Manzoni, Alessandro
Alessandro Manzoni nacque a Milano nel 1785 dalla figlia di Cesare Beccaria, Giulia, moglie presto separata del ricco possidente Pietro Manzoni. Dopo un decennio trascorso in collegio dai padri somaschi e dai Barnabiti (1791-1801), il giovane si formò intellettualmente e culturalmente prima a Milano e poi a Parigi, dove nel 1805 raggiunse la madre, rimasta sola dopo la morte del compagno, il conte Carlo Imbonati. Poté così frequentare gli idéologues francesi e avviare la corrispondenza con lo storico Claude Fauriel, suo interlocutore anche per questioni linguistiche e letterarie.
Al suo apprendistato letterario appartengono alcuni esperimenti poetici: il poemetto Il trionfo della libertà, ispirato dalla repressione della rivoluzione napoletana del 1799; l’ode Qual sulle cinzie cime; l’idillio Adda, dedicato a Vincenzo ➔ Monti; i quattro Sermoni, ascrivibili al genere satirico; il carme In morte di Carlo Imbonati; il poemetto Urania.
Del 1810 è l’evento fondamentale nel suo percorso umano e spirituale, la conversione al cattolicesimo, a cui aderisce anche la prima moglie, la giovane calvinista Enrichetta Blondel, poi madre dei suoi nove figli. Rientrato a Milano, tra il 1812 e il 1815, scrisse i primi quattro inni sacri (La Risurrezione, Il Nome di Maria, Il Natale, La Passione), mentre il quinto, La Pentecoste, ebbe un’elaborazione più lunga (1817-1822). Pubblicate nel 1819 le Osservazioni sulla morale cattolica (poi in nuova edizione nel 1855), si dedicò alla stesura delle due tragedie di argomento storico: Il Conte di Carmagnola (1820) e Adelchi, pubblicato nel 1822 con il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia (poi riedito nel 1847).
Già a partire dal 1821 (l’anno delle odi Il Cinque maggio e Marzo 1821) Manzoni aveva tuttavia iniziato il suo «sliricamento», tentando la via di un romanzo «mezzo storico e mezzo fantastico» (Manzoni 2000-2005: vol. 19°, p. 233-234; ➔ Ottocento, lingua dell’). Con l’inizio della stesura del Fermo e Lucia, terminato nel settembre 1823 ma non pubblicato, il problema di una lingua «viva e vera» gli si presenta in tutta la sua complessità. Da questo momento la ricerca linguistica, correlata alla sua riflessione teorica, è incessante e va di pari passo con la riscrittura del romanzo, approfondendo e precisando via via due principi «che restano fondamentali, quello dell’unità linguistica per tutta la nazione al di sopra e contro le particolarità dialettali e quello dell’uso in quanto realtà parlata e scritta» (Vitale 1990: 14). Del 1827, subito dopo l’uscita della prima edizione dei Promessi Sposi (la cosiddetta Ventisettana), è l’esperienza del primo soggiorno in Toscana e a Firenze a determinare la sua soluzione teorica e la revisione linguistica del romanzo. Dopo il nuovo matrimonio con Teresa Borri nel 1837, Manzoni intensifica la capillare correzione dell’opera, e tra il 1840 e il 1842 pubblica a dispense, con le illustrazioni del Gonin, la seconda e definitiva edizione dei Promessi Sposi (la Quarantana), con in appendice la Storia della colonna infame.
Nel 1850 lo scrittore dette voce pubblica al suo ‘sistema’ circa la questione linguistica, pubblicando nelle Opere varie la lettera a Giacinto Carena Sulla lingua italiana (scritta nel 1847), insieme ad altri scritti di argomento filosofico e letterario (il dialogo Dell’invenzione, il discorso Del romanzo storico, e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione). Manzoni soggiornò ancora in Toscana nel 1852, nel 1856 (iniziando con Gino Capponi un Saggio di vocabolario italiano secondo l’uso di Firenze) e nel 1864. Nel 1863 iniziò la stesura di un’opera storiografica sulla Rivoluzione francese, rimasta incompiuta. Nel 1868-69 intervenne ancora pubblicamente e ufficialmente sulle questioni linguistiche, con la relazione inviata al ministro Emilio Broglio Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla e con altri scritti. Tra il 1872 e il 1873 lavorò a un ultimo saggio storico, Dell’indipendenza dell’Italia, anch’esso interrotto. Per le conseguenze di un incidente occorsogli nel gennaio, Manzoni morì a Milano il 22 maggio 1873.
La produzione poetica di Manzoni, pur presentando tratti di vivace sperimentalismo, si mantiene sostanzialmente fedele alla ‘grammatica’ della poesia, utilizzando il collaudato inventario di suoni e forme della tradizione lirica (Serianni 2009).
La poesia giovanile antecedente la conversione (1801-1809) è dominata dal gusto neoclassico, elaborata retoricamente e ricca di aulicismi, ➔ latinismi e ➔ arcaismi nel lessico (come l’ultrice / fiamma, il divo sdegno, d’invido morso) e nella sintassi, dove abbondano inversioni e iperbati forti:
Dura è pel giusto solitario, il credi,
dura, e pur troppo disegual, la guerra
contra i perversi affratellati e molti
(In morte di Carlo Imbonati, vv. 132-134)
Il distacco dai canoni neoclassici è segnato dagli Inni sacri, percorsi da una forte concitazione emotiva nella celebrazione dei temi religiosi, e caratterizzati da una pluralità di voci, secondo il progetto manzoniano di un’epica religiosa corale. Le forme metriche sono più facili e cantabili, le strofe sono spesso chiuse da rime tronche, ossitone o in consonante («Egli è desso, il Redentor»: La Risurrezione, v. 35). Il lessico è sempre elevato (pondo ascoso «peso nascosto», polve «polvere», Ande algenti «gelide», altor «nutritore», bamboli «bimbi», ecc.), ma è fortemente ridotto l’armamentario di riferimenti mitologici e classicheggianti; abbondano invece le espressioni e le immagini di matrice biblica o liturgica (come Madre de’ santi, città superna, Chiesa del Dio vivente). La sintassi è più discorsiva, con frequenti parallelismi e coordinazione per asindeto, punteggiata da esclamazioni e da ➔ interrogative dirette, caratteristiche che culminano nella Pentecoste:
dov’eri mai? Qual angolo
ti raccogliea nascente (vv. 11-15)
Perché, baciando i pargoli,
la schiava ancor sospira?
e il sen che nutre i liberi
invidiando mira?
Non sa che al regno i miseri
seco il Signor solleva?
che a tutti i figli d’Eva
nel suo dolor pensò? (vv. 65-72)
La lingua delle tragedie, esperimento di un teatro storico e cristiano che innova i canoni drammaturgici classici, è caratterizzata dall’impasto a volte dissonante tra registri lessicali elevati (arcaismi, ➔ cultismi e latinismi di matrice alfieriana) e forme talora più colloquiali e prosastiche. Ispirati a uno stile alto e linguisticamente sostenuto sono i cori: nel Carmagnola, la condanna della guerra fratricida, in strofe di martellanti decasillabi («S’ode a destra uno squillo di tromba»); nell’Adelchi, il coro del III atto, in strofe di cantabili dodecasillabi, dedicato allo scontro tra Longobardi e Franchi che si contendono il suolo italiano, mentre «un volgo disperso che nome non ha» assiste impotente. Di tono elegiaco il coro del IV atto, che commenta la morte della infelice Ermengarda «santa del suo patir», destinata a salvarsi per la «provida sventura» che l’ha collocata «in fra gli oppressi»; dopo l’incipit classicamente imperniato sugli aggettivi reggenti gli accusativi di relazione:
Sparsa le trecce morbide
su l’affannoso petto,
lenta le palme, e rorida
di morte il bianco aspetto
si alternano piani temporali diversi della vita di Ermengarda, con passaggi scanditi dall’uso dei tempi verbali al presente e al passato della memoria, mentre si infittisce l’uso di latinismi (claustri «chiostri», redir «tornare», repente «subito», cespite «cespuglio», calami «steli», albor «alba», diverte «svia», ascende «sale», orbate «private») e di iuncturae aggettivo-nome (tremolo / guardo, gelida / fronte, man leggiera, pupilla cerula, ansia / mente, terrestri ardori, candido / pensier, insonni tenebre, ecc.).
Il coro è in strofe settenarie doppie, come l’ode Cinque maggio, composta nel luglio 1821 (l’anno in cui Manzoni scrisse anche l’altra ode politica, Marzo 1821, pubblicata solo nel 1848), potente sintesi della vicenda umana di Napoleone nel momento della morte, che circolò manoscritta per la severa censura austriaca ma fu tradotta in tedesco da Goethe nel 1822. La sintassi è rapida e spezzata, a cominciare dal celebre incipit («Ei fu»), con frequenti anafore e parallelismi; al prevalere dei tempi verbali che si inseguono nelle prime strofe, riproducendo l’inarrestabile susseguirsi delle gesta del condottiero, subentra il «ricordo dei dì che furono», introdotto da un registro più sommesso fatto di una sintassi nominale e dall’iterazione di e iniziale:
e ripensò le mobili
tende, e i percossi valli,
e il lampo de’ manipoli
e l’onda de’ cavalli,
e il concitato imperio,
e il celere ubbidir (vv. 79-83).
Avviato nel 1821 il progetto di un romanzo storico e pedagogico di ispirazione cristiana, con protagonisti di estrazione umile e popolare, Manzoni è costretto a fare i conti con nuove esigenze espressive. L’italiano della prosa coeva, ancorato ai modelli del ➔ purismo e del ➔ classicismo, gli appare del tutto inadeguato, come inadeguato giudica l’ibridismo linguistico della prima minuta, il Fermo e Lucia, conclusa nel 1823 e non pubblicata.
La scarsa omogeneità è data soprattutto dall’innesto sul fondo toscano letterario di una forte componente regionale lombarda, spesso introdotta intenzionalmente dallo scrittore per caratterizzare l’ambiente o i personaggi («tu mi hai voluto fare un tiro da nimico … ma, la ti è venuta busa»; Manzoni 1971: 406; cfr. milan. andà busa «andare buca, andare male»). I lombardismi vengono frequentemente segnalati con glosse o note esplicative dall’autore («“Che pensare? Mi si è coperta la vista” rispose Fermo; un Toscano avrebbe detto: non vedo più lume»: ivi, p. 28; cfr. milan. quattass la vista) (Matarrese 1977; Mambretti 1983).
Dopo il 1824 Manzoni avvia una nuova stesura del romanzo, attuando una radicale ristrutturazione compositiva e sforzandosi di realizzare una maggiore uniformità linguistica. La sua ricerca espressiva è fondata sul toscano della tradizione letteraria e sull’eliminazione di molti regionalismi lombardi, soprattutto quelli privi di concordanza col toscano. Si tratta della fase da lui stesso definita «lingua toscano-milanese», perché lo scrittore si sforza di trovare le corrispondenze o le differenze tra la lingua toscana della tradizione, che per lui rappresentava la base di lingua comune esistente in Italia, e la sua lingua milanese. Il processo di avvicinamento al toscano parte dalle due lingue vive a lui note, il milanese e il francese, ed è realizzato a tavolino, anzitutto con l’ausilio dei vocabolari: il Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini (1a ed. Milano 1814), il Grand Dictionnaire français-italien di Francesco d’Alberti di Villanuova (Milano 1826), e la 4a edizione del Vocabolario della Crusca (nell’edizione uscita a Verona dal 1806 al 1811 a cura del purista Antonio Cesari), da Manzoni fittamente postillata e integrata (Manzoni 2000-2005: vol. 24°). Inoltre Manzoni fa ampi spogli di autori toscani, soprattutto della tradizione comica e popolare cinque-secentesca, in cui cerca voci e modi di espressività viva e colloquiale.
Ma il risultato ottenuto per via libresca, con la sopravvivenza di molte forme lombarde (in più casi concordanti col toscano) e la commistione di forme toscane ormai disusate, non soddisfa ancora lo scrittore. Appena uscita nel 1827 la prima edizione dei Promessi sposi, in tre tomi presso l’editore milanese Ferrario, Manzoni già pensa a un nuovo intervento sulla lingua del romanzo: il viaggio a Firenze e l’immersione nel fiorentino parlato lo convincono che la fonte a cui rifarsi devono essere non i libri, ma la lingua di una società reale di parlanti. Egli cerca di apprendere con insistenza, con liste di vocaboli e modi di dire milanesi e francesi, l’uso toscano vivo da amici e conoscenti fiorentini; a Cioni e a Niccolini chiede di rivedere il romanzo, e di correggere e integrare il vocabolario di Cherubini soprattutto nelle corrispondenze italiane. Attraverso una intensa meditazione linguistica, Manzoni perviene alla convinzione che solo il ricorso all’uso vivo fiorentino non vernacolare, di cui una parte, il fiorentino letterario, rappresentava quel che c’era già di lingua comune, poteva essere la via per l’unificazione linguistica sulla base di una lingua ‘intera’ e viva, così come in Francia il dialetto di Parigi era diventato la lingua nazionale. Questa convinzione lo guida, nell’arco di un decennio, alla sistematica correzione linguistica dei Promessi sposi per la nuova e definitiva edizione del 1840, secondo alcune precise direttrici (Vitale 19922): l’eliminazione di lombardismi (come un zucchero → uno zucchero; inzigasse → aizzasse; tosa → ragazza); l’introduzione di fiorentinismi vivi (come gioco invece di giuoco, move invece di muove – ma restano cuore, buono, uomo, ecc. –; e ancora io aveva → io avevo; guance → gote; burlare → far celia); l’abbassamento del tono letterario e l’introduzione di forme più correnti (come giugnendo → giungendo; cangiando → cambiando; veggio → vedo; ponno → possono; egli, ella → lui, lei; che cosa? → cosa?; pargoli → bambini; mi corco → mi metto a letto; guatare → guardare; picciolo → piccolo); la riduzione dei ‘doppioni’ linguistici, ritenuti dannosi per l’unità linguistica, mediante uniformazione (anche dove esisteva un’oscillazione nel fiorentino coevo: Serianni 1989): fra / tra → tra; domandare / dimandare → domandare.
Lo sforzo principale non è però tanto quello di dare una veste fiorentineggiante al romanzo, quanto piuttosto di dargli una fisionomia linguistica più moderna e usuale, sostituendo le forme troppo letterarie con quelle più correnti negli usi scritti ottocenteschi. Tale drastica riduzione dei tratti più letterari è evidente anche negli altri scritti manzoniani posteriori al 1840 (in cui si può osservare, ad es., l’eliminazione di forme come fuora, dinotare, picciolo, eglino, ponno), contrassegnando anche la revisione linguistica delle tragedie, ripubblicate nel 1845, sia per le prefazioni in prosa sia per i versi (ad es., seco lui → con lui; fia → sia; anche un lombardismo presente nell’Adelchi è eliminato: ginocchioni → in ginocchio; cfr. Vitale 2000) e la correzione delle Osservazioni sulla Morale cattolica nella nuova stampa del 1855 (Mencacci 1989; Bruni 1999: 59-101). Rispetto al romanzo, dopo il 1840 si fa invece più consistente nella scrittura di Manzoni l’impiego di tratti fiorentini, con maggiore evidenza negli scritti linguistici, per la loro funzione ‘esemplare’ nei confronti della sua teoria fiorentinista (scola, novo, ecc.). Anche le varie stesure di opere incompiute mostrano questa scelta: per es., la terza e ultima redazione della Rivoluzione francese rispetto alle redazioni precedenti «presenta una lingua di stretta osservanza fiorentina, secondo la precettistica diffusa dalla Relazione (1868) e dalla Appendice alla Relazione (1869)» (Danzi, in Manzoni 2000-2005: vol. 15°, p. 322).
La «portata totalizzante» delle scelte linguistiche manzoniane è confermata dalla sua scrittura epistolare privata, che rivela nella sua evoluzione una precoce tendenza all’uniformazione grammaticale e un adeguamento alla fonologia del fiorentino vivo soprattutto dopo la metà degli anni ’40, ma che in generale «si radica nell’imitazione dell’uso corrente colto panitaliano più che del fiorentino coevo» (Savini 2002: 333). Fra i tratti più innovativi della lingua manzoniana va sicuramente indicato l’assorbimento nella sintassi del romanzo dei modi dell’oralità, che pervadono fin dalla prima minuta sia i dialoghi sia il narrato (Sabatini 1987; Testa 1997: 19-57): le costruzioni marcate, gli anacoluti e i cambi di progetto, la frammentazione del discorso, le esclamazioni, fino al linguaggio dei gesti, che accompagna o sostituisce la parola dei personaggi (Cartago 2005: 133 segg.).
La dialogicità travalica d’altra parte la lingua del romanzo e costituisce uno dei tratti più tipici della scrittura di Manzoni: Nencioni (1993), analizzando non solo i molteplici registri linguistici e stilistici della prosa d’arte manzoniana, ma tutta la gamma delle prose argomentative di carattere filosofico, storico, critico, ha sottolineato la maggiore stabilità e la precoce novità dell’orditura sintattica rispetto alle tendenze evolutive della grammatica e del lessico. Nella sintassi Manzoni attua «un rinnovamento avvivante» fin dalla prima Morale cattolica (1819), a conferma che
il suo stampo mentale era già pervenuto a piena e ferma maturità in quel tendere alla struttura logica e progressiva cui avevano contribuito le sue letture illuministiche francesi e che conferiva al suo discorso una speditezza comunicativa nuova alla tradizione italiana (Nencioni 1993: 371).
Tendenze che si intensificano nella seconda edizione dell’opera (1855), dove le «movenze inclini al parlato» di una prosa filosofica che «non vuole scostarsi dalla lingua comune» e l’«andamento discorsivo apparentemente facile, in realtà sorvegliatissimo» ne fanno un «frutto solitario» nel panorama italiano ottocentesco (Bruni 1999: 99).
Il pensiero linguistico manzoniano è documentato in scritti in massima parte rimasti inediti, raccolti in tre tomi dell’Edizione nazionale ed europea delle sue opere (Manzoni 2000-2005: vol. 18°/1-2), più un volume di scritti editi (ibid.: vol. 19°). La lunga e inesausta riflessione parte dai suoi personali «travagli […] di scrittore non toscano» (Manzoni 2000-2005: vol. 27°, p. 233) allargandosi progressivamente alla ➔ questione della lingua italiana e alla sua soluzione nazionale e unitaria. La sua concezione sincronica, viva e parlata della lingua emerge precocemente fin dalla lettera in italiano a Fauriel da Parigi del 9 febbraio 1806, dove notava la distanza in Italia tra la lingua parlata e la lingua scritta, che poteva definirsi «quasi lingua morta».
Il primo scritto di argomento linguistico è però un appunto riguardante la polemica settecentesca tra Branda e Parini, in cui si avvertono gli echi della polemica tra classicisti e romantici intorno al dialetto insorta a Milano nel 1816: lo scrittore, che pur condivideva con i romantici l’idea di dialetto come lingua vera e d’uso, considera «dannoso» l’impiego dei «dialetti particolari» per la diffusione di una lingua comune. All’epoca della prima stesura del romanzo inizia la vera riflessione sulla lingua: scrivendo a Fauriel (lettera del 3 novembre 1821), Manzoni esprime le difficoltà di uno scrittore italiano nello scrivere un romanzo di storia e d’invenzione per la povertà della lingua italiana, prevalentemente scritta e pochissimo parlata, mentre uno scrittore francese può impiegare una lingua d’uso vivo, senza dover consultare alcun vocabolario e con la certezza di maneggiare uno strumento noto sia a lui sia al lettore.
Concluso il Fermo e Lucia, nel settembre 1823, stendendo una seconda introduzione, egli è consapevole dei difetti del suo «composto indigesto»: «Scrivo male a mio dispetto; e se conoscessi il modo di scriver bene, non lascerei certo di porlo in opra». Prende atto che la questione della lingua non è solo di natura individuale e letteraria ma che, in presenza di «molte lingue particolari a diverse parti d’Italia», è fondamentale accordarsi sull’«universale o quasi universale uso d’una lingua comune». Dopo la conclusione del Fermo, Manzoni avviò anche un libro sulle questioni linguistiche (1823-24) che poi distrusse: sopravvivono solo alcuni frammenti contenenti anche spogli di autori toscani (intitolati dagli editori Frammenti di un libro ‘d’avanzo’: cfr. Manzoni 1983), che documentano la maturazione del suo pensiero linguistico e il convincimento, alla base del rifacimento del romanzo, «di una possibile confluenza del dialetto milanese nel corrispondente toscano» (Vitale 1990: 85). Alla fase della «lingua toscano-milanese» appartiene anche un altro scritto frammentario, che è stato intitolato Modi di dire irregolari (1825-26), dove Manzoni legittima alcune «violazioni» alla norma grammaticale giustificate dall’uso e dal bisogno («nominativo assoluto», «concordanza di senso», «pronome ripetuto»), impiegate anche nei dialoghi dei Promessi sposi: si fa strada ormai nel pensiero manzoniano l’esigenza di definire con chiarezza che cosa sia l’uso. Alla fine del 1827, dopo il viaggio a Firenze, egli avvia la sua «verifica dell’uso toscano» (Manzoni 2000-2005: vol. 18/2, pp. 71-138), e in due lettere al purista Antonio Cesari fa riferimento all’uso vivo e parlato di Firenze e di Toscana. La concezione della lingua come uso vivente e sincronico si precisa ancora in due minute di una lettera a Niccolò ➔ Tommaseo (1830), in cui lo scrittore giustifica la scelta del toscano vivo, la lingua più nota «in tutta Italia».
Ormai Manzoni è pervenuto a principi generali ben definiti, quali «l’oralità, la socialità, la sincronia del fatto linguistico» (Vitale 1990: 224), anche attraverso un intenso studio della filosofia del linguaggio sette-ottocentesca, soprattutto francese (Bruni 1999; Dardano 1987); per sistemare in modo più articolato la sua riflessione egli avvia un ampio trattato Della lingua italiana, rielaborato in cinque diverse redazioni per circa tre decenni e rimasto incompiuto. Già nella seconda stesura (1834-35), confutando il «sistema» del Cesari e del purismo, Manzoni supera il personale problema linguistico di scrittore e delinea invece l’idea di lingua come fatto sociale e come problema per la nazione. Improntato ai principi generali circa l’idea di lingua è anche un altro importante scritto incompiuto e inedito, il Sentir Messa (1835-36), anche se originato da un fatto occasionale, cioè la critica che il grammatico piemontese Michele Ponza aveva mosso alla locuzione sentir Messa, giudicata un dialettismo, impiegata da Tommaso Grossi nel suo romanzo Marco Visconti (1834). La replica manzoniana, sottolineando la maggior diffusione di sentir messa nell’uso coevo rispetto a udir messa, si estende a un’ampia riflessione sul carattere dell’uso linguistico e sulla sua interpretazione nei vari «sistemi» teorici – in particolare quelli di Melchiorre ➔ Cesarotti e di Vincenzo ➔ Monti – sistemi tutti orientati a «un fine non sociale, ma letterario». Manzoni invece, ribadendo la sua concezione sincronica, parlata e sociale della lingua, asserisce perentoriamente che «l’Uso toscano d’oggidì avrà a essere, qual ch’ei pur sia, l’Uso della lingua d’Italia», poiché come dialetto era «una lingua vera, reale, formata, vivente» e a differenza degli altri dialetti aveva la caratteristica d’«esser stato riconosciuto e adottato dall’Italia», ossia d’aver già realizzato quel tanto di unità linguistica esistente in Italia.
Solo nel 1850 lo scrittore rese pubbliche le sue idee, pubblicando il primo scritto linguistico: la Lettera al Sig. Cavaliere Consigliere Giacinto Carena, scritta nel 1847. Manzoni lodava l’opera del lessicografo piemontese, che aveva realizzato un Prontuario metodico (cioè ordinato non alfabeticamente ma per materia) di vocaboli di arti e mestieri, di cose domestiche e di uso comune, raccolti ‘sul campo’ a Firenze e in tutta la Toscana: si trattava infatti di settori, da sempre trascurati dalla tradizione letteraria e dalla lessicografia, dove vigoreggiavano tanti diversi nomi locali (➔ geosinonimi). Tuttavia egli disapprovava il criterio troppo estensivo del Carena nella raccolta delle voci, e proclamava perentoriamente, ai fini dell’unità linguistica, la sua scelta esclusiva dell’«uso vivente di Firenze» perché convinto «che la lingua italiana è in Firenze, come la lingua latina era in Roma, come la francese è in Parigi».
Dopo l’unificazione politica, diventata Firenze capitale, Manzoni tornò a esprimere pubblicamente il suo pensiero, questa volta in via ufficiale come presidente della commissione incaricata dal ministro della Pubblica Istruzione Emilio Broglio di proporre «tutti i provvedimenti e i modi coi quali si possa aiutare a rendere più universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona pronunzia». Elaborò in soli quaranta giorni la Relazione Dell’Unità della lingua e dei mezzi di diffonderla (Stella 2010) che indirizzò al ministro nel marzo 1868 (➔ scuola e lingua). Lo scritto, pubblicato sulla rivista milanese «Perseveranza» e sulla fiorentina «Nuova Antologia», ribadiva la necessità di adottare il fiorentino vivo non vernacolare, che in gran parte era già stato reso comune dalla lingua letteraria, per sostituire ai vari dialetti una lingua unitaria che ne facesse le funzioni. I mezzi per la diffusione del fiorentino come lingua unitaria erano individuati nella politica educativa e scolastica, e in primo luogo nella compilazione di uno strumento del tutto nuovo per l’Italia: un vocabolario non fondato sui modelli letterari ma sull’uso vivo di Firenze. Il vocabolario (il Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze che sarebbe uscito dal 1870 al 1897, ad opera di Giorgini, genero di Manzoni, e di Broglio) sarebbe servito anche a fornire le corrispondenze vive e uniformi ai vocabolari dei vari dialetti, da realizzarsi per offrire ai dialettofoni un efficace mezzo di apprendimento della lingua comune. Sempre nel 1868 Manzoni pubblicò altri due scritti in forma di lettera indirizzati a Ruggero Bonghi, direttore della «Perseveranza»: la Lettera intorno al libro «De vulgari eloquio di Dante Alighieri», in cui intendeva dimostrare la finalità esclusivamente stilistica del trattatello dantesco («perché in esso non si parla di lingua italiana né punto né poco»); e la Lettera intorno al Vocabolario, dove riaffermava la necessità, perché «l’Italia possa acquistare una lingua comune di fatto», di compilare un vocabolario formato sull’esclusivo uso di Firenze e non sui vari parlari della Toscana. Nel 1869 Manzoni fece seguire alla Relazione una lunga Appendice, corredata di un saggio comparativo del Dizionario dell’Accademia francese col Vocabolario della Crusca, dove riconfermava con forza le sue idee linguistiche e ripercorreva la propria esperienza autobiografica di scrittore.
L’ultimo scritto linguistico manzoniano è la Lettera al marchese Alfonso della Valle di Casanova del 1871 (edita postuma da Luigi Morandi nel 1874). In essa lo scrittore, ringraziando Della Valle per il giudizio favorevole dato sulla seconda edizione dei Promessi sposi, attribuiva il merito delle «fattezze più schiette e naturali» della Quarantana a «un tutt’altro e ben altro autore, voglio dire a un popolo […] correttore della mia cantafavola», e chiudeva con il richiamo all’uso vivo fiorentino come «unico mezzo» per ottenere l’«importantissimo e desideratissimo scopo dell’unità della lingua»; parole che ribadivano l’appassionato appello conclusivo dell’Appendice: «Sia lecito sperare che l’unità della lingua in Italia possa essere un’utopia come è stata quella dell’unità d’Italia». A trasformare la «bella utopia» in una realtà, in modi diversi da come li immaginava Manzoni, concorsero poi molti altri fattori (De Mauro 1963), ma di importanza fondamentale era il progetto manzoniano che nella Relazione poneva la scuola e gli insegnanti al centro del processo di unificazione e diffusione dell’italiano, con l’avvio di un’editoria scolastica specializzata («Abbecedarii, catechismi e primi libri di lettura, scritti o almeno riveduti da Toscani, sempre colla mira di cercare la diffusione della lingua viva»; Manzoni 2000-2005: vol. 19°, p. 78).
Ancora più importante fu la svolta verso la modernità dell’italiano innescata dalla prassi scrittoria di Manzoni (➔ manzonismi), che, nella sua costante tensione verso una lingua più corrente e usuale, era riuscito, come riconosceva anche il principale oppositore delle sue teorie, Graziadio Isaia ➔ Ascoli (cfr. Dardano 2010) «a estirpar dalle lettere italiane, o dal cervello dell’Italia, l’antichissimo cancro della retorica» (Ascoli 2008: 30).
Ascoli, Graziadio Isaia (2008), Scritti sulla questione della lingua, a cura di C. Grassi, con un saggio di G. Lucchini, Torino, Einaudi.
Manzoni, Alessandro (1953-1970), Tutte le opere, a cura di A. Chiari & F. Ghisalberti, Milano, Mondadori, 7 voll., vol. 1º (Poesie e tragedie), 1957; vol. 3º (Opere morali e filosofiche), 1963; vol. 4º (Saggi storici e politici), 1963; vol. 7º/1-3 (Lettere), 1970.
Manzoni, Alessandro (1965), Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di R. Amerio, Milano - Napoli, Ricciardi, 3 voll.
Manzoni, Alessandro (1971), I promessi sposi, a cura di L. Caretti, Torino, Einaudi, 2 voll.
Manzoni, Alessandro (1983), Frammenti di un libro d’avanzo, a cura di A. Stella & L. Danzi, Pavia, Università - Dipartimento della scienza della letteratura.
Manzoni, Alessandro (1990), Opere, a cura di M. Vitale, Torino, UTET, 3 voll., vol. 3° (Scritte linguistiche).
Manzoni, Alessandro (1996), Le tragedie, a cura di G. Tellini, Roma, Salerno Editrice.
Manzoni, Alessandro (2000-2005), Edizione nazionale ed europea delle opere, Milano, Centro nazionale studi manzoniani, 2000-, vol. 15° (La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859, Dell’indipendenza dell’Italia, a cura di L. Danzi), 2000; vol. 18°/1-2 (Scritti linguistici inediti, a cura di A. Stella & M. Vitale), 2000; vol. 19º (Scritti linguistici editi, a cura di A. Stella & M. Vitale), 2001; vol. 24º (Postille al vocabolario della Crusca nell’edizione veronese, a cura di D. Isella), 2005; vol. 27º (Carteggio Alessandro Manzoni - Claude Fauriel, a cura di I. Botta), 2000.
Manzoni, Alessandro (2006), Fermo e Lucia. Prima minuta, 1821-1823, in Id., I Promessi sposi, a cura di B. Colli, P. Italia & G. Raboni, Milano, Casa del Manzoni, 2 voll., vol. 1º (Testo), vol. 2º (Apparati).
Bruni, Francesco (1999), Prosa e narrativa dell’Ottocento. Sette studi, Firenze, Cesati.
Cartago, Gabriella (2005), Lingua letteraria, delle arti e degli artisti, Firenze, Cesati.
Dardano, Maurizio (1987), Manzoni e i grammariens philosophes, in Manzoni “L’eterno lavoro” 1987, pp. 177-215.
Dardano, Maurizio (2010), La lingua di G.I. Ascoli, in Graziadio Isaia Ascoli 2010, pp. 411-430.
De Mauro, Tullio (1963), Storia linguistica dell’Italia unita, Bari, Laterza.
Graziadio Isaia Ascoli (2010), Atti del Convegno nel centenario della morte di Graziadio Isaia Ascoli (Roma, Accademia dei Lincei, 7-8 marzo 2007), Roma, Scienze e lettere.
Mambretti, Silvana (1983), Aspetti linguistici della componente milanese del “Fermo e Lucia”, in Studi di lingua e letteratura lombarda offerti a Maurizio Vitale, Pisa, Giardini, 2 voll., vol. 2º, pp. 746- 763.
Manzoni “L’eterno lavoro” (1987). Atti del Congresso internazionale sui problemi della lingua e del dialetto nell’opera e negli studi del Manzoni (Milano, 6-9 novembre 1985), Milano, Centro Nazionale Studi Manzoniani.
Matarrese, Tina (1977), Lombardismi e toscanismi nel “Fermo e Lucia”, «Giornale storico della letteratura italiana» 154, pp. 380-427.
Mencacci, Osvaldo (1989), Le correzioni alle “Osservazioni sulla morale cattolica” di A. Manzoni. Confronto tra le due edizioni del 1819 e 1855, Perugia, Università italiana per stranieri.
Nencioni, Giovanni (1993), La lingua di Manzoni. Avviamento alle prose manzoniane, in Storia della lingua italiana, a cura di F. Bruni, Bologna, il Mulino.
Sabatini, Francesco (1987), Questioni di lingua e non di stile. Considerazioni a distanza sulla morfosintassi nei “Promessi Sposi”, in Manzoni “L’eterno lavoro” 1987, pp. 157-176.
Savini, Andrea (2002), “Scriver le lettere come si parla”. Sondaggio sulla lingua dell’epistolario manzoniano (1803-1873), Milano, Centro nazionale Studi Manzoniani.
Serianni, Luca (1989), Saggi di storia linguistica italiana, Napoli, Morano.
Serianni, Luca (2009), La lingua poetica italiana. Grammatica e testi, Roma, Carocci.
Stella, Angelo (1999), Il piano di Lucia. Manzoni e altre voci lombarde, Firenze, Cesati.
Stella, Angelo (2010), Appendice manzoniana al “Proemio”, in Graziadio Isaia Ascoli 2010, pp. 243- 308.
Testa, Enrico (1997), Lo stile semplice. Discorso e romanzo, Torino, Einaudi.
Vitale, Maurizio (1990), Introduzione, in Manzoni 1990.
Vitale, Maurizio (19922), La lingua di Alessandro Manzoni. Giudizi della critica ottocentesca sulla prima e seconda edizione dei Promessi sposi e le tendenze della prassi correttoria manzoniana, Milano, Cisalpino (1a ed. 1986).
Vitale, Maurizio (2000), Le correzioni linguistiche alle tragedie manzoniane, in Studi di letteratura italiana in onore di Francesco Mattesini, a cura di E. Elli & G. Langella, Milano, Vita e Pensiero, pp. 127-140.