ALESSANDRO III di Macedonia, Magno ('Α. ὁ μέγας, A. Magnus)
La giovinezza. - A. III re di Macedonia, detto poi il Grande, nacque l'anno 356 a. C., il giorno 6 del mese di loos, (corrispondente al mese di ecatombeone del calendario attico), e cioè verso la fine di luglio, subito dopo la presa di Potidea: si festeggiavano in quei giorni i giuochi della 106ª olimpiade, e Filippo di Macedonia ebbe appunto notizia della nascita del figlio al suo ritorno da Potidea (Plutarco, Alex., 3). Madre di A. fu Olimpia, figlia di Neottolemo, re dell'Epiro, che Filippo aveva sposata in seconde nozze., dopo la morte (o il divorzio) della prima moglie, Fila, della casa principesca dell'Elimiotide. Donna passionale e altera, influì notevolmente sull'indole del figlio; a svegliare poi il desiderio della gloria nell'animo giovanile di questo si aggiunse l'appassionata lettura dei poemi omerici. Da bambino, l'erede del trono era stato affidato alle cure della nutrice Lanice, donna di alto lignaggio, e di Leonida, parente di Olimpia, il quale dirigeva l'opera de' suoi non pochi pedagoghi e istitutori: l'educazione del principe era fatta, del resto, in comune con quella di altri fanciulli nobili, fra i quali fu forse anche Efestione.
All'alto e difficile compito di educatore definitivo, Filippo - e l'importanza della scelta per la formazione intellettuale di A. s'intende facilmente - chiamò, nell'anno 343-42, Aristotele, che rimase per alcuni anni a fianco del giovane principe e di pochi suoi compagni di studî, nel ritiro di Mieza. Non certo per molto tempo poté A. ascoltare gl'insegnamenti del suo straordinario maestro, ché già nel 340 fu dal padre iniziato alle cure dello stato. Egli tuttavia ebbe agio di apprendere, direttamente, da colui che meglio d'ogni altro poteva parlarne, la vita intellettuale e culturale, i sistemi e la prassi politica della Grecia.
La consuetudine fra maestro e discepolo fu troppo breve perché potesse stabilirsi fra i due un'intima dimestichezza; e alcuno (Kaerst) ha rilevato come l'influsso di Aristotele non si riveli nelle fondamentali concezioni etiche e politiche di A.; sta di fatto che il re di Macedonia conservò sempre verso il filosolo rapporti di affetto e di gratitudine, che solo negli ultimi anni si guastarono alquanto (cfr. Plutarco, Alex., 8). Non è il caso d'intrattenerci qui, perché ben s'intuiscono, sulle cure che il padre dedicò all'educazione fisica del futuro monarca macedone, né sugli aneddoti che intorno ad essa si narravano (basterà aver ricordato la valentia dimostrata da A. nel domare il cavallo Bucefalo donatogli dal corinzio Demarato); piuttosto ricorderemo com'egli fosse probabilmente l'unico vero affetto familiare di Filippo, il quale era orgoglioso del suo erede e non trascurava occasione di metterlo in vista e di prepararlo all'esercizio dei poteri sovrani. Nel 340, quando A. contava 16 anni, il padre, partendo per l'assedio di Bisanzio, gli affidò la reggenza della Macedonia; nella qual carica condusse una spedizione per sottomettere il popolo ribelle dei Maidi; tre anni dopo si segnalò grandemente alla battaglia di Cheronea, dove fu ascritta a suo merito la rotta del battaglione sacro dei Tebani (Plut., Alex., 9).
Queste cure paterne di Filippo per l'erede contrastano con quanto sappiamo della vita privata del re macedone; la corte di Pella seguitava sempre ad essere ciò che era stata per l'addietro: un attendamento di rudi soldati, che occupawano il tempo fra una spedizione e l'altra con banchetti ed orgie e facili amori; e il re ne dava l'esempio. Quattro concubine si erano succedute al suo fianco; e le prime tre gli avevano dato figli. Da ultimo, ritornando in Macedonia con gli allori di Cheronea, s'era invaghito della giovane Cleopatra, nipote di Attalo, uno dei più alti e influenti ufficiali del seguito del re (Diodoro, XVI, 93); la elevata condizione della nuova favorita non permetteva al re di farsene una concubina: dové unirsi a lei con legittime nozze, e n'ebbe, pochi giorni prima di morire (Diodoro, XVII, 2, 3), una bambina, Europa (alcune fonti accennano invece ad un maschio: v. Beloch, Griech. Gesch., III, 11, 2ª ed., p. 71). Olimpia, che già di malanimo sopportava la condotta sregolata del re, non poté subire quest'ultimo affronto e si ritirò nelle sue terre d'Epiro; mentre A., ad esprimere anch'egli la sua disapprovazione verso il padre, si allontanava dalla capitale, dirigendosi a comandare una spedizione contro gli Illirî. Filippo capì di essere andato troppo oltre, tanto più che Attalo vantava palesemente la certezza che i figli di Cleopatra avrebbero raccolto la successione del re, e tosto si adoperò per una conciliazione: riuscì a convincere A. a ritornare a Pella, mentre si guadagnava il favore dei parenti di Olimpia, offrendo al fratello di lei, Alessandro, il matrimonio con la propria figlia Cleopatra (figlia di Olimpia e sorella di Alessandro). Nell'antica capitale dei re di Macedonia, ad Ege, nell'estate del 336, si celebrarono con gran pompa queste nozze; ma, durante lo svolgersi del corteo nuziale, il re fu pugnalato a tradimento da un ufficiale del suo stato maggiore, un tal Pausania. Piuttosto che motivi personali (e cioè risentimento di Pausania verso Filippo per non averne ricevuto giustizia in una sua questione con Attalo), è probabile che moventi politici guidassero il braccio del regicida: nell'assassinio è da veder forse l'opera di Olimpia (come del resto ne corse subito la voce), né si può escludere che A. stesso fosse a cognizione di ciò che la madre preparava a stornare la minaccia ch'egli fosse privato della successione al trono, in favore dei figli di Cleopatra.
Alessandro sul trono. - A. salì sul trono nell'estate del 336 (per la cronologia, v. Beloch, Griech. Gescch., III, 11, § 23), all'età di 20 anni precisi, in circostanze difficilissime. Da ogni parte si levavano contro di lui opposizioni e minacce. All'esterno alzavano il capo i popoli barbari di recente sottomessi da Filippo, ai confini orientali e settentrionali della Macedonia; e i Greci, insofferenti del giogo dell'egemonia macedone, giudicavano venuto il momento di scuoterlo: da Ambracia veniva cacciato il presidio macedone, e lo stesso si preparava a far Tebe; gravi fermenti si annunziavano in Etolia e nel Peloponneso; ad Atene Demostene aveva scattato di gioia alla notizia dell'assassinio di Filippo, e ora trionfava dei suoi nemici e proclamava che più nulla s'aveva ormai da temere dal ragazzo che sedeva sul trono dei Macedoni (Diodoro, XVII, 3; Plutarco, Demosth., 22). E pericoli non meno gravi si disegnarono tosto contro il nuovo re, all'interno: quivi egli doveva pensare a difendersi da altri pretendenti al trono; più pericoloso di tutti Attalo, lo zio di Cleopatra, che, inviato in Asia da Filippo, insieme con Parmenione, per preparare la guerra contro la Persia, intendeva ora far valere i diritti dinastici della nipote e della sua prole, e, a buon conto, aveva allacciato trattative con Atene; pericoloso anche Aminta, figlio di Perdicca (il predecessore di Filippo), che un numeroso partito riguardava come legittimo erede del trono. L'aver superato un così difficile frangente si dové non meno alle doti personali, di prontezza e risolutezza di decisione, di cui il giovane re seppe dar prova, che all'immediato e reciso pronunciamento in suo favore di quasi tutti i generali di Filippo, e massimamente dei due più autorevoli di essi, Antipatro e Parmenione, che vollero così, col rapido consolidamento del nuovo monarca, risparmiare alla Macedonia una gravissima crisi di successione che avrebbe potuto comprometterne la posizione di predominio di recente acquistata. Né va dimenticata, a questo proposito, l'azione di quella schiera numerosa di affezionati amici, che già si stringevano intorno ad Alessandro: tali i macedoni Tolomeo ed Arpalo, il cretese Nearco, il compagno d'infanzia Efestione e aìtri ancora, tutti sempre solidali con lui come prima nei conflitti tra A. e Filippo, così ora, nella crisi della successione.
Ancora nel 336, A. marciava in Tessaglia, facendosi riconoscere dall'assemblea federale capo supremo dei Tessali; tosto avanzò sino alle Termopili, e dall'assemblea anfizionica ivi radunata si fece riconfermare il protettorato sul santuario di Delfi; sceso fino alle porte di Tebe con minaccioso spiegamento di forze, persuadeva la città a desistere da ogni idea di ribellione, e quivi riceveva un'ambasceria inviata dagli Ateniesi per congratularsi con lui dell'ascesa al trono. Frattanto erano convenuti a Corinto i delegati degli stati greci aderenti alla Lega nazionale promossa da Filippo per muovere in guerra contro la Persia (non avevano aderito gli Spartani): quivi A. si fece proclamare, al posto del padre, comandante supremo delle forze elleniche che avrebbero operato contro i Persiani. Era ormai tempo per lui di ritornare in Macedonia, per rintuzzare le velleità offensive dei popoli barbari confinanti; ma prima volle farla finita con le opposizioni dinastiche di ogni specie (Diodoro, XVII, 4; Arriano, I,1,1-3).
Attalo, che si trovava tuttora in Asia al comando dell'esercito macedonico, aveva cercato ora, dopo la sottomissione dei Greci ad A., di far pace col re; ma questi giudicò più sicuro disfarsi di lui e farlo uccidere da un sicario, appositamente inviato: né Parmenione rifiutò la sua cooperazione all'impresa, quantunque avesse dato una sua figlia in isposa ad Attalo. Venne quindi la volta dei parenti di Cleopatra e dei fratellastri di A., che Filippo aveva avuti dalle sue concubine: tutti furono egualmente fatti uccidere dal re, ad eccezione del mentecatto Arrideo, figlio della concubina Filinna. Di lì a poco Olimpia obbligava la vedova Cleopatra a uccidersi, e ne faceva sopprimere la figlia. Un vero bagno di sangue! A giustificazione del suo autore si può addurre la considerazione ch'egli non aveva altro modo di dare al suo regno, la sicurezza che gli era necessaria per la grande impresa ormai decisa; che gli ostacoli e i pericoli, di cui A. dové ora liberarsi in modo così crudele, erano stati in gran parte suscitati contro di lui dalle colpe e dalle sregolatezze del padre; che, infine, un così truce procedere, oltre ad essere, purtroppo, comune alle rivoluzioni di tutti i tempi e di tutti i regimi, non va giudicato alla stregua dei nostri costumi e della nostra morale, bensì a quella dei costumi e della morale del tempo e, specificamente, del popolo macedone.
Il consolidamento dell'egemonia. - Urgeva a ora ad A., prima di allontanarsi col nerbo delle forze militari dal suo regno, assicurarne stabilmente i confini e consolidare il prestigio macedone fra le genti circostanti. Nella primavera del 335 A. moveva da Anfipoli; varcato il fiume Nesto, si apriva il passo attraverso le tribù della Tracia, e scendeva, a nord dell'Emo (catena dei Balcani), nel territorio dei Triballi (Bulgaria occidentale), che Filippo aveva già battuti, senza per altro riuscire a sottometterli: domato questo popolo, valicò il Danubio, probabilmente non lungi dall'odierna Silistria, spingendosi con una marcia di ricognizione nel paese dei Geti, che invano avevano tentato di contendergli il passo del fiume. Ma qui per A. non vi era altro di utile da fare; tornò indietro, assicurandosi dell'obbedienza dei Triballi e degli altri popoli adiacenti al Danubio; indi si diresse, attraverso il paese degli Agriani [alto Struma), nella Peonia (Serbia meridionale). Qui lo raggiunse la notizia della defezione del principe illirico Clito, figlio di quel Bardile a cui Filippo aveva imposto la sovranità macedone; egli, fatta lega col popolo indipendente dei Taulanti, abitante la costa adriatica (Albania occidentale), minacciava ora da vicino i confini occidentali della Macedonia. Senza indugio A. si volse contro il nuovo nemico e, non senza aver superato, mercé la disciplina e il valore delle sue truppe, qualche critico momento, riuscì a battere Clito, costringendolo a rifugiarsi presso il re dei Taulanti (Arriano, I, 5, 6; Diodoro, XVII, 8; Plutarco, Alex., 11).
Ma non poté usufruire oltre della vittoria; gravi notizie arrivavano dalla Grecia, ove s'era sparsa, non si sa come, la voce che egli fosse caduto, col suo esercito, in un'imboscata degli Illirî e vi avesse perduto la vita. Tale nuova aveva rianimato le speranze dei Greci in una prossima liberazione dalla signoria macedone; e a fomentare e a preparare torbidi aveva lavorato anche la Persia, inviando nelle città greche messi forniti di larghi mezzi pecuniari. Fino allora, però, nessuna città greca, ad eccezione di Sparta, aveva formalmente aderito alle proposte persiane; ma ora Tebe si sollevava, assediando il presidio macedone nella Cadmea, e Atene aderiva al movimento tebano e preparava rinforzi da inviare in Beozia, mentre Demostene avviava nuove trattative con la Persia; dal Peloponneso gli Arcadi e gli Elei promettevano aiuti ai Tebani, e lo stesso facevano gli Etoli. Si era allora alle soglie dell'autunno del 335; con straordinaria rapidità A. apparve ai confini della Tessaglia e piombò fulmineo su Tebe, isolandola prima che potesse ricevere alcuno dei rinforzi che si stavano avviando in Beozia da varie parti della Grecia. Senza misurare la gravità del pericolo, senza calcolare la sproporzione delle forze proprie rispetto ai mezzi militari del nemico, sconsideratamente i Tebani respinsero ogni offerta di trattative; tosto incominciò, da parte dei Macedoni, l'assedio, facilitato dalla presenza del presidio macedonico nella Cadmea; la città fu presa d' assalto, dopo fierissima resistenza, al principio di ottobre. E A. volle ora che il destino della città fosse deciso dal sinedrio ellenico, ove, assai più che la severità del re macedone, operò la smania di vendetta dei Focesi e delle piccole città beotiche, memori del giogo che Tebe aveva per lungo tempo fatto pesare su di loro: la città fu giudicata traditrice della causa nazionale greca e condannata ad essere distrutta, ad eccezione della Cadmea, ove rimase stanziato il presidio macedone; gli abitanti superstiti (più di 30.000) furono venduti schiavi; il territorio distribuito tra le minori città beotiche (Arriano, I, 7-8; Diodoro. XVII, 9-12; Plutarco, Alex., 11). La gravissima punizione, alla quale indubbiamente A. non volle opporsi (gli sarebbe stato ben facile impedirla!), perché servisse, soprattutto, d'intimidazione verso gli altri Greci, fece dovunque nell'Ellade straordinaria impressione; dappertutto dileguarono i propositi di di defezione, e le città che più si erano compromesse si affrettarono a fare atto di sottomissione ad Alessandro. All'ambasceria inviatagli dagli Ateniesi, A. formulò soltanto due richieste: sfrattassero i Tebani che s'erano rifugiati nella loro città; consegnassero i responsabili della condotta politica ateniese, fra essi Demostene. Le due richieste furono, dopo vivi contrasti, respinte dall'assemblea degli Ateniesi; e Focione stesso, il capo più autorevole del partito filo-macedonico, si unì all'ambasceria che recò al re il responso del popolo ateniese. E A. ritirò le sue richieste: sull'indulgenza allora usata dal re macedone influì senza dubbio il pensiero che, gettando Atene nelle braccia della Persia, egli si sarebbe reso di gran lunga più difficile l'azione futura, assicurando ai suoi nemici il dominio del mare (così Beloch); ma devesi pure ammettere che l'anímo di A. non fosse insensibile al fascino che Atene esercitava allora su tutto il mondo civile, e per cui dappertutto aveva profonda risonanza ogni offesa recata alla città, luminare delle arti e delle scienze, alla trionfatrice di Maratona e di Salamina.
Lo sbarco in asia. - A. poteva ora finalmente pensare alla guerra contro la Persia; un ulteriore indugio avrebbe potuto comprometterla seriamente. Già abbiamo detto come Filippo avesse inviato in Asia Attalo e Parmenione, allo scopo di preparare condizioni favorevoli allo sbarco della grande spedizione: le poche forze persiane disponibili nelle regioni costiere dell'Anatolia erano state dal re Dario affidate al comando del rodio Mentore e, dopo la morte di questo, del fratello Memnone (ὕπαρχος τῆς κατὰ τὴν 'Ασίαν παραλίας v. Berve, II, p. 251). Da principio, i Macedoni avevano riportato notevoli successi, arrivando fino a minacciare Sardi; poi, approfittando della perplessità sopraggiunta nell'esercito macedone in seguito all'assassinio di Attalo, Memnone aveva ripreso l'offensiva, attaccando Cizico e fronteggiando dovunque con fortuna Parmenione.
Sul principio della primavera del 334 A., consegnata ad Antipatro la luogotenenza del regno per la Macedonia e per la Grecia, metteva in marcia il suo esercito, iniziando così quella spedizione contro la Persia che egli aveva proclamato di condurre, come capo supremo della Lega ellenica, a vendetta di tutte le offese e dei sacrilegi commessi dai Persiani a danno dei Greci (Diodoro, XVII, 4, 9; Cicer., De republ., III, 15). Come capo di stato maggiore gli era a fianco Parmenione, ìl miglior generale dei suoi tempi, autore delle più splendide vittorie di Filippo; alla sua scuola era stato educato il magnifico corpo degli ufficiali macedoni, che inquadravano le truppe, con le quali A. apriva ora la campagna. Questo esercito poteva contare circa 40.000 uomini, dei quali più di 5000 a cavallo: il maggiore esercito greco che si fosse finora veduto, il più numeroso contingente di cavalleria che un generale greco avesse mai avuto al suo comando. I contingenti degli alleati greci non sommavano in tutto che a poche migliaia di uomini: la sistematica opposizione dei Greci alla Macedonia aveva, se non altro, ottenuto il risultato di ridurre al minimo i loro sacrifici per la guerra; vero è però che le città greche avevano contribuito, in misura più notevole, a formare la llotta federale destinata ad agire nel Mare Egeo contro quella persiana (le cifre dei singoli contingenti sono in Diodoro, XVII, 17, 3 segg.: su di esse v. Beloch, Griech. Geschichte, III, 11, § 132). Non molto numerosa era la flotta federale: 160 navi in tutto; sicché doveva esser facile alla Persia raccoglierne, in un tempo più o meno lungo, una assai più numerosa: di tal condizione di cose la responsabilità risaliva ad Atene, che aveva contribuito con sole venti triremi all'armata federale.
Non faccia meraviglia che A. si preparasse a fronteggiare con forze relativamente modeste la smisurata mole dell'impero persiano; quanto smisurato altrettanto debole organismo, per la non mai avvenuta fusione dei differenti popoli che lo costituivano, per la forza centrifuga rappresentata dai potenti satrapi di fronte alla corte, indebolita, specialmente nell'ultimo secolo, da frequenti conflitti dinastici e congiure di palazzo. L'esercito, restio ad assimilare i progressi della tecnica militare, nonostante il largo e frequente reclutamento di condottieri e mercenarî greci, si era visto, in occasione della spedizione di Ciro, della ritirata dei Diecimila, della guerra di Agesilao, quel che valesse da solo di fronte ai Greci. Le vere forze efficienti della Persia stavano invece ancora nelle finanze e nella flotta. D'altra parte, è stato acutamente osservato come il processo di ellenizzazione dell'Asia minore fosse già notevolmente avanzato durante il sec. IV, prima della spedizione di A.; sicché il compito di questo ne fu straordinariamente facilitato, e la sua impresa non fece che accelerare e condurre a termine un movimento già molto progredito (v. W. Judeich, Kleinasiatische Studien, Marburgo 1892).
Lo sbarco dell'esercito - che la flotta persiana non giunse in tempo a contrastare - fu effettuato. sotto la direzione di Parmenione, nella Troade, nella regione di Abido. Il re si fermò a visitare le reliquie di Troia e la tomba dell'avo suo Achille; indi mosse l'esercito verso est, seguendo la linea della costa. Memnone aveva disegnato un piano esclusivamente difensivo, che doveva condurre il nemico lontano dalle sue basi, attraverso un paese devastato, con le retrovie minacciate, mentre la flotta persiana si sarebbe radunata nell'Egeo e la politica persiana presso i vari stati greci avrebbe dato i suoi frutti. Ma i generali e i satrapi persiani non approvarono la strategia del Rodiese, e preferirono misurarsi senz'altro col nemico: lo scontro avvenne sul fiume Granico (v.), nel targelione (maggio-giugno) del 334, e fu deciso in favore dei Macedoni, principalmente per merito della cavalleria tessala comandata da Parmenione e coll'impeto della carica che A. stesso guidò, con grave pericolo della vita, salvatagli, in questa occasione, da Clito (cfr. Arriano, I, 13-15; Diodoro, XVII, 20-21; Plutarco, Alex., 19).
La conquista delle coste del Mediterraneo orientale. - La vittoria, che A. proclamò vittoria della Lega greca sui barbari (inviando ad Atene, in dono votivo a Pallade, trecento armature persiane, con la dedica: "A. e i Greci, all'infuori degli Spartani, sui barbari d'Asia", Plut., Alex., 16), benché non avesse grande importanza militare, fece in tutta l'Asia straordinaria impressione: dovunque caddero le resistenze, e soltanto i nuclei di mercenarî greci si opposero qua e là efficacemente alla marcia del conquistatore; perfino l'imprendibile Sardi fu consegnata ad A., senza colpo ferire, dal comandante persiano e dai notabili della città. Poi fu la volta di Efeso: una dura resistenza oppose Mileto, appoggiandosi alla flotta persiana, finalmente comparsa nel Mar Egeo (Arriano, I, 18-19; Diodoro, XVII. 22; la cifra di 300 o 400 navi, data da questi autori, è certamentc esagerata); ma le navi greche prevennero il nemico nell'occupare l'isoletta di Lade, tagliando così la città dalle comunicazioni col mare. Caduta Mileto, un'accanita resistenza fu opposta da Alicarnasso, ove aveva preso il comando Memnone in persona, che il re Dario aveva nominato capo supremo delle forze persiane in Asia Minore, avendo da lui ricevuto in ostaggio, a garanzia della sua fedeltà, la moglie e i figli. L'espugnazione della città, potentemente fortificata da Mausolo e appoggiata dalla numerosa e valida armata persiana, si presentava oltremodo difficile; ma per A. era indispensabile, prima di avanzare oltre, far crollare quella potente piazza forte o, se credeva meglio, lasciarla strettamente assediata. Preferì non dividere l'esercito: Alicarnasso fu presa d'assalto, tranne l'acropoli, dove un nucleo di difensori rimase assediato da un contingente macedone (Arriano, I, 20-23; Diodoro, XVII, 23-27); Memnone poté ritirarsi con parte de' suoi, notte tempo, a Coo. E allora tutta la Caria cadde nelle mani di A., il quale ne affidò il governo alla principessa Ada, l'ultima sorella di Mausolo, il cui favore gli aveva molto agevolato la conquista. Frattanto Lisimaco occupava tutte le altre città della costa: a tutte A. elargì libertà ed autonomia (perfino autonomia politica, a giudizio del Droysen, in Monatsber. der Berl. Akad., 1878, p. 23 segg.), dovunque facendo sostituire al regime oligarchico, ligio alla corte persiana, costituzioni democratiche, ma impedendo assolutamente qualunque violenza; il che gli guadagnò le simpatie della classe abbiente.
Ma ad A. premeva di togliere al nemico le basi della sua flotta; onde, lasciato Parmenione a svernare in Lidia con la cavalleria tessala e gli alleati, egli si avviava attraverso la Licia e la Panfilia, conquistandole senza colpo ferire. Di qui risaliva nell'altipiano della Pisidia, e, aprendosi il passo fra quelle fiere tribù montanare, che non avevano mai riconosciuto la sovranità persiana, arrivava a Gordio, antica residenza dei re di Frigia; nella primavera del 333 si ricongiungeva a Parmenione, che gli conduceva anche rinforzi di truppe fresche. In Gordio A. sciolse il famoso nodo, dando così, agli occhi dei Frigi, un colore di legittimità alla sua conquista (Plutarco, Alex., 18). Da Gordio A., dopo aver toccato Ancira (Angora) e sottomessi i Paflagoni, ridiscese, attraverso la Cappadocia, verso la Cilicia: superato il passo del Tauro (le porte Cilicie), che il presidio persiano non tentò neppure di difendere, giunse a Tarso, ove cadde gravemente ammalato e fu salvato dal medico Filippo (Plut., Alex., 19).
Mentre egli si tratteneva qui qualche tempo, anche per allargare e consolidare la conquista della Cilicia, Parmenione lo precedeva con una metà dell'esercito, occupando i passi costieri fra la Cilicia e la Siria (Arriano, I, 23, 7; II, 6; Diodoro, XVII, 27-28).
Frattanto il re di Persia (Dario III, elevato al trono sul finire del 336 dall'onnipotente ministro Bagoas, da lui poi soppresso), radunato un grande esercito, era venuto a prendere posizione nella pianura di Sochoi, ad oriente della catena dell'Amano: tosto A. gli si fece incontro e, riunitosi a Parmenione, si fermò allo sbocco orientale della Porta Siriaca. I due eserciti stettero per qualche tempo di fronte immobili: non conveniva ai Macedoni attaccare il nemico in una larga pianura, favorevole ai movimenti della sua numerosissima cavalleria; né un attacco dei Persiani alle forti posizioni di A. aveva probabilità di riuscita. Allora Dario, piuttosto che aspettare inattivo l'inverno, che l'avrebbe costretto a ritirare e sciogliere il suo esercito, con grave danno del suo prestigio, preferì obbligare il nemico a battaglia, aggirando, da nord, le posizioni macedoni e prendendo posizione, alle spalle di A., nella pianura costiera di Isso. ll re di Macedonia, tagliato fuori dalle sue basi di operazione, era perduto, se la battaglia non gli riusciva favorevole: ma la vittoria fu, anche questa volta, dei Macedoni. La battaglia di Isso fu anzi il più glorioso trionfo di tutta la guerra; la più tenace resistenza fu opposta dai mercenarî greci militanti nell'esercito di Dario: con l'immenso bottino caddero in mano del vincitore anche la madre, la moglie e due figlie di Dario (novembre 333; v. 1sso: cfr. Arriano, II, 6-13; Diodoro, XVII, 32-35; Plutarco, 20). La vittoria produsse straordinaria impressione in Grecia, e specialmente ad Atene, ove, nelle settimane precedenti allo scontro, Demostene andava ripetendo che l'esercito macedone sarebbe stato calpestato dalla valanga della cavalleria barbarica; nei giuochi istmici della primavera successiva fu decretata ad A., quale difensore della libertà ellenica contro i barbari, la corona d'oro.
Come la battaglia del Granico aveva aperto ad A. la strada dell'Asia anteriore, così ora la battaglia di Isso spalancò al vittorioso le porte della Mesopotamia, dell'Armenia, dell'Īrān; gli strateghi moderni riconoscono pertanto ad A. il merito di aver vinto ogni impazienza e di essersi fermato ad assoggettare la Siria, la Fenicia e l'Egitto, assicurandosi così il dominio del mare, prima d'inseguire il suo avversario sconfitto nel cuore dell'impero.
Dario aveva abbandonato a Damasco l'ingente tesoro del suo esercito; e A. mandò Parmenione a impadronirsene. Indi, per togliere all'attività marinara del nemico le proprie basi, si rivolse contro le città della costa fenicia. Le più importanti tra esse, Arado, Biblo, Sidone, si diedero senza opposizione ad A., che pertanto si impadronì anche delle loro flotte e di quelle delle città cipriote. Soltanto Tiro si oppose all'ingresso di A., dichiarando di volersi conservare neutrale: per ben sette mesi i Tirî resistettero all'assedio di A., finché dovettero arrendersi nel mese di ecatombeone (luglio-agosto) del 332; la popolazione superstite fu, per la maggior parte, venduta schiava (Arriano, II, 15-24; Diodoro, XVII, 40-47; Curzio Rufo, IV, 2-4; Plut., Alex., 24). Ripresa la sua marcia verso il sud e superata, con un assedio di due mesi, l'opposizione di Gaza (Arriano, II, 26-27; Diod., XVII, 48, 7; la notizia della visita di A. a Gerusalemme - data da Giuseppe Flavio, Ant. Iud., XI, 313 segg. - non è storica), intraprese anche la conquista dell'Egitto, che i nemici di A. (come il disertore Aminta) avevano fatto ora centro dei loro maneggi, e la cui sottomissione avrebbe senza dubbio accresciuto il prestigio del monarca macedone. L'Egitto era del resto allora quasi indifeso, avendo il satrapo che lo governava partecipato con le sue truppe alla battaglia di Isso; e d'altra parte gli Egiziani, sempre insofferenti della dura e maldestra dominazione persiana, accolsero con simpatia e favore il conquistatore. A., dopo essersi trattenuto, durante l'inferno del 332-31, nella regione del Delta, e aver quivi fondato quella città di Alessandria che doveva, in breve volger di tempo, divenire la più ricca e popolosa del mondo, volle spingersi a visitarr il santuario di Ammone, che anche i Greci veneravano. I sacerdoti del tempio salutarono A. figlio del dio, come spettava al dominatore dell'Egitto: il qual fatto assunse grande importanza più tardi, quando A. ambì per sé gli onori divini (ma è da respingere, col Beloch, Griech. Gesch., III,1, 641, n.1, la tesi che fin da allora A. pensasse a questi, e che il suo viaggio al santuario di Ammone avesse scopo politico. Cfr. Arr., III,1-5; Diod., XVII 49-52; Plut., Alex., 26-28).
A Menfi A. si fermò qualche tempo, per ricevere rinforzi e ambascerie dalla Grecia e per organizzare, col massimo rispetto alle istituzioni locali, l'amministrazione del paese. Quindi, nella primavera del 331, si mise in marcia verso il nord per incontrare Dario.
La distruzione dell'impero persiano. - Il re persiano aveva già offerto trattative al suo nemico, dopo il disastro di Isso; né A. aveva rifiutato l'offerta, ma, quando gli giunse la seconda ambasceria di Dario, con proposte concrete di pace (cessione di tutta l'Asia ad ovest dell'Eufrate, versamento di 10 mila talenti come riscatto della famiglia reale prigioniera), A. era già dinanzi a Tiro, padrone della Siria e della Fenicia, libero dal pericolo dell'armata persiana: la totale conquista dell'impero non era ormai che questione di tempo, né conveniva rinunciarvi. A. respinse pertanto le proposte, né altre ne furono più in seguito avanzate da Dario (v., su tale questione, Beloch, Griech. Gesch., III, 1, 637, n. 1). Al re di Persia non rimase allora che raccogliere tutte le forze per il proseguimento della lotta. Dalle satrapie orientali del regno affluirono a lui nuovi contingenti; coi quali Dario decise di attendere A. nella piana dell'Assiria, dove non gli sarebbe stata inutile, come ad Isso, la sua superiorità numerica, specie quella delle truppe montate.
Nell'estate del 331 A. passava indisturbato l'Eufrate a Tapsaco. il 20 settembre la difficile corrente del Tigri (Arr., III, 6-7; Curzio Rufo, IV, 9; Plut., Alex., 29-30); dieci giorni dopo, il 1° di ottobre, attaccava le posizioni di Dario nella pianura tra il villaggio di Gaugamela ed Arbela, non lontano dalle rovine di Ninive (presso l'odierna Mossul). Anche in questa giornata la vittoria fu decisa dall'impeto dell'attacco di A., mentre Parmenione, all'ala sinistra, teneva testa alla cavalleria persiana. I magazzini e i tesori dell'esercito persiano, in Arbela, e diecine di migliaia di prigionieri vennero in mano del vincitore, al quale la vittoria non era costata che cinquecento uomini; però gli sfuggiva ancora Dario, che si dirigeva tosto verso i difficili passi della . Media, allo scopo di conservare le comunicazioni con le provincie orientali dell'impero. La regione di Babilonia, e la città stessa famosa, venivano consegnate ad A. dal prefetto Mazeo: la popolazione lo salutava come liberatore (v. gaugamela; cfr. Arriano, III, 8-15; Diodoro, XVII, 55-61; Curzio Rufo, IV, 12-16; Plutarco, Alex., 31-53).
Dopo aver sostato in Babilonia, ove si guadagnò le simpatie della popolazione con la devozione mostrata ai culti indigeni, dopo essersi impadronito, in Susa, di ricchissimi tesori (v.) si trovarono anche opere d'arte greche, involate da Serse nel 480), marciò verso il cuore dell'impero, verso la Perside, vincendo l'opposizione delle tribù montanare degli Ussî (non sottomesse mai neppure dai re persiani) e la resistenza del satrapo Ariobarzane. A Persepoli, ove caddero in suo potere gl'inesauribili tesori della corte persiana (circa 120.000 talenti), distrusse il famoso, magnifico palazzo reale (Arriano, III, 16-18; Plut., Alex., 36-38; Diodoro, XVII, 65-72). Di questo procedere di A. contro la capitale persiana si dettero, da antichi e moderni, spiegazioni diverse; volendoviisi dai più vedere la vendetta che A. prendeva, in nome di tutti i Greci, sui Persiani per le distruzioni da questi arrecate in Grecia, e specialmente per l'incendio dell'Acropoli di Atene: sta di fatto che egli si trovava ora nella patria vera e propria dei suoi nemici, non marciava più attraverso nazioni che ne festeggiavano l'arrivo, in odio ai dominatori persiani; sicché entravano ora in vigore, per gli assalitori e per i difensori, tutte le dure leggi della guerra (così Beloch).
Dopo una sosta di quattro mesi nella Perside, A. marciò su Ecbatana (Hamadhān), la capitale della Media, ove Dario aveva preso i quartieri d'inverno; là giunto, seppe che Dario aveva continuato la sua ritirata verso l'oriente. Ma ormai il fine che A. si era proposto, come capo e rappresentante della nazione greca, era raggiunto: il regno di Persia aveva finito di esistere; l'ultimo epigono dei superbi monarchi che avevano a più riprese minacciato la libertà e l'esistenza stessa delle città elleniche cercava nella fuga un ultimo scampo agli estremi confini del suo regno distrutto.
Inseguendo il fuggiasco, A. oltrepassò Rhagae (presso l'odierna Teherān) e le Porte Caspiche (passo di Sirdassa); ivi apprese che un gruppo di satrapi e di alti ufficiali persiani aveva deposto Dario e lo conduceva seco prigioniero nella ritirata: a capo di essi stava Besso, satrapo della Battriana e Sogdiana, appartenente ad un ramo collaterale della dinastia degli Achemenidi. A. si mise loro alle calcagna coi corpi più rapidi del suo esercito: in procinto di esser raggiunto, Besso preferì far uccidere Dario piuttosto che lasciarlo cader vivo nelle mani del vincitore; con la speranza, anche, di far così desistere A. dall'inseguimento: così morì Dario, in Ecatompilo, nel mese di luglio del 330; il suo cadavere fu da A. fatto trasportare nella Perside, ove fu sepolto, con tutti gli onori, nella tomba dei re (Arriano, III, 19-21; Curzio Rufo, V, 9-13; Diodoro, XVII, 73).
L'organizzazione dell'impero. - Sull'organizzazione che .A. diede all'impero così rapidamente conquistato sarebbe erroneo voler dare un giudizio definitivo; poiché è chiaro che non si poteva trattare, allora, che di una sistemazione provvisoria, come soltanto poteva permetterla lo stato di guerra tuttora esistente, e che, d'altra parte, avrebbe servito di esperimento per un'ulteriore, definitiva sistemazione. In realta A. conservò quasi dovunque la divisione persiana dello stato in satrapie, su basi storiche ed etniche, nominando, salvo poche eccezioni, al posto dei satrapi, ufficiali macedoni, con poteri civili e militari: laddove, invece, furono lasciati al potere i satrapi o i principi indigeni (come in Caria, in Egitto, nelle satrapie conquistate dopo la battaglia di Arbela), A. mise loro a fianco ufficiali macedoni, investiti del comando militare. In seguito fu costretto però a deporre gran parte di questi satrapi, e i due poteri furono così anche qui riuniti nelle mani di comandanti macedoni. Con speciali provvedimenti, però, A. era riuscito ad assicurare al potere centrale mezzi di governo più sicuri, diretti ed efficaci di quelli di cui disponeva la corte persiana: a tal uopo furono posti a capo delle più importanti piazze forti comandanti militari alle dipendenze dirette del re; mentre, agli effetti dell'amministrazione finanziaria, tutto lo stato fu diviso in un certo numero di distretti, diretti da speciali funzionarî. In tal modo il potere centrale dominava militarmente e finanziariamente lo stato, indipendentemente dall'autorità dei satrapi. La misura dei tributi, fu, in genere, da A. lasciata invariata: però le città greche ne furono liberate e assoggettate invece a una contribuzione di guerra o σύνταξις (v. Julien, Zur Verwaltung der Satrapien unter Alex. dem Grossen, Lipsia 1914; Lehmann-Haupt, art. Satrap, in Pauly-Wissowa-Kroll, Real-Encycl. d. class. Altertumsw., IIA, col. 139 segg.; Beloch, Griech. Gesch., IV, 1, 10 segg.).
A. contro le opposizioni, greca e macedonica. - Dopo la caduta di Alicarnasso Memnone non si era dato affatto per vinto, ma tosto aveva cominciato le operazioni nel Mar Egeo, nell'intento di sollevare la Grecia contro la Macedonia, alle spalle del re, che s'inoltrava frattanto nell'Asia; e in realtà, dati i sentimenti che gran parte dei Greci nutrivano verso il re macedone, le operaziohi di Memnone potevano rappresentare un serio pericolo per Alessandro. Appoggiandosi ai partiti oligarchici, dovunque a questo ostili, Memnone ebbe in breve guadagnato Chio e quasi tutta Lesbo; dalle Cicladi giunsero offerte di sottomissione al re di Persia; un'ambasceria partì da Atene alla volta di Dario; in tutta la Grecia si rinnovò un fermento che ricordava quello insorto dopo la morte di Filippo. Ma Memnone moriva di malattia durante l'assedio di Mitilene, e coloro che lo sostituirono nel comando (il nipote Farnabazo e Autofradate) si rivelarono tosto inferiori al loro ufficio. E frattanto la flotta greca si organizzava sempre meglio, e Antipatro, lasciato da A. suo luogotenente in Macedonia, ordinava in tutto il territorio greco preparativi di difesa. Soltanto il re spartano Agide osava tuttavia dichiararsi apertamente per la Persia, alla quale chiedeva soltanto di sostenerlo con navi e denari. La vittoria di Isso, aprendo ad A. la via della Siria e della Fenicia, toglieva all'armata persiana il meglio delle sue forze, in seguito alla perdita dei contingenti fenici e ciprioii, passati ad A.; onde, in breve volger di tempo, tutti i successi ottenuti nell'Egeo dai Persiani andarono perduti: dappertutto furono abbattuti i governi oligarchici e si fece atto di sottomissione alla Macedonia. Ma Sparta non si dava ancora per vinta: memore del suo grande passato, insofferente di far atto di sudditanza a uno stato che non molto tempo prima i Greci giudicavano ancor barbaro, aspettava che un'occasione propizia le desse modo di sottrarsi al fato ineluttabile. Dopo la battaglia di Isso, il re Agide si era recato in Creta, per creare qui una base di azione contro A., reclutando navi e soldati. Allora Antipatro scese senz'altro a guerra aperta contro di lui; Agide ritornò nel Peloponneso e prese l'offensiva (maggio 331). I Peloponnesiaci si divisero fra l'uno e l'altro contendente. Atene, tenuta in rispetto dalla ormai prevalente flotta macedone, si mantenne neutrale. Nell'autunno dello stesso anno, Antipatro, alla testa dei contingenti alleati, diede battaglia all'esercito spartano, presso Megalopoli, riportando piena vittoria. Agide stesso cadde con gran parte de' suoi (Diodoro, XVII, 62-63; Curzio Rufo, VI, 1-16). Come già verso Atene, A. usò allora grandissima moderazione verso quest'altra gloriosa città: tutto fu perdonato, e solo si chiesero ostaggi agli Spartani, indennità di guerra agli Elei e agli Achei loro alleati. L'assoggettamento della Grecia era definitivamente compiuto; né alcun altro tentativo di defezione si ebbe a verificare fino alla morte di Alessandro.
Via via che A. allargava le sue conquiste verso l'oriente, venivano sotto il suo scettro popolazioni che della dignità regia avevano una concezione totalmente diversa da quella dei Greci, Spartani o Macedoni che fossero: per i più degli orientali, il re non soltanto era tale per diritto divino, ma era creatura divina egli stesso, espressione della divinità; e con onori divini lo si salutava e lo si onorava. A., che aveva posto a base del suo programma di conquista il rispetto e l'adesione più piena alle costumanze e alle credenze dei popoli presso i quali giungeva, non poteva sconfessare questo concetto dell'autorità regale, peculiare e fondamentale negli orientali, strumento potente di coesione fra i popoli dell'impero. Dové accettare pertanto la venerazione divina che gli si rendeva; ci si abituò; i suoi straordinarî successi, il nimbo di gloria che lo avvolgeva, l'innato orgoglio gliela fecero giudicare naturale e quasi doverosa: non poté, a lungo andare, essere contemporaneamente persiano e greco, "despota orientale e re occidentale" (Ranke). Si straniò così dai suoi, ai quali volle, per di più, imporre il cerimoniale di corte persiano; sorsero malcontenti fra gli ufficiali macedoni, e alla fine una congiura (autunno 330). La cosa non fu grave; ma A. si valse di essa per liberarsi dell'uomo potente al quale doveva, in gran parte, i suoi successi, e che, solo ormai fra tutti, gli manifestava e gli opponeva, ogni qual volta fosse necessario, da pari a pari, il proprio reciso giudizio: Parmenione. Il grande generale teneva del resto il re bene in sua mano: non solo egli era il primo dei suoi generali, amato e stimato da ufficiali e soldati, ma i suoi due figli, Nicanore e Filota, e altri suoi parenti comandavano i più importanti reparti dell'esercito e i posti militari più gelosi nel paese conquistato. Nicanore era morto durante l'inseguimento di Dario: restava Filota. Ch'egli prendesse parte alla congiura di cui abbiamo detto sopra, è poco probabile (v. le considerazioni del Beloch, Griech. Gesch., IV, 1, 21, n. 4); certo è però che, avendone avuta notizia, non ne avei.a avvertito il re. A. fece, sotto questa imputazione, tradurre Filota dinnanzi all'assemblea dei soldati macedoni, la quale lo condannò alla pena capitale, come reo di alto tradimento. Parmenione era rimasto ad Ecbatana, al comando di una metà dell'esercito. Che cosa avrebbe fatto, quando avesse saputo ciò che era successo al campo del re? A. ruppe ogni indugio: un ufficiale fu inviato, con l'ordine pei due luogotenenti di Parmenione, di uccidere il loro generale: questi fu trucidato nei giardini del palazzo reale; i soldati non osarono ribellarsi contro ciò che si era perpetrato per ordine del re (Arriano, III, 27; Diodoro, XVII, 80; Plut., Alex., 48-49). A. aveva corso un grave pericolo: se il colpo non fosse riuscito, è impossibile prevedere che cosa sarebbe successo, data la potenza e il prestigio di cui godeva Parmenione presso l'esercito; l'avere egli provocata una tal crisi dimostra come fosse divenuta per lui insopportabile l'autorità e l'inframmettenza del suo generalissimo. Da questo momento la volontà di A. non ebbe più a soffrire limitazioni od opposizioni da parte di chicchessia. Malintesi e malcontenti continuarono, però, fra il re e i suoi Macedoni, specialmente a causa della pretesa, che A. avanzò di lì a poco tempo, di essere salutato anche dai Greci così come lo salutavano i sudditi orientali: col cerimoniale, cioè, del "bacio della terra" (προσκύνησις; v. adorazione). A. non riuscì mai a vedere appagato questo suo desiderio; ma di tal contrasto furono episodî dolorosi l'uccisione di Clito (amico a lui dilettissimo e comandante di uno dei due reggimenti di ἐταῖροι), ch'egli trafisse di sua mano, nell'ebbrezza di un banchetto, e la congiura promossa dal paggio Ermolao, e nella quale fu in qualche modo implicato anche il filosofo Callistene, che aveva seguito A. come storiografo di corte: tutti i colpevoli, o i presunti colpevoli, furono condannati a morte e giustiziati. I due fatti avvennero rispettivamente nella primavera del 328 e in quella del 327, quando A. si trovava nella Sogdiana, e dopo il suo ritorno a Bactra (Arriano, IV, 8 segg. e 13-14; Plut., Alex., 50 seg., 55).
Conquista dell'Īrān e spedizione in India. - La caduta di Persepoli e la morte di Dario segnavano la fine della missione che A. s'era assegnata, di fronte ai Greci e ai Macedoni: il regno di Persia e i suoi dinasti, i secolari nemici dell'ellenismo, non erano più. Gia da Ecbatana A. aveva rimandato indietro i contingenti federali, mantenendo soltanto in servizio i Greci come volontarî e mercenarì (Arriano, III, 19, 5 seg.; Plut., Alex., 42); anche i Macedoni consideravano la spedizione finita, e cominciarono per il re le difficolta di trascinarli più oltre (Diodoro, XVII, 74, 3). A. si considerò ora non più come avversario, ma come continuatore della monarchia persiana, e giudicò di dovere anzitutto punire coloro che avevano tradito e ucciso Dario, il suo nemico, è vero, ma anche il suo predecessore sul trono ch'egli ora occupava: in primo luogo Besso, che frattanto s'era fatto riconoscere re col nome di Artaserse, ritirandosi verso i confini orientali dello stato. Inseguendo Besso, A. attraversò e assoggettò l'Ircania (Khurāsān sett.); dové poi dirigersi a sud, per domare la sedizione di Satibarzane, satrapo di Areia: quivi fondò la città di Alessandria (Harāt). Attraverso la Drangiana (Afghānistān occidentale), nella cui capitale si svolse la catastrofe di Filota, e l'Aracosia (Afghānistān or.), giunse alla catena del Paropamiso o Caucaso indico (Hindukush), che l'esercito macedone superò con grandi difficoltà nella primavera del 329 (Curzio Rufo, VII, 4, 22 seg., descrive questo valico con tinte esagerate, che l'hanno fatto ravvicinare a quello alpino di Annibale). Besso fu alla fine raggiunto, nella Battriana, in vicinanza del fiume Osso (Amū Daryā); A. lo fece trasportare a Bactra, ove una corte di giustizia persiana lo condannò a morte, come reo di alto tradimento; la sentenza fu eseguita in Ecbatana (Arriano, III, 22-25; Plut., Alex., 48). Dopo aver assoggettata la Sogdiana e la regione dell'Iassarte (Sir Daryā), abitata dagl'indomiti Massageti (dove fondò Alessandria Eschata, oggi Khāgiand), ritornò a Bactra, ove passò l'inverno del 329-28; ma durante quella marcia, presso il fiume Politimeto, A. perdé, in uno scontro coi Massageti, ben 2000 uomini: la perdita più grave che l'esercito di A. abbia subita, nelle sue campagne d'Asia. Indi A. si trattenne in Maracanda (Samarcanda), per consolidare il suo dominio nella Sogdiana (episodio di Clito); il che fu compiuto dopo la morte del satrapo ribelle Spitamene. In una delle fortezze da lui espugnate, A. fece prigioniero il bactriano Ossiarte con la figlia Rossane, la quale egli fece sua sposa (Arriano, III, 28; IV, 22; Curzio Rufo, VII, 3; VIII, 4). Recatosi a Bactra (fine della primavera 327: congiura di Ermolao), A. affrettò i suoi preparativi per la spedizione nell'lndia.
Sull'India correvano fra i Greci notizie favolose, e non pochi episodî della loro mitologia si facevano svolgere in quella terra misteriosa e meravigliosa: là Prometeo sarebbe stato incatenato alla rupe, là sarebbero giunti, nelle loro spedizioni, Dioniso e quell'Eracle dal quale A. faceva discendere la propria origine. È naturale che A., anche se non fu mosso da impulsi mitologici di tale specie sentisse l'ambizione, più che naturale, di penetrare in quella regione, della quale si trovava ormai alle soglie: ed è forse superfluo discutere se A. riguardasse fin da allora questa impresa come un viaggio di esplorazione e di consolidamento dei confini del suo regno, deciso però a non trasportarli più lontano (Niese), o se egli fosse senz'altro mosso dalla gigantesca idea d'un impero mondiale, i cui confini dovessero coincidere con quelli dell'Ecumene (Kaerst, Pöhlmann). Certo è che la spedizione non presentava difficoltà militari notevoli, a causa soprattutto del grande frazionamento politico degl'Indiani e dei dissensi e delle lotte che li dividevano e li armavano gli uni contro gli altri. Con alcuni di quei principi A. già si trovava in relazione amichevole, come, ad esempio, col re di Tassila (Diodoro, XVII, 86, 4; Arriano, IV, 22, 6).
Lasciato nella Battriana Aminta con una forte guarnigione, A. valicò per la seconda volta il Paropamiso nell'estate del 327, conducendo seco un esercito di circa 40.000 uomini (la cifra di 120.000 uomini, data dalle fonti, è indubbiamente esagerata: v. Delbrück, Gesch. der Kriegskunst, I, 3ª ed., p. 219 segg.; Beloch, Griech. Geschichte, III, 11, 343), nel quale entravano ora per la prima volta in buon numero i contingenti forniti dai suoi nuovi sudditi orientali. Varcato l'Indo, nella primavera del 326, all'altezza del confluente del Kophen (Kābul), si fermò nello stato di Tassila, ben accolto da quel principe, per muovere di cui contro il comune nemico, Poro, re dei Paurava, il cui regno si estendeva ad oriente dell'Idaspe (Gelam). Passato il fiume, l'esercito di A. vinse in battaglia campale le truppe nemiche: lo stesso Poro cadde prigioniero del vincitore (Schubert, Die Porusschlacht, in Rhein. Mus., LVI, 1901, p. 543 segg.; Delbrück, op. cit., I, p. 220 segg.). A. lasciò il vinto a capo del suo regno e se ne fece un vassallo; sulle due rive dell'Idaspe furono fondate le due forti colonie di Bucefala e di Nicea (maggio 326). Dopo questa vittoria fu facile ad A. procedere oltre sino all'Ifasi (Satlege), coll'intenzione di spingersi di qui fino al mare orientale, attraverso l'ignoto e misterioso paese che allettava il suo orgoglio non meno che la sua fantasia. E nulla in realtà gli avrebbe ormai impedito di arrivare fin là; ma A. dové rinunziarve per l'opposizione passiva, ormai vicina a degenerare in aperta rivolta, del suo esercito, arrivato al massimo dell'esaurimento per gli strapazzi prodotti dal clima e dalle fatiche della guerra. E allora, eretti sulla riva del fiume dodici altari in segno di ringraziamento agli dei, prese la via del ritorno: all'idaspe trovò quasi pronta la flotta di cui aveva già ordinata la costruzione. Dopo avervi imbarcato una parte dell'esercito (ottobre 326), ridiscese il fiume e quindi l'Acesine (Cinab) e poi l'Indo sino alla foce, trovando difficoltà soprattutto nel vincere l'opposizione di carattere religioso dei Brāhmani. Anche in questa regione furono da lui fondate parecchie colonie e l'India conquistata venne divisa in tre satrapie. Da Pattala, alla foce dell'Indo, ove A. era arrivato nel luglio del 325, inviò una parte dell'esercito, al comando di Cratero, attraverso l'Aracosia (Afghānistān merid.), ad attenderlo nella Carmania (Persia di sud-est); egli stesso, col grosso, seguendo la via costiera della Gedrosia (Belūcistān), si ricongiunse con Cratero nel dicembre dello stesso anno: contemporaneamente la flotta, al comando del cretese Nearco, aveva navigato lungo le coste dell'Oceano Indiano, arrivando fin nell'interno del Golfo Persico. Durante l'inverno A. marciò col suo esercito attraverso la Perside: nel marzo del 324, dopo circa sei anni da che n'era partito, A. rientrava in Susa (Arriano, IV, 22; VI, 28; Diodoro, XVII, 84-106; Curzio Rufo, VIII, 9; X; 10; Plut., Alex., 57-67: v. anche, Arr., Hist. Indica).
Gli ultimi atti di governo e la morte. - Era tempo che il re riprendesse di persona le redini del potere; durante la sua lunga assenza, mancando, in certo modo, un potere centrale, satrapi e governatori avevano soddisfatto più ai proprî interessi e alle proprie voglie che a quelli del re e dello stato; specialmente i primi, i satrapi indigeni, avevano continuato a seguire, a danno dei proprî amministrati, i sistemi già in uso sotto la corte persiana; ma anche parecchi dei comandanti e funzionarî macedoni o, in genere, greci, ne avevano seguito l'esempio; Arpalo, ministro delle finanze, aveva fatto man bassa delle casse dello stato, ed ora, all'avvicinarsi di A., era fuggito ad Atene. Qua e là erano scoppiate rivolte tra i popoli di recente sottomessi (più grave di tutte quella della Bactriana), e, in Media, era perfino comparso un usurpatore (Bariasse); ma questi erano episodi prevedibili e non preoccupanti, di fronte alla crisi del sistema di governo, alla quale urgeva porre rimedio.
Dopo aver energicamente proceduto contro tutti i colpevoli, dopo avere, quasi dovunque, sostituito ai satrapi indigeni governatori macedoni, A. si accinse immediatamente all'attuazione di quel programma, ch'egli giudicava indispensabile al consolidamento del suo impero universale: la fusione del popolo vincitore coi popoli vinti. Egli stesso ne aveva dato l'esempio, sposando Rossane: una ripetizione più rilevante di questo fatto furono le pompose cerimonie nuziali di Susa (primavera 324), destinate a celebrare il matrimonio di A. con Statira, figlia di Dario, e con Parisatide, figlia di Ochos; mentre, contemporaneamente, ottanta dei migliori ufficiali macedoni si sposavano con altrettante nobili persiane. Anche l'esercito s'imbastardiva ogni giorno di più: accanto agli antichi reggimenti macedoni della guardia (gli ἐταῖροι) erano venuti a prender posto ora i nuovi contingenti persiani (30.000 giovani nobili persiani, fatti educare militarmente alla greca, chiamati Epigoni). Una gravissima rivolta di veterani macedoni, scoppiata in Opis, sul Tigri, nell'estate del 324, fece capire al re quanto fosse necessario procedere per tale via con estrema cautela (Arr., VII, 8, 11; Plut., Alex., 71; Diodoro, XVII, 109).
Frattanto era rapidamente progredita la trasformazione della monarchia in senso orientale, manifestantesi nella pompa di cui il re si era circondato, nel cerimoniale e nella burocrazia di corte, nella poligamia adottata da A., e soprattutto negli onori divini ch'egli reclamò per la sua persona o per la sua immagine, non solo dagli orientali (per gran parte dei quali - non però per i Persiani - erano abituali), ma anche dai Greci; e i Greci, se non si erano potuti adattare al "bacio della terra" (προσκύνησις), non esitarono ad innalzare a divinità il monarca macedone e, come a dio, a rendergli culto. (Su questo programma politico di A., vedi i principali giudizî dei moderni riassunti in Pöhlmann, Grundriss der griech. Geschichte, 5ª ed., 1914, § 147 segg.; e cfr. Beloch, Griech. Gesch., IV, 2ª edizione; I, p. 46 segg.).
Dopo aver sedato la rivolta dei veterani in Opis, A., seguendo la moda della corte persiana, si ritirò a passare l'estate nell'Alta Media. Ad Ecbatana, dette magnifiche feste con agoni musici e ginnastici; addolorato della morte dell'amico prediletto Efestione, e dopo aver condotto una spedizione contro il popolo montanaro dei Cossei, ritornò a Babilonia. Quivi lo aspettavano le legazioni venute da ogni parte della Grecia e dell'Occidente (anche dall'Italia), per salutarlo e per rassicurarlo che dovunque era stato ubbidito il suo decreto (letto solennemente nelle feste olimpiche del 324), che ordinava a tutti gli stati greci il richiamo degli esuli. A. si era frattanto deciso ad assoggettare l'Arabia, con lo scopo di porre in diretta comunicazione la Babilonia con l'Egitto: già esercito e flotta erano pronti ad entrare in campagna, quando il re, colto improvvisamente da violenta febbre, moriva, dopo dodici giorni di malattia, il 13 giugno del 323, non avendo ancora compiuto i 33 anni, e dopo quasi 13 anni di regno (Arriano, VII, 25; Plut., Alex., 75-76).
In questo breve periodo di tempo si compirono le gesta meravigliose, che aprirono un nuovo periodo nella storia dell'umanità e l'autore di esse ebbe dalla posterità il nome di Grande e fu annoverato nella schiera di quei pochissimi esseri che appaiono quali poderosi strumenti della provvidenza divina..
Egli vinse quattro delle più grandi e significative battaglie della storia dell'antichità (al Granico, ad Isso, ad Arbela, all'Idaspe), ciascuna delle quali preparava un nuovo orientamento nelle condizioni del mondo; portò i concetti spirituali dei Greci ai più lontani confini allora umanamente raggiungibili; aprì ai traffici e alle attività umane nuove e insperate; favorì la cultura, in tutte le sue manifestazioni. Bello della persona, prestante nelle membra, appassionato per tutti gli esercizî ginnici, spiritualmente colto, i Greci videro in lui l'ideale umano quale essi solevano raffigurarlo impersonato dal loro dio Dioniso. Del suo popolo e della sua schiatta A. aveva ereditato in alto grado le virtù e i vizî: coraggioso, sprezzante del pericolo, affabile, facile alle amicizie, generoso, fu, come il mitico suo avo Achille, subitaneo e violento, pronto a cedere alle più opposte passioni, all'ira come al dolore e al rimorso; ordinariamente temperato, non disdegnava di abbandonarsi, di quando in quando, insieme coi suoi ufficiali e coi suoi amici, agli eccessi del bere, nei banchetti protraentisi di solito per tutta la notte. Alle donne fu poco dedito, e piuttosto indulse all'amore pederastico, così diffuso allora presso tutti i Greci.
La critica moderna ha, in parte, seguito i giudizî e le valutazioni dell'antica, collocando A. tra gli uomini più altamente e largamente dotati, esaltando senza riserva la sua figura e le sue imprese (Droysen); in parte ha lavorato in modo da ricondurre la sua personalità ad un livello assai più vicino a quello di molti altri uomini intelligenti e fortunati che a quello dei pochissimi genî. Di queste critiche la più severa (Beloch) ha negato che le imprese compiute da A. richiedessero, per il suo autore, qualità eccezionali: dimostrando come la Macedonia e il suo esercito fossero già stati preparati, durante il regno di Filippo, a fornire gli uomini e gli strumenti adatti alla conquista dell'Asia, e come, d'altra parte, lo sfacelo politico e militare della Persia fosse progredito a tal segno ch'essa doveva, per forza, crollare, appena la Grecia, non più divisa, ma riunita (per opera di Filippo) e rivolta ad un solo scopo, si fosse proposta questo fine; facendo considerare come tutte le grandi vittorie di A. (ad eccezione di quella dell'Idaspe) furono opera e merito esclusivo di Parmenione; come, infine, nell'opera di organizzazione dell'impero da lui conquistato, A. non abbia dato alcun segno di originalità, se non nel tentativo, erroneo e fallito, della fusione del popolo greco col persiano.
Per parte nostra, aggiungeremo che, in qualunque modo si voglia giudicare questa grande figura della storia, si dovranno riconoscere ad A. le caratteristiche dell'"uom fatale", dell'uomo, cioè, che seppe o poté, con lo straordinario fascino emanante dalla sua persona, segnare e spianare la via agli eventi che si compirono in suo nome; sicché, se anche alcuni di coloro che operarono con lui e per lui gli furono superiori in determinati campi di attività, nessuno avrebbe potuto sostituirsi a lui nel raccogliere in sé l'opera di tutti, nel concludere il destino delle passate generazioni, nel preparare quello delle future.
Fonti: Quando A. morì, il ricordo di tutto quello che era avvenuto durante il suo regno era serbato da una quantità di documenti ufficiali, di relazioni e di esposizioni storiche contemporanee ai fatti; tutto materiale prezioso per ricostruire, nel suo complesso, la storia del periodo di Alessandro. Stavano al primo posto le effemeridi regie (βασίλειοι ἐϕημερίδες), giornale ufficiale della corte e dello stato, che presto si cominciò a redigere (seguendo, forse, un uso persiano) al quartier generale di A., dal cancelliere reale Eurmene di Cardia. Venivano poi i rapporti dei generali, degli ammiragli, degli alti funzionarî, intorno alle operazioni militari e alle spedizioni da loro condotte o dirette, anche a scopo scientifico. Infine erano già state redatte, o almeno preparate, esposizioni storiche, intorno ad una parte più o meno estesa degli eventi succeduti durante il regno di A.: tali quelle di Callistene, che aveva accompagnato il re come storico ufficiale e fu poi coinvolto nella congiura di Ermolao (v. a pag. 334); di Onesicrito di Egina, uno dei comandanti in seconda della spedizione di Nearco; di Tolomeo e di Aristobulo di Cassandria, le cui opere erano notevoli specialmente sotto l'aspetto militare; di Clitarco di Colofone, ecc.
Ma come i documenti ufficiali d'ogni specie andarono nella grandissima maggioranza perduti, così anche di tutte le opere storiche contemporanee o di poco posteriori ad A. non restano che scarsissimi frammenti: e pertanto le fonti antiche, alle quali possiamo oggi domandare un'esposizione continuata degli avvenimenti di questo periodo, sono tutte di età romana imperiale, cioè di un tempo in cui il materiale originale era stato ormai così elaborato che l'indagine delle fonti usate da questi autori più tardi, talora impossibile, conduce in ogni modo a risultati quasi sempre incerti e discutibili. Le opere storiche di cui noi possiamo usufruire sono le seguenti: il XVII libro della Storia universale (Biblioteca storica) di Diodoro Siculo; l'XI e il XII libro delle Historiae Philippicae di Pompeo Trogo, nell'estratto di Giustino; le Historiae Alexandri Magni Macedonis di Curzio Rufo; le due opere, Alexandri Anabasis e Hist. Indica, di Arriano di Nicomedia che, militare egli stesso, usò specialmente le fonti militari, come Tolomeo, Aristobulo, Nearco; la Vita di Alessandro di Plutarco, che ha però scelto ed elaborato il materiale storico con la mira di rappresentare soprattutto il carattere e le qualità morali del suo personaggio. I frammenti delle opere perdute sono raccolti da C. Müller nell'edizione Didot di Arriano (Scriptores rerum Alexandri Magni) e meglio ora da F. Jacoby, Die Fragmente der griech. Historiker, II B, Berlino 1927. I frammenti conservati delle lettere di Alessandro, in parte del resto apocrife o di dubbia autenticità, sono raccolte da E. Vridik, De Alexandri M. epistularum commercio, Dorpat 1893; le iscrizioni riferentisi al regno di Alessandro si trovano soprattutto nei volumi del Corpus Inscriptionum Atticarum e in quello delle isole dell'Egeo (XII delle Inscr. Graec.: Inscriptiones maris Aegaei); una scelta delle più notevoli in Dittenberger, Sylloge, 3ª ed., I, n. 272 segg.
Bibl.: Nella letteratura moderna possiamo cominciare dal riferirci al Droysen; il primo volume della sua Geschichte des Hellenismus (2ª ed., Gotha 1877) tratta appunto il periodo di A. Opere che abbracciano tutto il regno di Alessandro sono ancora quelle del Niese, Geschichte der griech. u. maked. Staaten seit der Schlacht bei Chaironeia, I, Gotha 1893; del Kaerst, Geschichte des hellenistischen Zeitalters, I, 3ª ed., Lipsia 1927; e articolo Alexandros, in Real-Encyclopädie di Pauly-Wissowa, I, col. 1412 segg.; del Beloch, Griech. Geschichte, III e IV, 2ª ed., Berlino-Lipsia 1922-27, con trattazioni esaurienti specialmente delle questioni cronologiche, statistiche, genealogiche. Opere scientifiche recenti su Alessandro Magno sono ancora: Th. Birt, Al. der Grosse u. das Weltgriechentum bis zum Erscheinen Jesu, 2ª ed., Lipsia 1924; H. Endres, Geographischer Horizont u. Politik bei Alex. d. Gr. in den Jahren 330-333, Würzburg 1924; Helmut Berve, Das Alexanderreich auf prosopographischer Grundlage (I, Darstellung; II, Prosopographie), Monaco 1926, da consultarsi anche per la letteratura moderna sui singoli personaggi del periodo (cfr., su A. nell'arte figurata, J. J. Bernoulli, Zur Ikonographie Alex. des Gr., Monaco 1925). Per la storia militare sono fondamentali: A. Janke, Auf Alex. d. Gr. Pfaden in Kleinasien, Berlino 1906; H. Delbrück, Geschichte der Kriegskunst, 3ª ed., I. Intorno alla spedizione nell'India possono consultarsi utilmente: Chr. Lassen, Indische Altertumskunde, II, 2ª ed.; Cunningham, Ancient Geography of India, Londra 1871; I; V. A. Smith, The early history of India, 3ª ed., Oxford 1914.
La leggenda di Alessandro.
Vivente ancora l'eroe, luminoso di giovinezza e di gloria, s'abbellirono le sue gesta di poetici bagliori; e l'antichità stessa compilò la storia romanzesca d'A., nel secondo secolo d. C., o nel terzo, attribuendola a Callistene, parente d'Aristotele, condiscepolo del re, compagno di lui nell'impresa asiatica, filosofo e storico; per conferire credibilità a un libro, che appunto non la merita. Fu questo il romanzo dello pseudo-Callistene, fortunatissimo in Occidente e in Oriente; del quale i Greci ebbero più redazioni, e che fu vòlto in varie lingue orientali (v. più oltre), e in latino due volte: innanzi al 300 d. C. da Giulio Valerio; nel sec. X, non molto prima del 969, da Leone arciprete. Della redazione di Giulio Valerio l'età di mezzo fece un'epitome; anzi, nel sec. XI, l'epitome della stessa epitome; mentre l'integro testo rende ancor più oscure le sue origini, dichiarandolo i manoscritti tratto non più da Callistene, ma ex Aesopo graeco. Altro problema. Nell'ombra è un po' anche Leone arciprete, la cui opera ebbe un più tardo titolo: Historia de praeliis. A. giunse al Medioevo come la più raggiante figura dell'antichità. Fonte principalissima il romanzo greco nei due testi latini. Fonti accessorie: le storie di Quinto Curzio, di Paolo Orosio, di Giustino, i trattati di Plinio e di Solino, per la duplice meraviglia dell'imprese guerresche e dell'esplorazioni e scoperte geografiche e naturali. S'aggiungano leggende giudaiche e cristiane, racconti greci, bizantini, orientali, attraverso gli Slavi o gli Arabi di Spagna. Contribuirono alla propagazione delle favole su A. pellegrini, crociati, mercanti, viaggiatori. Ma alle voci del romanzo contrastavano quelle della storia. E ci basti ricordare Gualtiero di Châtillon, che a principale fondamento del suo poema latino (Alexandreis) pose invece Quinto Curzio. A. fu così, nel Medioevo, eroe di due letterature: quella dei letterati e quella del popolo: in latino e nei volgari. Uno de' più vetusti cimelî dell'antica Francia è frammento appunto d'una canzone di gesta su Alessandro, scoperto in un codice laurenziano, a Firenze (cod. 35, plut. LXIV, sec. XII, ff. 115 v, 116 r), da Paul Heyse, poco dopo la metà del secolo passato. Le forme arcaiche della reliquia miracolosamente conservata fanno assegnare l'originaria composizione al secolo undecimo. Autore, secondo la citazione del rielaboratore tedesco, il parroco Lamprecht: Elberîch von Bisenzun, Alberico di Besanzone; mentre la lingua del frammento è franco-provenzale; onde ben s'appose forse chi pensò che Lamprecht intendesse per abbaglio Besanóon ov'era indicato Pisançon, località nel Delfinato, di dialetto franco-provenzale. Alberico introdusse ne' ritmi proprî dell'epopea francese un soggetto familiare ai clerici, con intento morale e religioso, pigliando le mosse dall'esordio salomonico: vanitas vanitatum et omnia vanitas. Un altro frammento, posteriore a quello d'Alberico, tratto anzi dalla canzone di lui, si stende in decasillabi, circa ottocento (mentre il frammento laurenziano conservò soli centocinque ottosillabi), secondo i due codici nei quali è rimasto: d'origine francese, forse del Poitou, l'uno, scritto verso il mezzo del Duecento, ora nella biblioteca parigina dell'arsenale; d'origine italiana l'altro, della prima metà del Trecento, possesso e pregio del Museo civico di Venezia. Ricco di vita e di poesia quest'altro frammento, di cui fu autore, chi badi alla seconda lassa del codice veneziano, tal clerico Simone; nome letto già nel Cinquecento, in altro codice ora perduto, dal celebre erudito francese Claudio Fauchet. Il poema di Simone stava di mezzo fra quello d'Alberico e l'altro, ch'ebbe più autori, principalmente Lambert le Tort e Alexandre de Bernai, così fecondi tutti insieme, che dalle loro penne fluirono venti migliaia di dodecasillabi, e così fortunati, che il loro immenso romanzo ciclico fu tra i prediletti dal Medioevo, come attesta il gran numero dei manoscritti che a noi ne pervennero, nonché l'altro fatto, che il verso da essi copiosamente consacrato alla storia poetica d'Alessandro si denominò da ora innanzi alessandrino (v.). Siamo all'ultimo terzo del secolo duodecimo. Da cent'anni i troveri d'oltr'Alpe rielaboravano la ricca e seducente leggenda, nella quale campeggia affascinante l'eroe, che a noi pure sembra in certo modo, dal seno dell'antichità, preludere al Medioevo avventuroso e cavalleresco. Il quale accolse poi l'eroe con l'entusiasmo della sua ignara semplicità, così remota ancora dalla critica della storia, impersonando in lui le migliori virtù vagheggiate nella ideale sua cavalleria, massime quella che già l'antica tradizione gli aveva attribuita, e che doveva più signorilmente adornare un principe, la liberalità: "mai sì generoso cavaliero sedette su palefreno", affermava uno dei troveri glorificanti la gesta d'Alessandro. E il rifacimento francese di tal gesta si continuò via via fin dentro al secolo decimoquinto, in versi alessandrini, e da ultimo in prosa. Dopo il grande romanzo cui s'è accennato, partito in quattro branches per opera di più poeti, ecco la Vengeance Alexandre (Vendetta d'A.), fantasticato vittima, per avvelenamento, di servi traditori, in due indipendenti poemi, di Gui de Cambrai l'uno, di Jean le Venelais, o le Nevelon, l'altro; ecco più tardi, in un episodio imaginario, attribuito alla meravigliosa incursione nel cuore dell'India, i Vøuv du Paon di Jacques de Longuyon, dove, come sempre, nella materia attinta all'antichità il Medioevo rappresenta solamente sé stesso, idee, gusti, istituzioni, costumanze. Tra le ultime correva codesta appunto, quando in conviti solenni recavasi, vivanda prelibata, il pavone del far su questo voti e vanti di compiere imprese cavallerescamente sbalorditive. E non basta, ché il fortunatissimo poema di Jacques ebbe due continuazioni nel corso del secolo stesso decimoquarto: il Ressor du Paon di Jean Brisebarre e il Parfait du Paon di Jean de la Mote. Schiusero tutti codesti poemi alla giovine fantasia del Medioevo, nelle lontananze favolose d'un oriente ideale, meraviglie, prodigi, magie, reggie abbaglianti, fauna e flora sorprendenti, cinocefali, sirene, amazzoni, fanciulle nell'anima dei fiori, emergenti a primavera, ed altro ancora, come il viaggio fino alle soglie del paradiso; il volo aereo sul plaustro dei grifoni; l'immersione fino agli abissi del mare entro a una vitrea campana; un insieme portentoso, confluito nella stessa leggenda antica d'Alessandro, dall'età di mezzo accolto, vagheggiato, assimilato, amplificato. Fin qui s'è detto della varia elaborazione francese della leggenda, ma le eccelse qualità e imprese dell'eroe magnanimo e avventuroso riescirono universalmente proverbiali, e splendettero quasi in ogni letteratura, o accennate, o narrativamente riesposte. Venne più sopra ricordato, a proposito del poema d'Alberico, il prete Lamprecht: questi, nel secolo decimosecondo rifece, valendosi anche di altre fonti, la canzone di gesta franco-provenzale. Siamo così in Germania; e basti soggiungere ch'ebbe in essa la storia poetica d'Alessandro lo svolgimento più ragguardevole dopo quello ottenuto in Francia, per quanto i cantori tedeschi abbiano spesso ricalcate le orme francesi. Alla divulgazione della gloria d'A. concorsero poeticamente anche la Spagna, come la Scandinavia, l'Olanda e l'Inghilterra, come la Boemia e, tanto più oltre, la Russia. Poemi, prose, tradizioni orali dovunque. Né l'Italia rimase indifferente all'universale celebrazione del favoleggiato signore del mondo. Brunetto Latini, Dino Compagni, quale poeta della Intelligenza, Dante, Fazio degli Uberti, Federico Frezzi mostrano d'aver familiari storia e leggenda d'A., le quali, dal secolo decimoterzo al decimosesto, offersero a qualche nostro anche materia d'interi poemi in latino e in volgare. Ma di tra il ciclo italiano delle rielaborazioni alessandrine una prosa emerge, e del migliore Trecento: i Nobili fatti di Alessandro Magno; la quale prosa non risale a poemi francesi, bensì a una fonte, ch'è quasi a dire di casa nostra: alla traduzione del falso Callistene fatta, si diceva sopra, da Leone arciprete, e larghissimamente nota e sfruttata, in tutto il Medioevo, come Historia de praeliis. La quale invece fu altrove raccomandata agli stessi poemi francesi, in modo che talvolta si raccostassero e fondessero le due tradizioni, la dotta e la popolare, come, ad esempio, in Ispagna nel Libro de Alexandre e in Germania nell'Alexandreis d'Ulrich von Eschenbach. Così, per l'una via o per l'altra, per l'irradiarsi della dottrina o per il divulgarsi dell'universale poesia francese, o ancora per il convergere e cooperare delle due influenze, il gran re, giovinezza apollinea vittoriosa, dominatrice del tempo e dello spazio, seguitò a signoreggiare le genti nella realtà immortale della cultura e della fantasia.
Bibl.: Enorme la bibliografia riguardante la leggenda d'Alessandro Magno, sopra la quale ferve sempre il lavoro erudito e analitico. Un'opera d'insieme ebbe l'Italia, impari all'assunto: D. Carraroli, La leggenda di Aless. Magno, Torino 1892. Basti qualche indicazione: C. Müller, Pseudo-Callisthenes, nel volume Didot contenente Arriani Anabasis et Indica etc. (ed. Dübner), Parigi 1846; Meusel, Pseudocallisthenes, Lipsia 1871; Ausfeld, Der griechische Alexanderroman, ed. W. Kroll, Lipsia 1907; Hist. Al. Magni, I, Recensio vetusta, ed. W. Kroll, Berlino 1926; Iulius Valerius, Res gestae Alexandri Macedonis transl. ex Aesopo Graeco, ed. Kuebler, Lipsia 1888; Zacher, I. Valeri Epitome, Halle 1867; Landgraf, Die Vita Alex. Magni des Archipresb. Leo (Hist. de praeliis), Erlangen 1885; Pfister, Der Alexanderroman des Archipresb. Leo, Heidelberg 1913 (Hilka, Samml. mittelalt. Texte, 6); C. Giordano, Alexandreis, poema di Gautier da Châtillon, Napoli 1917; Michelant, Li Romans d'Alix. par Lambert li Tors et Alex. de Bernay, Stoccarda 1846; P. Meyer, Alex. le Grand dans la littérature fr. du moyen-âge, Parigi 1886, 2 voll. (opera classica e fondamentale); Schultz-Gora, Die Vengeance Alixandre von Jehan le Nevelon, Berlino 1902; Hilka, Der altfranz. Prosa-Alexanderroman, ecc., nella Festschrift für C. Appel ecc., Halle 1920; A. Thomas, Jacques de Longuyon, nell'Hist. litt. de la France, XXXVI, p. 1 segg. (per il poema sui Voeux du Paon, p. 5 segg.); J. Brisebarre, come autore del Restor du Paon, ivi, p. 38 segg.; J. de la Mote, poeta del Parfait du Paon, ivi, p. 74 segg.; ecc. Tra le scritture più recenti, interessante quella di G. L. Hamilton, Quelques notes sur l'histoire de la légende d'Alex. le Grand en Angleterre au moyen-âge (Mélanges Thomas, Parigi 1927, p. 195 segg.) ove s'intende mostrare come la rielaborazione inglese della leggenda sia proceduta indipendentemente da immediate influenze francesi.
La leggenda di A. nelle letterature orientali. - La memoria storica delle imprese di A. non ha avuto in Oriente quella vitalità che sarebbe ovvio aspettarsi: l'invasione dell'India, che l'Occidente salutò come la più audace e la più mirabile tra le sue gesta, non ha, strano a dirsi, lasciato alcuna traccia di sé nella storiografia indiana; la tradizione indigena persiana, fissatasi nell'epoca dei Sāsānidi, serba un ricordo confuso del gran re che distrusse l'indipendenza nazionale iranica (come, del resto, sono molto confuse e monche le notizie che la stessa tradizione ci dà degli Achemenidi). Quel poco di attendibile che la storiografia araba riferisce di A. è attinto a fonti greche. Nel giudaismo non andò perduto il ricordo del conquistatore macedone che sottrasse gli Ebrei al dominio persiano, sostituendogli quello greco, sostituzione la quale, peraltro, parve ad essi, e fu in realtà, un cambiamento in peggio: l'introduzione del primo libro dei Maccabei (I, 5) riassume brevissimamente, ma con sufficiente esattezza, il corso della vita di A., che "giunse alle estremità della terra" e "di fronte al quale la terra fu pacificata". Tuttavia già in Giuseppe Flavio la tradizione storica appare contaminata con la leggenda, formatasi a maggior gloria del sacerdozio di Gerusalemme, dinnanzi al quale il conquistatore, avvertito da una visione di origine divina, si sarebbe presentato con segni di onore e di riverenza (Antiq. Jud., XI, 8, 5). Questa leggenda si è introdotta, con ulteriori abbellimenti, nel Talmud (Yōmā, 77 b).
Quanto scarse e monche le notizie autentiche, altrettanto abbondante è stata la diffusione della leggenda di A. in tutto l'Oriente. Essa trae la sua origine dal romanzo dello pseudo-Callistene, la più antica traduzione orientale del quale è quella siriaca (edita da A. E. W. Budge, The History of Alexander the Great, Cambridge 1889), che il Nöldeke (v. Bibl.) ritiene essere stata fatta non direttamente sull'originale greco, bensì su una versione pahlavi (medio-persiana) di questo, e non essere posteriore al principio del sec. VI. Lo pseudo-Callistene siriaco è stato a sua volta la fonte da cui sono derivate tutte le altre versioni orientali della leggenda di A.: in essa è specialmente da notarsi lo sviluppo assunto dal racconto intorno alla discesa di A. nel mondo sotterraneo alla ricerca della fonte della vita (col tratto caratteristico del pesce morto che, sfuggito di mano al cuoco di A. e caduto nell'acqua di vita, guizza via risuscitato, indicando così il luogo della fonte cercata, luogo che tuttavia il cuoco non è poi più capace di ritrovare, onde il viaggio risulta vano) e da quello intorno alla grande muraglia costruita da A. per contenere l'impeto dei popoli selvaggi Gog e Magog (v.). Quest'ultimo racconto è stato largamente sfruttato dalla letteratura escatologica, essendo l'apparizione di Gog e Magog uno dei segni premonitori della fine del mondo secondo la credenza concorde di ebrei, cristiani e musulmani; nella letteratura siriaca esso si ripresenta in forma di poemetto od omelia metrica (attribuita, forse erroneamente, allo scrittore monofisita Giacomo di Sarūgh) in cui Gog e Magog sono identificati con gli Unni, che invasero la Siria nel 514-15 (ultima edizione quella di C. Hunnius, in Zeitschr. d. deutschen morgenl. Gesellsch., LX, 1906). Ancora più vasta è stata la fortuna del racconto della fonte di vita, specialmente nel mondo musulmano, che l'accolse con tanto maggior favore in quanto che lo trovava corrispondente a un racconto del Corano (XVIII, 59 segg.), nel quale tuttavia l'eroe della discesa nel mondo sotterraneo non è A., bensì, stranamente, Mosè, e il cuoco è sostituito da un misterioso personaggio intorno al quale si è poi fissato il mito complesso e rigoglioso del Khaḍir (v.). Senza dubbio il passo coranico dipende dalla leggenda di A., ma Maometto, o la sua fonte, deve essere caduto in equivoco intorno al nome del protagonista, per cause a noi ancora ignote (si potrebbe pensare a una falsa interpretazione dell'epiteto Dhū'l-qarnain "il bicorne" (v. sotto), che sarebbe stato riferito a Mosè, anch'egli fornito, secondo la notizia biblica accolta e sviluppata dalla tradizione posteriore, di due corna luminose). Alla tradizione musulmana posteriore non sfuggì l'identità sostanziale del racconto del Corano e di quello della leggenda di A., che ben presto era stata tradotta dal siriaco in arabo, e si sforzò di conciliarli; del resto lo stesso Corano, poco dopo il racconto della fonte di vita (XVIII, 82 segg.), accenna a un altro episodio della leggenda di A., quello dell'andata al paradiso terrestre (il quale episodio sembra risalire ad antiche tradizioni babilonesi riferite nel poema di Gilgamesh che hanno avuto, come è noto, una larghissima diffusione indipendente dalla leggenda di A.), ed ivi dà ad A. il nome di Dhū'l-qarnain "il bicorne", che sembra esser dovuto alla rappresentazione di A. in figura di Giove Ammone, ornato di due corna di ariete (si noti tuttavia che la tradizione occidentale della leggenda non conosce questo epiteto). Di sui dati coranici, peraltro molto magri e oscuri, e valendosi largamente dello pseudo-Callistene siriaco, la letteratura araba ha costituito un'elaborata leggenda di A., che troviamo riprodotta con varianti più o meno notevoli così nei compendî di storia universale come nei commenti al Corano e in quelle particolari opere chiamate qiṣaṣ al-anbiyā' (storie dei profeti) ove le leggende degli antichi profeti cui il Corano spessissimo accenna vengono diffusamente raccontate col sussidio di elementi di svariata origine. In questo complicato processo di elaborazione sono probabilmente entrati anche alcuni dati forniti dalla tradizione pahlavica (v. sopra), entro la quale la leggenda di A. continuò a vivere e a svilupparsi. Fonti arabe e fonti pahlaviche confluirono poi, nel sec. X., nel grande poema epico di Firdūsī (v.), il "Libro dei re", nel quale la leggenda è inserita nel racconto, intessuto di storia e di favola, delle antiche dinastie persiane: il grande guerriero vi compare in veste di pio sovrano, preoccupato più della salvezza dell'anima e della divulgazione della pietà che non dei beni terreni; è anzi addirittura designato come cristiano! Così si compie il processo di trasformazione in senso religioso della figura di A., che già si era iniziato nell'elaborazione siriaca dello pseudo-Callistene; siffatta trasformazione domina in modo assoluto nelle varie elaborazioni della leggenda di A. che la letteratura persiana posteriore a Firdūsī ha prodotte per opera di alcuni dei suoi più grandi poeti, principali fra esse quelle di Niẓāmī (sec. XII) e di Giāmī (sec. XV), entrambe intitolate, come le altre produzioni analoghe, Iskander Nāmeh "libro di Alessandro": vi si nota, specialmente nell'opera di Niẓāmī, una spiccata tendenza mistica, cui porgono il destro di manifestarsi così i racconti della fonte di vita e del paradiso terrestre come i colloquî del re coi saggi dell'India.
Si è già detto che dalla redazione siriaca dipendono, più o meno direttamente, tutte le versioni della leggenda di A. che si trovano nelle varie letterature orientali, quella armena (ed. R. Raabe, Lipsia 1896), da cui dipende la georgiana, quella copta e quella etiopica (ed. A. E. W. Budge, Londra 1896), che ci è nota in varie recensioni risalenti tutte a modelli arabi. Le versioni turche, indiane e malesi (tutte in molteplici recensioni) hanno per modelli immediati questo o quello dei rifacimenti persiani. Anche il giudaismo ha accolto, sia frammentariamente in forma di aneddoti staccati, sia nel suo insieme in forma di racconto continuo, la leggenda di A., probabilmente attingendola anch'esso alla versione siriaca dello pseudo-Callistene, per quanto la presenza di alcuni elementi di essa nel Talmud debba far ammettere anche una derivazione dal romanzo greco, indipendente dal tramite siriaco (cfr. I. Lévi, La légende d'Alexandre dans le Talmud et le Midrach, in Revue des Études Juives, 1881 e 1883).
Si è già visto sopra come le elaborazioni orientali della leggenda di A. abbiano a lor volta influito sulle vicende della stessa leggenda in Occidente.
Bibl.: Spiegel, Die Alexandersage bei den Orientalen, Lipsia 1851; Th. Nöldeke, Beiträge zur Geschichte des Alexanderromans, in Denkschriften dell'Accademia di Vienna, XXXVIII (1890); I. Friedländer, Die Chadirlegende und der Alexanderroman, Lipsia 1913.