Manzoni, Alessandro
Scrittore, nato a Milano nel 1785 e ivi morto nel 1873. La pluridecennale frequentazione manzoniana di M. lascia le sue prime tracce all’altezza delle due tragedie, ispirate entrambe alla storia nazionale: Il conte di Carmagnola (1820) e l’Adelchi (1822). Ma è nel Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in Italia, pubblicato insieme all’Adelchi e riproposto nel 1847, che Manzoni cita espressamente M. e si confronta con il suo modo di fare storia. Manzoni è assillato dal problema del rapporto fra conquistatori e conquistati nei due secoli del dominio longobardo. Scrivendo a Claude Fauriel il 17 ottobre 1820, egli osserva come per la maggior parte degli storici italiani, da M. a Carlo Denina e oltre, il rapporto fra Romani e Longobardi si sia incanalato sui binari della reciproca fusione. È un parere che Manzoni non condivide, sebbene ammetta la propria incompleta conoscenza di quell’età. Ben altro lo spazio dedicato al problema nel Discorso. Una tesi, scrive Manzoni, rimbalza da M. agli storici successivi, ed è quella che «i Longobardi e gl’Italiani formassero un popolo solo» prima ancora della conquista di Carlo Magno. Ed è di M. un corollario destinato a prolungarsi nel tempo: l’avvenuta unificazione avrebbe avuto conseguenze benefiche tanto per l’un popolo, quanto per l’altro. Su entrambi i punti Manzoni dissente, opponendo ai suoi predecessori due tesi interconnesse: quella di una persistente divisione fra i due popoli e quella della subalternità degli «Italiani», ai quali sarebbe mancata un’effettiva parità con i conquistatori. A cosa si deve l’errore di M. e degli storiografi posteriori? Secondo Manzoni, all’avere applicato alla storia del passato criteri tipici dei propri tempi, all’aver assunto come metro di giudizio le aspirazioni unitarie che li animavano, lasciandosi fuorviare, nel valutare l’età longobarda, dal loro stesso amor di patria.
Un ulteriore errore Manzoni rimprovera al Segretario fiorentino. M. è forse, fra i moderni, il primo a cercare in un passato lontano le cause dei grandi avvenimenti storici. Ebbene, tale metodo può condurre a «scoperte grandiose» ma anche, se applicato in maniera impropria ed esclusiva, ad altrettanto «grandiosi» fraintendimenti (Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in Italia, in Tutte le opere, a cura di A. Chiari, F. Ghisalberti, 4° vol., 1963, p. 247). È quanto accade a M. nell’analizzare le ragioni del rapido crollo, a opera di Carlo Magno, del dominio longobardo in Italia. Di una sconfitta avvenuta nell’8° sec. si additano le cause in eventi localizzati duecento anni prima: l’uccisione, nel 6° sec., di Clefi, la mancata elezione di un altro re e la lunga gestione del potere da parte di trenta duchi, cosa che avrebbe provocato discordie intestine e una minore capacità espansiva e combattiva. Troppo remota quella causa; troppi e troppo diversi eventi si snodano fra quell’episodio e la sconfitta longobarda, commenta Manzoni, che, per parte sua, imputa tale sconfitta all’eccessiva autonomia goduta dai duchi longobardi, inevitabile portatrice di disunione e debolezza.
La menzione forse più nota del Segretario fiorentino è quella che s’incontra nelle pagine dei Promessi sposi dedicate alla biblioteca di don Ferrante. La descrizione di quest’ultima accompagna l’intera storia del capolavoro manzoniano, dal Fermo e Lucia alla redazione definitiva. Già nel Fermo (1821-1823) i molti libri di don Valeriano – è il primo nome di don Ferrante – sono sottoposti a un vaglio nel quale il registro ironico gioca una parte di primo piano, funzionale com’è alla critica di una cultura incapace, nel suo vacuo enciclopedismo, di distinguere il nuovo dal vecchio, l’attendibile dall’inattendibile, l’importante dall’irrilevante. Appartengono, i libri in questione, a diverse discipline, che sono poi quelle care alla media cultura del secolo in cui è inscritta la fabula: si va dall’astrologia alla magia, dalla storia alla politica alla cavalleria. In sede di politica, le preferenze di don Valeriano si distribuiscono fra pochi autori. Sul fronte della «politica positiva» egli opta per le opere di Giovanni Botero, sul fronte della «politica speculativa» per quelle di M. (Fermo e Lucia, in Tutte le opere, cit., 2° vol., t. 3, 1954, p. 497); ma a quest’ultimo capiterà di vedersi declassato, e surrogato nella prima posizione, dal modesto Valeriano Castiglione (1593-1663), sul quale il possessore di quei libri si produce in un elogio sperticato. Inutile evidenziare la coloritura ironica di tali scelte, coerenti con l’acritico articolarsi delle conoscenze di don Valeriano. Fra M. e Botero corrono differenze profonde; e quanto a Valeriano Castiglione, il primato assegnatogli stride con l’effettiva pochezza del personaggio, poligrafo seicentesco imparagonabile al Segretario fiorentino.
Nei Promessi sposi del 1827 la pagina ricordata conosce qualche variazione. Botero e M. figurano nuovamente ai vertici, ancorché don Ferrante non sappia, fra il primo e il secondo, a chi attribuire lo scranno più alto. Tale giudizio non è però definitivo; né va esente da qualche riserva. La caratterizzazione dei due è infatti affidata a un gioco di avversative che, opponendo ai pregi di entrambi i rispettivi limiti, mette capo a un profilo come sdoppiato, nel quale risuona l’ironia dell’autore nei confronti di una cultura incapace di misurarsi adeguatamente con il pensiero politico della modernità. Cosicché a M. è assegnata l’etichetta – rimasta famosa – di «birbo sì, [...] ma profondo»; e simmetricamente Botero è trattato da «galantuomo sì, [...] ma acuto» (I promessi sposi, in Tutte le opere, cit., 2° vol., t. 2, 1954, p. 475). Immoderato e senza riserve è, invece, l’amore per quel personaggio già impropriamente esaltato nel Fermo; una volta apparso lo Statista regnante (1628) di Castiglione, don Ferrante trasferisce il primato a quest’ultimo, scrittore con il quale, nonostante la loro grandezza, gli altri due non reggerebbero il confronto. L’ultima edizione del romanzo (1840-1842) non prevede mutamenti significativi, tale non essendo il passaggio di M. da «birbo» a «mariolo». Ne risulta definitivamente consacrato il quadro di una cultura oziosa, dilettantesca, incapace di distinguere; quadro attraverso il quale l’autore, all’insegna di una censura tanto più efficace quanto meno esibita, dipinge lo scenario intellettuale di tutta un’età.
I promessi sposi appartengono a un preciso sotto-genere, quello del romanzo storico, introdotto in Europa dallo scrittore scozzese Walter Scott. La strenua riflessione manzoniana sul sottogenere in questione metterà capo, di lì a pochi anni, al saggio Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione (1850). Sul romanzo storico la condanna di Manzoni non ammette appelli; e a motivarla è la falsificazione della storia che un prodotto del genere, dove il dato storico si coniuga con l’invenzione dell’autore, inevitabilmente implicherebbe. Il ragionamento finisce per coinvolgere anche la storiografia e, fra gli storici, il Segretario fiorentino. Agli storici antichi bastava, il più delle volte, il criterio della verosimiglianza: verosimili, e non vere, sono, per es., le parlate che essi mettono in bocca ai personaggichiamati in scena. È una procedura praticata anche da M., rileva Manzoni. Il suo essere un osservatore attentissimo e profondo non gli impedisce, nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, di riprendere dallo storico latino le parole di questo o quel personaggio, e persino la descrizione dei moti dell’anima.È il segno, afferma l’autore, di uno scarso rispetto di M. per il vero storico. Eppure per chi, come lui, intende dedurre i suoi insegnamenti dai fatti, la verità di questi ultimi dovrebbe essere «una condizione preliminare, non solo importante, ma indispensabile» (Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione, in Tutte le opere, cit., 5° vol., t. 3, 1991, p. 340).
Di M. l’autore del saggio sul romanzo storico non nega la grandezza. Ma è facile constatare che il riconoscimento è contrappuntato da precise riserve, e che tali riserve non riguardano soltanto il mediocre rispetto, nella storiografia machiavelliana, del dato oggettivo. Personaggio eminente M., quando però non promuova a «regola suprema de’ suoi giudizi e de’ suoi consigli l’utilità» (Del romanzo storico, cit., p. 340): non c’è infatti intelletto umano che, attenendosi a una regola del genere, possa andare al fondo delle cose.
Sull’importanza conferita da M. alla categoria dell’utile Manzoni tornerà di lì a pochi anni. Quando, nel 1855, dà alle stampe la seconda edizione delle Osservazioni sulla morale cattolica, egli aggiunge al terzo capitolo un’ampia appendice dal titolo Del sistema che fonda la morale sull’utilità: obiettivo polemico, le filosofie utilitariste (in ispecie quella di Jeremy Bentham). La nota dedicata al significato dell’utile nell’opera sua è la più estesa e approfondita ricognizione che Manzoni abbia dedicato a Machiavelli. Ebbe questi l’increscioso destino di dare il proprio nome non soltanto alla dottrina che identifica nell’utilità il metro di giudizio dei comportamenti umani, ma anche alla variante più deplorevole di tale dottrina: quella che ammette, al fine di conseguire l’utile, il ricorso alla perfidia e finanche allacrudeltà. È un destino immeritato, che si fonda su un giudizio perpetuatosi nel tempo, ma vero soltanto in parte. M., precisa Manzoni, non promuove l’ingiustizia a unico strumento atto a conseguire il proprio vantaggio; e nemmeno a strumento principale. Certo, egli non esita a celebrare l’utile, ma per conseguirlo non addita a chi legge un solo itinerario. Il principio a cui si ispira è che si debba essere giusti o ingiusti a seconda delle circostanze; né manca di mostrare la propria preferenza per la giustizia, se è vero che quando loda e consiglia quest’ultima sa essere non soltanto «sottile», come nel caso alternativo, ma anche «eloquente e qualche volta affettuoso» (Osservazioni sulla morale cattolica, in Tutte le opere, cit., 3° vol., 1963, p. 244). È una visione quasi romantica di M., personaggio nel quale alloggerebbero, in una difficile coabitazione, inclinazioni di segno opposto.
Errano, continua Manzoni, coloro che additano delle massime inique soltanto nel Principe, e che le spiegano con il proposito, che sarebbe alla radice di quell’opera, di fornire ai governanti cattivi suggerimenti al fine di procurarne la rovina. Sarebbe una strana maniera di giustificare l’autore quella di attribuirgli, oltre all’enunciazione di princìpi perversi, una calcolata volontà di nuocere. Né è vero che l’elogio dell’ingiustizia risuoni soltanto nel Principe. Si percorrano le pagine dei Discorsi, scrive Manzoni, e se ne troveranno attestazioni altrettanto significative. Se l’autore, nel terzo libro dell’opera, mostra con l’esempio soprattutto di Scipione quanto possa essere utile la pratica dell’umanità, della pietà, della castità, della liberalità, quello stesso autore passa subito dopo a mostrare la pari efficacia dei princìpi contrari. L’essersi comportato diversamente da Scipione procurò ad Annibale, nella sua calata in Italia, i medesimi risultati, cosa che dimostrerebbe come entrambi i tipi di condotta abbiano i loro vantaggi e i loro inconvenienti. Poco importa come il condottiero si regoli; molto conta invece, per l’autore dei Discorsi, che il suo comportamento sia radicato in una virtù fuori dell’ordinario. Dove, si preoccupa di precisare Manzoni, «virtù» ha un significato che occorre intendere correttamente: quello di «abilità» associata a «forza d’animo» (Osservazioni sulla morale cattolica, cit., p. 246), ben lontano dall’accezione cristiana del termine.
L’ultimo capoverso della lunga nota disegna un ritratto bipartito di M., da una parte elogiato come un grande ingegno, dall’altra riprovato per l’inaccettabile mescolanza, all’interno dei suoi scritti, di princìpi contraddittori. Nascerebbe, l’accennata mescolanza, da un errore preliminare: l’indebita collocazione dell’utilità al sommo della scala dei valori, nel posto spettante alla giustizia. È sulle doti migliori di M. che si chiude il ragionamento; ed è sul rammarico che quelle doti non si siano potute manifestare se non a intermittenza, nei luoghi dove la giustizia è interpretata nel modo esatto. Di «quanti consigli nobilmente avveduti», di «quanti umani e generosi intenti» si fregiano le pagine di M. in quei luoghi! E di quanta «unità» si sarebbe arricchita la sua riflessione se il principio della giustizia vi avesse goduto di uno stabile primato, evitando di intrecciarsi con il principio contrario! (Osservazioni sulla morale cattolica, cit., p. 246).
Delle postille di interesse storico ed economico pubblicate da Luca Badini Confalonieri merita un’attenzione particolare il secco rifiuto, che si legge in margine a una pagina di Madame de Staël, di una tesi che ha alle spalle una lunga tradizione: la natura bifronte del messaggio machiavelliano, nel quale la sostanza differirebbe dall’apparenza, ciò che s’intende dire da ciò che si dice. In quel messaggio, si tratti del Principe o si tratti delle altre opere, non si annidano in realtà finalità nascoste. Meno significativi altri interventi. In una pagina dei Materiali estetici (editi postumi nel 1887) si ricorda un’affermazione di Ludovico Ariosto, secondo il quale la poesia ha la capacità di cancellare il ricordo delle malefatte dei potenti. Non è così, commenta Manzoni; e se così fosse, essa sarebbe per gli uomini non uno strumento di arricchimento e di elevazione ma una calamità. La poesia di Virgilio, si legge nell’Orlando furioso, ha consegnato ai secoli successivi un’immagine edulcorata di Augusto. Non è Virgilio, ribatte Manzoni, il responsabile di questo; la responsabilità, «come avverte il Machiavelli», va addebitata ai regnanti successivi (Materiali estetici, in Tutte le opere, cit., 5° vol., t. 3, 1991, p. 50). Una breve citazione dal Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua s’incontra in uno scritto tardo, l’Appendice alla relazione intorno all’unità della lingua e ai mezzi di diffonderla (1869). Il problema affrontato da Manzoni è quello dell’assenza in Italia di una lingua comune. Egli stesso, come scrittore, ha dovuto affrontarlo; e delle difficoltà nelle quali si è imbattuto fornisce un quadro colorito, che lo mostra impegnato nella ricerca di espressioni conformi alle sue necessità, ma che non appartengano al suo dialetto. È un problema, annota Manzoni, già messo a fuoco da Machiavelli. Nell’immaginaria conversazione con Dante che s’incontra nel Dialogo appena citato, M. esprime il desiderio che il suo interlocutore legga una commedia di Ariosto. La troverà garbata, stilisticamente elegante e ben costruita; ma anche priva di quelle arguzie che un’opera del genere esige. La ragione è che ad Ariosto i motti ferraresi non piacevano e quelli fiorentini gli erano ignoti.
Si ricorderà infine, arretrando nel tempo, una lettera manzoniana del 21 ottobre 1848 alla figliaVittoria. È l’anno delle Cinque giornate. È vero, i rivoltosi lombardi, dapprima vincitori, sono stati successivamente sconfitti. Ma quegli sconfitti si sono battuti disperatamente; e la loro eroica difesa, scrive Manzoni, ha certamente rammentato a molti «quel detto del Machiavelli: qui è virtù grande nelle membra, quand’ella non mancasse ne’ capi» (Tutte le lettere, a cura di C. Arieti, 2° vol., 1986, p. 468).
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