Alessandro Magno e i diadochi
La figura di Alessandro Magno (356 - 323 a.C., re di Macedonia dal 336 a.C.) assume in M. un certo valore esemplare, quale corrispettivo monarchico dell’antica repubblica che seppe coniugare libertà e impero: Roma. Il paragone deriva da Tito Livio, che affronta la disputa sulla superiorità tra Roma e Alessandro per stabilire una gerarchia tra le due forme di Stato. M. si concentra invece sulle virtù militari di Alessandro, esaltandone le doti eccelse di comandante, che gli permisero di diventare padrone di «tutto l’oriente». Queste straordinarie virtù, tra le quali viene evidenziata l’abilità oratoria necessaria al «capitano», rendono Alessandro accostabile al profilo ideale del principe, che non deve «prendere cosa alcuna per sua arte fuora della guerra». Nel xiv capitolo del Principe, come nel finale dell’Arte della guerra, emerge la figura di Alessandro quale comandante esemplare a cui ogni principe dovrebbe ispirarsi, allo stesso modo in cui egli imitava Achille e Cesare imitava lo stesso Alessandro. L’ammirazione si spinge fino al punto che il parallelo con il condottiero romano, riproposto sulla scia di Plutarco, è giocato solo in funzione della genialità militare, mentre il giudizio politico su Cesare, altrove accusato di avere «guastato» Roma istituendo il principato (Discorsi I x), è neutralizzato. Secondo questa prospettiva, M. mostra come sia Roma sia Alessandro adottassero ordini militari simili divenendo modelli per quel genere di guerra che si fa, non per mantenere, ma per ampliare il dominio (Discorsi II viii). È qui che riemerge, sul versante della conquista, l’opzione politico-ideologica repubblicana, laddove si compara ancora una volta la grandezza macedone a quella romana (Discorsi I xx). Se «due continove successioni di principi virtuosi sono sufficienti ad acquistare il mondo: come furono Filippo di Macedonia ed Alessandro Magno», a maggior ragione ciò potrà accadere in una repubblica, che attraverso «liberi suffragi » può «eleggere non solamente due successioni ma infiniti principi virtuosissimi che sono l’uno dell’altro successori: la quale virtuosa successione fia sempre in ogni republica bene ordinata».
L’inferiorità del modello monarchico si dimostra fatalmente proprio alla morte di Alessandro, quando i suoi successori, i diadochi, entrando in conflitto fra loro provocano la frammentazione dell’impero – e M. poteva leggere di ciò in Giustino (→). Dallo studio del caso, M. si induce ad aprire una distinzione all’interno dal genere monocratico di governo. Il fatto che «el regno di Dario, il quale da Alessandro fu occupato, non si ribellò da’ sua successori dopo la morte di Alessandro», si spiega considerando che esistono due tipi di principati: «o per uno principe e tutti li altri servi», o «per uno principe e per baroni». Si tratta della riproposizione della categoria aristotelica del dispotismo orientale, che M. ritrova modernamente nella «monarchia del Turco». Tali dispotismi sono difficili da vincere, ma dopo la conquista è facile mantenere in soggezione popoli abituati a servire. Perciò «rimase ad Alessandro quello stato sicuro […]. E’ sua successori, se fussino stati uniti, se lo potevano godere oziosi: né in quello regno nacquono altri tumulti che quelli che loro propri suscitorno» (Principe iv).
Bibliografia: G. Sasso, Machiavelli e i detrattori, antichi e nuovi, di Roma, in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 1° vol., Milano-Napoli 1987, pp. 401-536; E. Raimondi, La retorica del guerriero, in Id., Politica e commedia, Bologna 19952, pp. 145-62; G. Scichilone, Machiavelli e “la monarchia del Turco”, in Dispotismo. Genesi e sviluppi di un concetto filosofico-politico, a cura di D. Felice, Napoli 2002, pp. 95-126.