato di Toscana, dominato dal troppo potente duca Goffredo di Lorena.
Non regge a un serio esame critico il romanzesco racconto del cronista antipatarino Landolfo Seniore, secondo il quale, nel Natale 1056, Anselmo sarebbe tornato dalla sua sede episcopale di Lucca a Milano per organizzarvi segretamente con Arialdo e con Landolfo Cotta il movimento patarinico. È molto probabile, invece, che Anselmo rimanesse ancora in Germania dopo la morte dell'imperatore e prestasse con gli altri signori laici ed ecclesiastici il giuramento di fedeltà in Aquisgrana in novembre o in Colonia il 5-6 dicembre. Si può credere infine che Anselmo rientrasse in Italia insieme con il papa all'inizio della Quaresima dell'anno seguente, verso il 12 febbraio: la prima menzione del nuovo vescovo in Lucca è del 24 marzo 1057.
A Milano Anselmo tornò due volte, come legato pontificio, per incoraggiare il movimento patarinico e correggerne gli eccessi e gli abusi, e per porre riparo alla situazione gravissima del clero milanese, in gran parte simoniaco e concubinario: la prima volta, alla fine del 1057, con il diacono Ildebrando; la seconda, nell'inverno 1060-1061, con il cardinale vescovo d'Ostia, Pier Damiani.
Anselmo aveva trovato la sua diocesi lucchese in condizioni pietose sia dal punto di vista morale e religioso sia da quello economico. Fra i suoi primi atti, egli diede in pegno due vigneti dell'episcopato per un prestito di 2 libbre d'argento. Con tenacia, il nuovo vescovo riuscì a ricostruire il patrimonio della Chiesa lucchese, recuperando beni alienati, ottenendo con il suo prestigio numerose donazioni, bonificando in Vallebuia vaste zone di terreno, poi gradualmente quotizzate e allivellate, proibendo severamente la concessione livellaria o beneficiale di terre ecclesiastiche a chi non fosse diretto coltivatore. Anselmo, anche dopo la sua elevazione a pontefice, conservò la cattedra episcopale e risiedé anzi spesso a Lucca, visitò le pievi, favorì l'istituzione di canoniche, sorvegliò e incoraggiò la vita monastica, si preoccupò molto del Capitolo della cattedrale, combatté la simonia, riunì nelle mani del vescovo tutte le iniziative di riforma, avviando una sistematica opera di accentramento.
Morto Niccolò II il 27 luglio 1061, per suggestione del potente arcidiacono Ildebrando, mentre l'abate Desiderio di Montecassino procurava l'aiuto armato del normanno Riccardo, principe di Capua e conte di Aversa, i cardinali vescovi si riunivano fuori delle mura di Roma (30 settembre) ed eleggevano papa Anselmo. La notte seguente, con l'aiuto di un piccolo contingente normanno, Anselmo e i cardinali furono introdotti in Roma e il nuovo papa fu consacrato con il nome di Alessandro II. Il 7 ottobre il conte Riccardo pronunziava giuramento di fedeltà al papa, impegnandosi a far rispettare il Decretum de electione domni papae di Niccolò II. Nessuna richiesta era stata fatta alla corte germanica per ottenere una preventiva approvazione o almeno, poi, una conferma dell'elezione di Anselmo.
Intanto, una deputazione di nobili romani, con a capo il conte Gerardo di Galeria e l'abate del monastero di "Clivus Scauri", si era recata in Germania offrendo al giovanissimo Enrico IV le insegne del patriziato romano e pregandolo di usare il diritto che quel titolo gli offriva nell'elezione del pontefice. Giungeva anche alla corte, per lo stesso scopo, una delegazione di vescovi lombardi, ispirati dal cancelliere regio Guiberto. Convinta l'imperatrice reggente Agnese, fu convocato un concilio a Basilea, nel quale venne eletto papa il vescovo di Parma, Cadalo, che assunse il nome di Onorio II (28 ottobre 1061).
All'inizio dell'anno seguente, Agnese inviò a Roma il vescovo d'Alba, Benzone, allo scopo di prendere contatto con la nobiltà cittadina e di preparare l'ingresso dell'antipapa. Il 25 marzo 1062, Onorio II si incontrava finalmente in Sutri con Benzone e con gli esponenti della nobiltà romana. Vinta una battaglia al "Campus Neronis" (14 aprile) contro i partigiani di A., l'antipapa entrò in S. Pietro in Vaticano e si ritirò poi in Castel S. Angelo, mentre i suoi partigiani occupavano tutta la città leonina. A. era costretto a rifugiarsi in un monastero del colle capitolino. Sostenendo i Normanni le parti di A., Benzone e Onorio II avevano contatti con ambasciatori bizantini, i quali cercavano l'alleanza dell'antipapa e della corte germanica contro il pericolo normanno. Posizione ambigua teneva invece Goffredo di Lorena, preoccupato anch'egli della crescente potenza normanna e non più ostile alla corte germanica, ma tuttavia spinto a favorire il papa A. dall'influenza della moglie Beatrice. A fine maggio 1062, Goffredo, con un considerevole esercito, si accampò presso il Tevere, a ponte Molle (oggi ponte Milvio), e invitò i contrastanti partiti a deporre le armi e i due pontefici a ritirarsi nelle rispettive diocesi. Il duca lorenese, che intendeva approfittare del momento per divenire arbitro della situazione politico-religiosa italiana, probabilmente aveva già avuto notizia dei mutamenti avvenuti nella corte germanica, dove, nell'aprile, l'arcivescovo di Colonia, Annone, piuttosto favorevole ad A., aveva rapito il giovanissimo Enrico IV e, insieme col metropolita di Brema-Amburgo Adalberto, aveva assunto la reggenza, mentre l'imperatrice Agnese si ritirava nel monastero di Fruttuaria.
Al contrario di Cadalo, A. accolse l'invito di Goffredo e si ritirò, nello stesso mese di maggio, nella sua diocesi di Lucca, dove rimase fino al marzo dell'anno successivo.
Un grande concilio fu intanto convocato, sembra dall'arcivescovo Annone, ad Augusta il 24 ottobre 1062, per decidere quale fosse il legittimo pontefice. A. vi fu rappresentato da Pier Damiani, il quale in quella circostanza scrisse la Disceptatio synodalis, ponendo in rilievo lo stato di necessità in cui si erano trovati i cardinali vescovi a eleggere il pontefice senza poter dare alcuna comunicazione alla corte e ricordando che con Anselmo da Baggio, già così legato a Enrico III, era stata scelta una persona che sarebbe dovuta tornar gradita a corte. Il concilio si orientò piuttosto favorevolmente ad A., ma non prese decisioni definitive, affidando a Burcardo, vescovo di Halberstadt e nipote di Annone, l'incarico di condurre in Italia un'inchiesta, che ebbe esito favorevole per Alessandro II.
Nel marzo 1063 il papa, accompagnato dal duca Goffredo di Lorena, era già tornato in Roma, dove i Normanni avevano provveduto a spianargli il terreno. Nell'aprile, il papa inaugurava nel Palazzo Lateranense un solenne e affollato sinodo, che condannò Cadalo, rinnovò i decreti antisimoniaci di Niccolò II, vietò ai fedeli di assistere alle funzioni sacre celebrate da sacerdoti concubinari, proibì agli ecclesiastici di cumulare benefici e di accettare l'investitura da laici senza aver prima ottenuto il consenso dell'ordinario diocesano o del metropolita, raccomandò caldamente per il clero la pratica della vita comune. A. riprendeva così l'attività riformatrice di Niccolò II.
Da parte sua l'antipapa, convocato un concilio a Parma, scomunicava A., accusandolo di non esser stato eletto dal clero e dal popolo di Roma, ma - in disprezzo delle leggi canoniche - dai Normanni, nemici dell'Impero. Nel maggio, Cadalo con un esercito lombardo mosse su Roma e, aiutato dalla nobiltà romana, occupò di nuovo la città leonina, insediandosi in Castel S. Angelo. Il vescovo Benzone cercò disperatamente aiuto alla corte germanica, dove sembrava prevalere l'influsso dell'arcivescovo di Brema, Adalberto. Ma invano: ché, anzi, il cancelliere regio Guiberto, partigiano di Cadalo, fu sostituito dal vescovo di Vercelli, Gregorio, che si veniva già avvicinando al partito di Ildebrando e di Alessandro II. Le cose volgevano ormai favorevolmente per A., quando un intempestivo intervento di Pier Damiani rimise tutto in discussione. Inviato come legato pontificio in Francia, nell'estate del 1063, il cardinale vescovo d'Ostia, dopo avere in un sinodo a Chalon-sur-Saône risolto a favore dei monasteri di Cluny e di Corbie le controversie che essi avevano rispettivamente con i vescovadi di Mâcon e di Amiens, scrisse - all'insaputa della Curia romana - una lettera all'arcivescovo Annone invitandolo a convocare un concilio per porre fine alle contestazioni mosse all'elezione di Alessandro II. Questo passo, accolto con grave disappunto dal papa, suscitò lo sdegno dell'arcidiacono Ildebrando, perché esso rimetteva la decisione sulla legittimità dell'elezione pontificia all'iniziativa della corte regia e all'arbitrio di un concilio convocato dal sovrano. La reazione della Curia romana era comprensibile: verso la fine del 1063, le cose andavano male per Cadalo, rimasto asserragliato in Castel S. Angelo, prigioniero quasi del suo protettore Cencio.
Appena risollevate le sue sorti, A. aveva cominciato a occuparsi delle imprese delle armi cristiane contro gli infedeli. Proprio nel 1063, il papa inviò lo stendardo di S. Pietro al normanno Ruggero, vittorioso nella battaglia di Cerami contro i musulmani di Sicilia. Nello stesso anno, l'arcivescovo di Cosenza, Arnolfo, presiedeva in Bari, in nome di A., un sinodo riformatore. L'anno seguente il gonfalone pontificio era inviato ai cavalieri francesi che, sotto la guida del duca di Aquitania, Guido Goffredo, combattevano contro i musulmani di Spagna. Ma intanto la proposta di Pier Damiani aveva trovato facile seguito in Germania. Nel Natale 1063, l'arcivescovo Annone in nome del re convocò per la Pentecoste dell'anno seguente un concilio generale a Mantova allo scopo di decidere sulla legittimità dell'uno o dell'altro pontefice.
Cadalo rifiutò di intervenire al concilio e si fermò ad "Aqua Nigra", fuori del territorio canossiano, dove era Mantova; A., invece, vi si presentò. L'arcivescovo Annone, in nome del re, dichiarò che era necessario accertare se rispondessero a verità le accuse, mosse al papa, di simonia e di alleanza con i Normanni ai danni dell'Impero. A. rispose che, se egli si discolpava dalle accuse, lo faceva di propria spontanea volontà, in quanto il pontefice non poteva essere giudicato dai suoi inferiori, non potendo i discepoli giudicare il maestro. Giurava, quindi, che egli era immune da peccato di simonia e che era stato eletto, contro la sua volontà, da coloro i quali, secondo l'antico costume romano, avevano il diritto e la potestà di farlo. La procedura della sua elezione, rispondente al Decretum di Niccolò II, veniva così riconfermata da A. come l'unica legittima: la presenza del papa al concilio, convocato in nome del re per accertare la legittimità della sua elezione, non significava il riconoscimento del consenso e del controllo regio come elemento necessario per la perfezione giuridica dell'elezione pontificia. Per quel che riguardava l'accusa di alleanza antimperiale con i Normanni, A. invitava il re ad accertarne la veridicità di persona, in occasione di un suo eventuale viaggio a Roma per l'incoronazione imperiale. L'antipapa Onorio II fu quindi dichiarato deposto e scomunicato. A Cadalo, ritiratosi a Parma, rimanevano ormai solo pochi seguaci, fra i quali l'arcivescovo di Ravenna Guiberto e il cardinale Ugo Candido.
Riconosciuto anche dall'arcivescovo Guido di Milano e da altri vescovi lombardi, per le pressioni dei Patarini, A. rientrava trionfatore in Roma. In questo periodo il movimento patarinico era particolarmente attivo in Milano. Recatosi a Roma insieme con Arialdo e altri capi patarinici, Erlembaldo ottenne dal pontefice il gonfalone di S. Pietro, da sventolare nelle imprese contro i sacerdoti corrotti e i loro partigiani.
L'arcivescovo Annone, intanto, rimaneva in Italia per negoziare il fidanzamento del giovanissimo re Enrico IV con Berta, figlia del marchese di Torino: anche questa attività del metropolita di Colonia si poteva considerare favorevole al partito di A. e al movimento riformatore.
Ma ben presto la situazione subì un contraccolpo notevole sia in Lombardia sia in Germania. A Milano l'arcivescovo Guido tornò alle pratiche simoniache e rafforzò il suo partito contro il movimento patarinico. In Germania l'arcivescovo Adalberto di Brema riusciva a riaffermare con maggior vigore il suo potere a corte a discapito dell'influenza del rivale Annone e faceva dichiarare maggiorenne, a quattordici anni e mezzo, il re Enrico IV (29 marzo 1065). L'astro di Cadalo accennava a risorgere, sicché Pier Damiani si affrettava a scrivere al sovrano, invitandolo a sguainare la sua spada in favore della Chiesa romana.
Ma contro la smisurata ambizione di Adalberto si levò una coalizione di signori tedeschi, laici ed ecclesiastici, fra i quali primeggiavano gli arcivescovi di Colonia e di Magonza e i duchi di Baviera e di Svevia. La Dieta dei signori tedeschi, riunita a Tribur nel gennaio 1066, ottenne dal re che Adalberto fosse allontanato dalla corte e costretto a ritirarsi a Brema. Il matrimonio di Enrico IV con Berta poteva così realizzarsi.
Sebbene in Milano per il movimento patarinico le cose volgessero ancora per il peggio, tanto che, alla scomunica dell'arcivescovo Guido (9 marzo 1066), seguì una reazione che portò poi all'uccisione di Arialdo (28 giugno), A. poteva considerare ormai rinsaldata la sua posizione. Una bolla del 15 maggio 1066, confermante la fondazione del monastero di Siegburg, merito dell'arcivescovo Annone, attesta che le buone relazioni fra il papa e la Chiesa germanica erano ristabilite. È di questo periodo una lettera del papa all'arcivescovo di Reims Gervasio, nella quale il tormentato quinquennio della contesa con Cadalo era considerato come un triste periodo del tutto concluso. In quello stesso anno 1066 A. sostenne le rivendicazioni di Guglielmo, duca di Normandia, sulla Corona inglese contro il sassone Aroldo e inviò al normanno lo stendardo di S. Pietro perché sventolasse alla testa dei suoi guerrieri nella spedizione che si preparava. La decisione del papa, che aveva incontrato vivace opposizione negli ambienti romani, ma era stata sostenuta con calore da Ildebrando, era determinata anche dai contrasti avuti dalla Chiesa romana con la monarchia sassone per la nomina alla sede di Canterbury del vescovo di Winchester, Stigand, che si era fatto concedere il pallio dall'antipapa Benedetto X. Ma A. confidava soprattutto nell'aiuto di Guglielmo per porre riparo alla grave situazione disciplinare e morale della Chiesa anglosassone. Intanto gli stretti e cordiali rapporti di A. con i Normanni dell'Italia meridionale erano stati gravemente compromessi dall'atteggiamento ambiguo assunto dal pontefice nei loro riguardi al concilio di Mantova, tanto più perché i continui progressi normanni destavano gravi preoccupazioni negli ambienti della Curia romana. Numerosi, infatti, erano stati gli attacchi di conti normanni contro monasteri dipendenti direttamente dalla Santa Sede. Anche i rapporti di A. con il suo antico protettore, il conte Riccardo, divennero molto tesi. Il papa fu costretto a invocare l'aiuto del re.
Nella seconda metà del 1066 l'arcivescovo Annone e il duca Goffredo di Lorena, che era ritornato in Germania, prepararono insieme il piano di una spedizione in Italia. Enrico IV convocò per la Candelora del 1067 in Augusta una grande assemblea di signori per preparare il suo viaggio in Italia. Per ragioni che non sono a noi chiare, la spedizione del sovrano fu rimandata, e scese in Italia soltanto Goffredo. Il duca di Lorena arruolò nel suo esercito Lombardi e Romani e marciò contro i Normanni. Il conte normanno Riccardo si ritirò oltre il Garigliano, mentre suo figlio Giordano e Guglielmo di Montreuil, asserragliati in Aquino, fermavano l'avanzata di Goffredo, che pose l'assedio a quella roccaforte (metà di maggio 1067). Riccardo di Capua ottenne quindi l'abbandono dell'assedio, promettendo di fare atto di sottomissione al sovrano.
Oltre al venir meno della pressione normanna, altri avvenimenti contribuivano a rafforzare la posizione di A. e a risollevare le sorti del partito riformatore in Italia. A Milano i Patarini rialzavano il capo per merito di Erlembaldo, mentre moti patarinici scoppiavano a Piacenza e a Gemona. Il papa inviò a Milano una legazione costituita da Mainardo, vescovo di Silvacandida, e dal cardinale prete Giovanni Minuto allo scopo di pacificare la città e di assicurare la riforma del clero, ponendo freno tuttavia agli eccessi patarinici (agosto 1067). Il pontefice approfittò subito della migliorata situazione italiana per riprendere una politica di prestigio e di riforma. Il 1° agosto A. presiedé in Melfi un solenne concilio, nel quale vennero deposti parecchi vescovi indegni e annullate alcune ordinazioni irregolari, mentre erano riconosciuti i privilegi della sede metropolitana di Canosa-Bari. Soprattutto si dava incremento alla Chiesa di rito latino rispetto a quella di rito greco.
Il riavvicinamento di A. con i Normanni significava per il papato l'inizio di una decisa azione di riforma e di accentramento nelle Chiese dell'Italia meridionale, ma non poteva non destare sospetti e ostilità presso la corte germanica. Sgraditissimo poi agli ambienti vicini a Enrico IV doveva riuscire l'appoggio sempre più deciso della Santa Sede al movimento patarinico, in Milano, dove Guido si era ritirato a vita privata designando come successore Goffredo, persona graditissima a corte, ma fieramente avversata dai Patarini. Nella Quaresima del 1068 il re Enrico IV inviò in Lombardia, capeggiata dall'arcivescovo di Colonia Annone, dal vescovo di Trento Enrico e dal duca di Baviera Ottone, un'ambasceria che prese contatto con Cadalo. Ai colloqui partecipò anche il duca Goffredo di Lorena. Lo sdegno di A. per questi contatti con lo scomunicato antipapa fu grande. Nel sinodo pasquale, tenuto poco dopo, Annone ed Enrico furono scomunicati e quindi riconciliati solo dopo aver fatto penitenza. La vecchia controversia fra l'arcivescovo di Colonia e il monastero di Stavelot per i diritti sull'abbazia di Malmédy fu risolta a favore del monastero. Né maggior soddisfazione ottenne Annone nei riguardi dell'arcivescovo di Treviri, da lui accusato di simonia: Udone infatti ottenne di potersi discolpare con il giuramento dall'accusa rivoltagli. Fu invece deposto il vescovo di Firenze, Pietro, contro il quale era insorto un accesissimo movimento patarinico.
A. riprendeva così una politica decisa di riforma e non esitava a richiamare all'ordine prelati potentissimi del Regno di Germania. E si intensificavano di nuovo le missioni di legati pontifici nei vari Stati occidentali. Il papa inviò il cardinale Ugo Candido, riaccolto nella sua grazia, come legato nella Francia meridionale e in Spagna, dove furono riuniti numerosi sinodi riformatori per combattere il concubinato e particolarmente la simonia. È merito di A. l'aver riannodato i legami fra le Chiese di Spagna e la Santa Sede, quasi del tutto interrotti tranne che in Catalogna (Contea di Barcellona), che faceva parte della provincia ecclesiastica narbonense. Nella primavera dello stesso anno 1068 il re d'Aragona, Sancho Ramírez, si era recato a Roma per commendare a s. Pietro la sua persona e il suo Regno. Nell'importante concilio di Narbona (novembre 1068), alla presenza del conte Raimondo Berengario I e di numerosi arcivescovi, vescovi e abati, venivano condannati il concubinato e la simonia, fissati i censi dovuti alla Santa Sede, introdotta in Spagna la "tregua di Dio".
Al principio del 1069 presso la corte germanica l'influsso dell'arcivescovo Adalberto tornò a prevalere su quello di Annone. Con questo avvenimento si può forse porre in relazione il tentativo di Enrico IV di liberarsi della moglie Berta mediante l'annullamento del matrimonio. Per ottenerlo, il re si rivolse all'arcivescovo di Magonza, Sigfrido, il quale propose di convocare all'uopo un concilio a Francoforte e chiese consiglio al papa, pregandolo di inviare un legato. Questi fu Pier Damiani, il quale nel concilio si oppose fieramente al desiderio di Enrico IV, minacciando da parte del pontefice il rifiuto della Corona imperiale: il sovrano dovette inchinarsi di fronte a così ferma presa di posizione. Atteggiamento inflessibile e indipendente di fronte al sovrano tenne ancora la Santa Sede, quando Enrico IV, essendo morto il vescovo Rumoldo di Costanza (4 novembre 1069), diede l'episcopato a un suo protetto, Carlo, canonico di Goslar e poi di Magdeburgo. A. invitò l'arcivescovo di Magonza a resistere alle pressioni che il re faceva perché Carlo fosse consacrato e a convocare un concilio nel quale si esaminasse la posizione dell'eletto contro il quale protestavano i cittadini di Costanza e si rivolgevano d'ogni parte accuse di simonia. Nonostante l'opposizione del re, il concilio si riunì a Magonza l'aprile del 1071 alla presenza degli arcivescovi di Treviri e di Salisburgo, espressamente delegati dalla Santa Sede: Carlo fu costretto a rinunziare all'episcopato.
Contemporaneamente si svolgeva in Inghilterra un'intensa opera di riforma, per merito particolare di Guglielmo il Conquistatore, il quale, arbitro delle elezioni episcopali, non praticò mai la simonia, anzi dotò la Chiesa normanna di vescovi e abati di alto valore intellettuale e morale. Guglielmo sollecitò da Roma l'invio di tre legati, i quali, dopo averlo incoronato re (4 aprile 1070), deposero l'arcivescovo di Canterbury, Stigand, in un concilio convocato a Winchester nell'ottava di Pasqua. Il legato pontificio Ermenfrido, vescovo di Sion, presiedé il lunedì di Pentecoste il concilio di Windsor, nel quale furono deposti vescovi e abati indegni e non fedeli al conquistatore normanno. Alla cattedra primaziale di Canterbury fu elevato Lanfranco di Pavia, che si recò poi a Roma a rendere omaggio al suo antico alunno divenuto papa.
Continuava intanto nell'Italia meridionale l'opera di accentramento e di riforma da parte della Santa Sede. Il 1° ottobre 1071, per la consacrazione della nuova chiesa del monastero di Montecassino, si raccoglievano intorno al papa, con molti loro suffraganei, gli arcivescovi di Salerno, Capua, Napoli e Sorrento, e anche quelli di Siponto, Trani e Taranto, il cui titolo di origine bizantina veniva così per la prima volta riconosciuto dalla Santa Sede. L'abate di Montecassino, Desiderio, cardinale prete vicinissimo agli ambienti romani e animato di vivo spirito riformatore, diventava il tramite per il quale si rafforzavano i legami fra le Chiese meridionali e la Santa Sede.
Nel 1072 il cardinale Ugo Candido tornava come legato pontificio in Spagna e, oltre a combattere la simonia, reintroduceva il rito romano in Aragona, abolendo la particolare liturgia mozarabica. Mentre le Chiese catalana e aragonese venivano ormai a dipendere strettamente dalla Santa Sede e si impegnavano a pagare un regolare censo annuo, la Castiglia rimaneva ancora un poco fuori da questo avvicinamento a Roma.
Questa vasta azione riformatrice e accentratrice nel campo ecclesiastico, condotta da A. con grande spirito di indipendenza, sollevava i sospetti ed eccitava l'ostilità presso la corte germanica, tanto più che, con il progredire della riforma, si rafforzavano il prestigio e la potenza del papato, particolarmente nei riguardi di nuove vegete formazioni statali. L'antagonismo fra papato e corte germanica si inasprì sul suolo lombardo. Morto l'arcivescovo Guido (23 agosto 1071), il re cercò di imporre ai Milanesi il riconoscimento di Goffredo. Ma i Patarini, con l'appoggio del legato pontificio Bernardo, elessero arcivescovo un chierico milanese a loro favorevole, Attone (6 gennaio 1072). Le violenze dei partigiani di Goffredo costringevano quindi Attone a rifugiarsi a Roma, dove egli veniva riconosciuto dal papa come legittimo arcivescovo. Nel febbraio, A. scriveva al re intimandogli di permettere che i Milanesi avessero finalmente un vescovo "secundum Deum". Enrico IV rispondeva ordinando ai suffraganei della metropoli ambrosiana, rimasti fedeli al partito imperiale, di consacrare in Novara Goffredo.
Anche in Germania il sovrano seguiva una politica ostile al papato. Morto il 16 marzo 1072 l'arcivescovo di Brema, Adalberto, Enrico IV fu indotto a richiamare a corte Annone; ma questi si ritirò ben presto nella sua arcidiocesi, adducendo il motivo della tarda età: in effetti egli incontrava troppo accesa ostilità negli ambienti di corte ormai orientati a una politica avversa al papato di A. e assolutamente sordi a ogni esigenza di riforma religiosa. L'interesse politico ed economico prevaleva nel conferimento di benefici ecclesiastici, nessun ritegno frenava gli interventi arbitrari nelle questioni ecclesiastiche. Enrico IV cercò di guadagnare alla sua causa il potente arcivescovo di Magonza, Sigfrido, aiutandolo a imporre al sinodo di Erfurt (10 marzo 1073) il riconoscimento dei suoi diritti alle decime di Turingia. In particolare i monasteri di Hersfeld e di Fulda dovettero cedere e sottoscrivere un compromesso molto gravoso. Ogni ricorso al pontefice fu impedito dal sovrano.
Nel concilio romano di Quaresima (1073), uno degli ultimi atti del pontificato di A., si veniva già a delineare la situazione politico-religiosa che sarebbe stata poi affrontata dal successore, Gregorio VII. Appena tornato dalla Spagna, il cardinale Ugo Candido fu accusato di simonia dai monasteri cluniacensi, al cui influsso esclusivo egli aveva sottratto le Chiese spagnole per riportarle alla diretta dipendenza da Roma. Ildebrando, che fu l'anima del concilio, ottenne che le accuse a Ugo Candido fossero respinte. Un altro antico partigiano di Cadalo ebbe confermato il favore del pontefice: Guiberto, già cancelliere del Regno, ottenne da A. la sanzione ufficiale del suo ufficio di arcivescovo di Ravenna. Avevano interceduto per Guiberto l'onnipotente Ildebrando e l'imperatrice Agnese. Questa caldeggiò anche la condanna dei consiglieri che avevano ispirato la politica ecclesiastica di Enrico IV, suggerendo le arbitrarie e simoniache investiture vescovili. Si intendeva così ammonire severamente il sovrano e lasciargli al tempo stesso la possibilità di un mutamento di indirizzo. Con la conferma del favore e della fiducia a Ugo Candido e particolarmente a Guiberto si intendeva tenere in serbo elementi capaci e autorevoli che avrebbero potuto sostituire i consiglieri condannati, qualora il re avesse raccolto il destro che gli si porgeva per una nuova politica ecclesiastica. Pur conservando l'intransigenza dei principi e la fermezza dell'azione riformatrice, nella riacquistata potenza politica e nel rinnovato prestigio spirituale, A. tentava ancora, alla fine del suo pontificato - morì infatti il 21 aprile 1073 -, di avviare un'azione comune e concorde fra papato e Impero per la riforma religiosa, memore dei copiosi frutti della fervida collaborazione fra i principi e la Chiesa nell'Italia meridionale, nella Spagna, nell'Inghilterra, nella stessa Francia.
Disposto più volte a umiliazioni personali, A. non aveva mai ceduto nelle questioni di principio: le concessioni fatte alle inchieste sulla legittimità della sua elezione riguardavano indagini su dati di fatto, non ponevano in discussione i principi del metodo di elezione pontificia, per cui rimaneva sempre valido il Decretum di Niccolò II. Sembra che A. si fosse voluto sbarazzare di ogni sospetto riguardante la propria persona allo scopo di poter poi con maggiore vigore e libertà agire nella riorganizzazione della Chiesa e nella riforma dei costumi. Le concessioni al potere laico, che gli sono state rimproverate come un tradimento degli ideali di riforma e una deviazione dall'opera intrapresa da Niccolò II, furono fatte in momenti di particolare debolezza del papato, in periodi di incertezza. Non appena la situazione personale di A. e la posizione del papato si rafforzavano, veniva ripresa un'azione politico-religiosa di vasto respiro, come avvenne nel 1063-1064, dopo la crisi del maggio 1063, e nel 1066, dopo il concilio di Mantova e le incertezze che ne derivarono.
Il pontificato di A. non rappresenta, quindi, un arresto nell'attività riformatrice intrapresa da Niccolò II, come pretende il Fliche. Mentre il papa era già vicino alla morte, i suoi legati Rambaldo e Geraldo stringevano un accordo con Ebles de Roncy per una nuova crociata in Spagna. Da due delle prime lettere di Gregorio VII (Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 6 e 7) si apprende che gli accordi prevedevano che le nuove terre conquistate agli infedeli sarebbero spettate alla Santa Sede e che i signori le avrebbero tenute come vassalli "ex parte s. Petri". L'azione politico-religiosa di A. si esplicò con successo fino in Danimarca, in Norvegia, in Boemia, in Dalmazia. Mai, prima del suo pontificato, i legati della Santa Sede nei vari Stati dell'Europa occidentale avevano esplicato una così intensa attività riformatrice e goduto di tanta autorità presso sovrani e signori laici come presso vescovi e metropolitani delle regioni visitate. Nessuna debolezza infatti ebbe mai A. nei riguardi dei metropolitani, pur se potentissimi, come quelli di Reims, Colonia, Magonza, Brema; molte volte li richiamò all'ordine, spesso decise a loro sfavore controversie con monasteri. Nei riguardi degli enti monastici, poi, A. affermò una tendenza accentratrice da parte del papato, che ebbe modo di manifestarsi in Spagna, dove all'influsso diretto cluniacense fu sostituita un'immediata dipendenza dalla Santa Sede. Nonostante, o forse appunto per il controllo che tendeva a esercitare sui metropolitani, A. contò molto sulla loro collaborazione per lo sviluppo della sua attività riformatrice, specie su Annone di Colonia e ancor più su Gervasio di Reims. Non proibì in modo assoluto l'investitura di benefici ecclesiastici da parte di laici, ma rese indispensabile il consenso dell'ordinario diocesano e del metropolita; e più volte ebbe ad affermare che non ci sarebbero stati abusi o irregolarità nelle investiture da parte dei laici se i vescovi avessero temuto che - in tal caso - sarebbe stata loro negata dal metropolita la consacrazione. A. fu sempre convinto dell'opportunità e della necessità di una stretta collaborazione fra le autorità laiche ed ecclesiastiche; e non esitò ad approvare le designazioni di vescovi fatte da Guglielmo il Conquistatore con fine discernimento e con alti intenti; ma combatté senza esitazione l'attività di Enrico IV e dei suoi consiglieri nel medesimo campo, perché contaminata di simonia e ispirata a particolari fini politici. Ebbe altissimo concetto dell'autorità pontificia e della peculiare funzione dell'ordine sacerdotale, né su questo campo venne mai a compromessi. Ai diletti Patarini milanesi ordinò severamente di astenersi dal giudicare gli ecclesiastici e precisò che avrebbero potuto procedere solo contro chi fosse stato dichiarato colpevole dall'autorità ecclesiastica competente. A Filippo re di Francia, con il quale pure ebbe buoni rapporti di collaborazione nell'intensa attività riformatrice svolta da legati e metropolitani in numerosi concili, A. non si peritò di precisare, richiamando un testo di Leone Magno, che i decreti dei pontefici dovevano essere tenuti nella medesima considerazione dei canoni.
fonti e bibliografia
Regesta Pontificum Romanorum, a cura di Ph. Jaffé-G. Wattenbach-S. Loewenfeld-F. Kaltenbrunner-P. Ewald, I, Lipsiae 1885, pp. 393 ss.
Lettere e documenti pontifici di A. sono pubblicati in: P.L., CXLVI; S. Loewenfeld, Epistolae pontificum Romanorum ineditae, Lipsiae 1885, nrr. 68-118, pp. 38-58; Acta pontificum Romanorum inedita, a cura di J. von Pflugck-Harttung, I, Tübingen 1886, nrr. 37-46, pp. 36-46; Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, II, Paris 1892, pp. 281 ss.
Per le fonti narrative cfr.: Annales Romani (1044-1187), a cura di L.C. Bethmann-G. Wattenbach, in M.G.H., Scriptores, V, a cura di G.H. Pertz, 1844, pp. 468-80;Bernoldo di Costanza, Chronicon, ibid., pp. 385-467;Lamberto di Hersfeld, Annales, ibid., pp. 134-263 e ibid.,
Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, XXXVIII, a cura di O. Holder-Egger, 1894³, ad indicem; Arnolfo, Gesta archiepiscoporum Mediolanensium, ibid., Scriptores, VIII, a cura di G.H. Pertz, 1848, pp. 1-31; Ugo di Flavigny, Chronicon, ibid., pp. 280-502; Goffredo Malaterra, De Rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius, in R.I.S.², V, 1, a cura di E. Pontieri, 1927-28, passim; Amato di Montecassino, Storia de' Normanni, a cura di V. de Bartholomaeis, Roma 1935 (Fonti per la Storia d'Italia, 76); Landolfo Seniore, Historia Mediolanensium, in R.I.S.², IV, 2, a cura di A. Cutolo, 1942, passim.
Tra le opere di carattere generale si consultino: W. von Giesebrecht, Geschichte der deutschen Kaiserzeit, III, Leipzig 1890, passim; G. Meyer von Knonau, Jahrbücher des deutschen Reiches, unter Heinrich IV. und Heinrich V., I-III, ivi 1890-1900; A. Cartellieri, Der Aufstieg des Papsttums im Rahmen der Weltgeschichte (1047-1095), München 1936.
Per l'età di A. cfr.: O. Delarc, S. Grégoire VII et la Réforme de l'Église, I-II, Paris 1889; Ch.J. Hefele-H. Leclercq, Histoire des conciles d'après les documents originaux, IV, 2, ivi 1911, pp. 1216 ss.; A. Hauck, Kirchengeschichte Deutschlands, III, Leipzig 1920, pp. 702 ss.; A. Fliche, La réforme grégorienne, I, La formation des idées grégoriennes, Louvain-Paris 1924, pp. 341-84; G. Gay, I papi del sec. XI e la Cristianità, Firenze 1929, pp. 186-231; R. Morghen, Gregorio VII, Torino 1942, pp. 110-45; Id., Questioni gregoriane, "Archivio della R. Deputazione Romana di Storia Patria", 65, 1942, pp. 1-62; A. Fliche, La réforme grégorienne et la reconquête chrétienne (1057-1123), s.l. 1950, pp. 31-54; J. Haller, Das Papsttum. Idee und Wirklichkeit, II, Stuttgart 1951, pp. 337-65; F.X. Seppelt, Geschichte der Päpste, III, München 1956³, pp. 49-64; C. Violante, L'età della riforma della Chiesa in Italia (1002-1122), in Storia d'Italia, I, Torino 1959, pp. 133-48.
Tra le opere particolari v.: Memorie per servire all'Istoria del ducato di Lucca, V, 1, Lucca 1844, pp. 260-305; M. Marocco, Storia di Alessandro II, sommo pontefice e di sant'Anselmo di Lucca, Milano 1856; R. Fetzer, Voruntersuchungen zur Geschichte des Pontificats Alexanders II., Strassburg 1887; A. Guerra-P. Guidi, Compendio di storia ecclesiastica lucchese, Lucca 1914; P. Brezzi, Roma e l'Impero medioevale, Bologna 1947, pp. 240 ss.; C. Violante, La pataria milanese e la riforma ecclesiastica, I, Le premesse (1045-1057), Roma 1955, pp. 147-213; L. Gatto, Mainardo, vescovo di Silvacandida e abate di Pomposa, "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 16, 1962, pp. 201-48; W. Ohnsorge, Die Byzanzreise des Erzbischofs Gebhard von Salzburg und das päpstliche Schisma im Jahre 1062, in Id., Abendland und Byzanz. Gesammelte Aufsätze zur Geschichte der byzantinisch-abendländischen Beziehungen und des Kaisertums, Bad Homburg vor der Höhe 1963, pp. 342-63; K. Schnith, Die Wende der englischen Geschichte im 11. Jahrhundert, "Historisches Jahrbuch", 86, 1966, pp. 1-53; H. Clover, Alexander II's Letter "Accepimus a quibusdam" and its Relationship with the Canterbury Forgeries, in La Normandie bénédictine au temps de Guillaume le Conquérant (XIe siècle), Lille 1967, pp. 417-42; L. Gatto, Studi mainardeschi e pomposiani, Pescara 1969; T. Schmidt, Die Kanonikerreform in Rom und Papst Alexander II. (1061-1073), in Studi Gregoriani, IX, Per la storia della "libertas Ecclesiae", a cura di A.N. Stickler-O. Bertolini, Roma 1972, pp. 199-221; C. Morton, Pope Alexander II and the Norman Conquest, "Latomus", 34, 1975, pp. 362-82; A.R. Calderoni Masetti, Anselmo da Baggio e la cattedrale di Lucca: contributi e precisazioni, "Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa", ser. III, 7, 1977, pp. 91-116; T. Schmidt, Alexander II. 1061-1073 und die römische Reformgruppe seiner Zeit, Stuttgart 1977; F.-J. Schmale, Synoden Papst Alexanders II. (1061-1073): Anzahl, Termine, Entscheidungen, "Annuarium Historiae Conciliorum", 11, 1979, pp. 307-38; C.M. Agnelli, L'episcopato lucchese di Anselmo I da Baggio: l'amministrazione delle finanze e del patrimonio della Chiesa, "Actum Luce.
Rivista di Studi Lucchesi", 15, 1986, pp. 95-117.
V. anche le voci relative ad A.: Theologische Realenzyclopädie, II, Berlin 1978, s.v., pp. 235-37; Lexikon für Theologie und Kirche, I, Freiburg 1993³, s.v., col. 367; Dizionario storico del Papato, a cura di Ph. Levillain, I, Milano 1996, s.v., pp. 23-5.