Alessandro Manzoni
La netta eccellenza che caratterizza Alessandro Manzoni in sede letteraria non deve indurre a trascurare la rilevante importanza del suo pensiero storico-politico che peraltro si esprime non solo attraverso i suoi capolavori artistici, ma anche attraverso scritti di specifica riflessione teorica e interventi di attivo impegno politico e civile. Sotto questo profilo, egli rappresenta un autorevole esponente della storiografia cattolico-liberale e si pone quale sicuro punto di riferimento per altri autori impegnati nello stesso ambito culturale. Lo spicco della sua statura umana e intellettuale garantisce inoltre, anche in questo campo, testimonianze particolarmente indicative del complesso clima ideologico e politico del suo tempo.
Alessandro Manzoni nasce a Milano il 7 marzo 1785 dal nobile Pietro e da Giulia Beccaria, primogenita di Cesare (1738-1794), l’autore del celebre trattato Dei delitti e delle pene. Sarebbe però provato che suo padre naturale fosse Giovanni Verri, fratello dei più noti Pietro e Alessandro, cui la madre era da tempo legata da un rapporto sentimentale. Messo a balia per i primi due anni, verrà poi educato nei collegi dei somaschi e dei barnabiti. I suoi genitori intanto si separano, la madre si unisce con Carlo Imbonati mentre egli va a vivere con il padre. Nel 1805, alla morte dell’Imbonati, raggiungerà la madre a Parigi dove resterà fino al 1810. Qui entra in contatto con gli ambienti della più avanzata cultura del tempo traendone idee e stimoli determinanti.
Il 1808, anno in cui sposa Enrichetta Blondel (1791-1833), di famiglia ginevrina e di religione calvinista, segna l’inizio di una fase cruciale della sua esperienza umana, culturale e spirituale che, nel 1810, si concluderà con la cosiddetta conversione, e cioè con il convinto ritorno alla religione cattolica nella quale era stato educato, ma che aveva sostanzialmente abbandonato a contatto con la cultura illuministica. L’evento, talvolta considerato frutto di un’improvvisa illuminazione, costituisce, in realtà, la conclusione di un lungo e travagliato processo interiore. Nel seguire da vicino il cammino che condurrà la moglie all’abiura del calvinismo e all’adesione al cattolicesimo, egli, da parte sua, si interroga con sempre maggiore intensità su quale possa essere il fondamento di una retta moralità, di cui avverte l’esigenza per innata inclinazione, convincendosi alla fine che tale fondamento non può che essere individuato nella dottrina cattolica. Solo con il tempo il risultato di questo processo essenzialmente razionale si scalderà al calore di una profonda fede che caratterizzerà la sua intera vita di uomo e di scrittore.
Con la conversione, che resta l’esperienza centrale della biografia manzoniana, ci troviamo quindi di fronte a un’esistenza del tutto nuova che, per quanto punteggiata da sventure domestiche, si presenta fondamentalmente rettilinea. Schivo e riservato, egli si raccoglie in un’intensa e feconda attività creativa accompagnata da una costante riflessione su problemi di carattere morale, culturale e storico-politico. Tra i dati strettamente biografici basterà ricordare la dolorosa perdita della moglie avvenuta nel 1833, le nuove nozze con Teresa Borri vedova del conte Stefano Decio Stampa nel 1837, la nomina a senatore nel 1860. Morirà a Milano il 22 maggio 1873.
Manzoni guarderà con sprezzante distacco alla lunga esperienza vissuta nei collegi della sua fanciullezza e della sua adolescenza, ma non c’è dubbio che da quella esperienza egli trasse una solida cultura classico-umanistica che resta uno dei più significativi elementi della sua prima formazione. Particolare importanza ha comunque per lui l’incontro con la cultura illuministica. Dopo averne assorbito nella sua Milano e perfino nella sua stessa famiglia i principi fondamentali, avrà modo di approfondirne la conoscenza durante il soggiorno a Parigi. Qui il contatto con l’ambiente degli idéologues lo apre inoltre a un più consapevole senso della storia, già per altro avvertito nelle partecipi conversazioni milanesi con gli esuli napoletani Vincenzo Cuoco e Francesco Lomonaco (1772-1810). Ad accentuare la sua attenzione per i problemi della morale e della politica, in uno spirito antiautoritario e liberale, decisiva sarà inoltre l’assidua frequentazione del salotto della fiera e intelligente Sophie de Condorcet (1764-1822) definito da Jules Michelet «il centro naturale del pensiero d’Europa» (Les femmes de la Révolution, 1854; trad. it. 1935, p. 87) e davvero punto di riferimento della migliore intellettualità del tempo. È qui d’altronde che egli stabilirà un rapporto di stretta e duratura amicizia con lo storico e letterato Claude Fauriel (1772-1844).
Non è da escludere che questo affinamento della sua sensibilità, realizzato in un ambiente estraneo, se non ostile, al cattolicesimo, possa esso stesso rappresentare uno degli inafferrabili e sempre taciuti elementi della graduale riconquista della fede. In ogni caso, la conversione non segna per lui il rifiuto dei principi illuministici se non per le loro implicazioni materialistiche e per le specifiche posizioni antireligiose. Le sue idee, in un quadro di equilibrato moderatismo, restano pertanto improntate ai principi dell’uguaglianza, della fraternità e della libertà, solo che ora, a spiegarne la natura e le finalità, più che il lume della ragione è per lui la luce della fede.
In rigorosa coerenza, la conversione religiosa si traduce anche in un radicale mutamento della sua poetica che, con l’adesione allo spirito romantico, privilegerà tematiche di forte impatto morale. Il suo romanticismo, infatti, anche per l’influenza su di lui successivamente esercitata da Antonio Rosmini-Serbati (1797-1855), lungi da ogni schematismo di scuola, è esigenza di concretezza e di verità, accorata disponibilità nei confronti della sofferenza umana, meditato ascolto della voce della storia, ansia di libertà per tutti gli uomini e per tutti i popoli; è, in sostanza, l’approdo naturale di un percorso umano, spirituale e intellettuale che ci consegna non solo il grande poeta e il grande romanziere ma anche il convinto assertore di un ordine sociale e di una prospettiva politica d’ispirazione cattolico-liberale che agevolmente s’inseriscono nella complessa realtà del suo tempo.
Gli scritti di Manzoni anteriori alla conversione si caratterizzano, oltre che per una chiara intonazione classicheggiante, per uno spirito eminentemente oratorio. Già il poemetto Del trionfo della libertà (pubblicato postumo nel 1878), composto da un Manzoni adolescente nel 1801, nel denunciare con sdegnata ira giacobina la licenza e la corruzione contemporanea, costituisce un proclama di accesa fede repubblicana e democratica. Il carme In morte di Carlo Imbonati (1806), delinea poi, per bocca del personaggio celebrato, un vero e proprio programma di vita e di pensiero culminante nei famosi versi 207-215:
«Sentir,» riprese, «e meditar: di poco
Esser contento: da la meta mai
Non torcer gli occhi, conservar la mano
Pura e la mente: de le umane cose
Tanto sperimentar, quanto ti basti
Per non curarle: non ti far mai servo:
Non far tregua coi vili: il santo Vero
Mai non tradir: nè proferir mai verbo,
Che plauda al vizio, o la virtù derida».
(in Tutte le opere, a cura di G. Orioli, E. Allegretti, G. Manacorda, L. Felici, 1965, p. 93).
E va sottolineato che la fedeltà al «Vero», qui esaltato con particolare solennità, rappresenta l’autentico fulcro della concezione manzoniana. Esso, infatti, anima di sé non solo la poetica dello scrittore che, secondo la ben nota definizione, affiderà alla letteratura il compito di «proporsi per oggetto il vero» (in Tutte le opere, cit., p. 1136), bensì anche la sua visione storico-politica che privilegia la puntuale e scrupolosa analisi dei fatti nelle concrete connessioni della realtà.
Nella fase successiva alla conversione, l’interesse per il «Vero» si va sempre più configurando come specifico interesse per la storia, che diventa ormai il motivo base di ogni opera dello scrittore. D’altra parte, va anche considerato che «le esigenze ideologiche del periodo posteriore alla Rivoluzione francese e a Napoleone hanno ridestato il senso della storia, hanno suscitato un impulso ad accogliere nella letteratura elementi storici» (G. Lukács, Karl Marx und Friedrich Engels als Literaturhistoriker, 1948; trad. it. Il marxismo e la critica letteraria, 19643, p. 437). La storia viene tuttavia guardata da Manzoni attraverso categorie di natura etico-religiosa e in un’ottica fondamentalmente pessimistica che in parte è quella che sempre riposa nel fondo della coscienza cristiana, in parte è quella propria della più profonda sensibilità romantica. Già con La Pentecoste (1822), egli abbraccia in un solo sguardo, come dall’alto, l’intero corso della storia umana quando lo distingue in due contrapposte età, quella che precede l’avvento della Chiesa animata dallo Spirito e quella che lo segue, la prima caratterizzata dalla schiavitù e dal «vile ossequio» a falsi idoli, la seconda aperta alla libertà, all’uguaglianza e alla pace:
Nova franchigia annunziano
I cieli, e genti nove;
Nove conquiste, e gloria
Vinta in più belle prove;
Nova, ai terrori immobile
E alle lusinghe infide,
Pace, che il mondo irride,
Ma che rapir non può.
(in Tutte le opere, cit., p. 103).
Nelle due tragedie, Il conte di Carmagnola (1820) e Adelchi (1822), accanto alla tematica etico-religiosa, si affaccia poi nitida anche la visione storico-politica dell’autore che, come è naturale, compenetra di sé personaggi e azioni ma trova la sua più diretta espressione nei «cori». Questi, infatti, secondo la definizione di August Wilhelm von Schlegel (1767-1845) ripresa da Manzoni nella Prefazione a Il Conte di Carmagnola, sono per l’appunto «da riguardarsi come la personificazione de’ pensieri morali che l’azione ispira, come l’organo de’ sentimenti del poeta che parla in nome dell’intera umanità» (in Tutte le opere, cit., p. 121).
Il conte di Carmagnola, che «fu detta anche “tragedia della giustizia”», sullo sfondo di lontane lotte fratricide tra italiani e italiani, rappresenta una realtà storica in cui «l’uomo di cuore puro non può non uscire sconfitto, perché vi è una tragica antinomia tra i diritti della coscienza e la machiavellica ragion di stato» (Ulivi 1965, p. 58). Nell’unico coro della tragedia, alta si leva poi la voce per un cristiano richiamo alla fratellanza che coinvolge insieme italiani e stranieri:
Tutti fatti a sembianza d’un Solo,
Figli tutti d’un solo Riscatto,
In qual ora, in qual parte del suolo,
Trascorriamo quest’aura vital,
Siam fratelli; siam stretti ad un patto:
Maledetto colui che l’infrange,
Che s’innalza sul fiacco che piange,
Che contrista uno spirto immortal!
(in Tutte le opere, cit., p. 136).
L’Adelchi, a sua volta, con il coro dell’atto III, riprova la vana speranza di libertà nutrita dagli italiani del tempo di fronte alla vittoria dei Franchi sui Longobardi loro dominatori:
Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l’antico;
L’un popolo e l’altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
Si posano insieme sui campi cruenti
D’un volgo disperso che nome non ha.
(in Tutte le opere, cit., p. 172).
Ma la tragedia, al di là della pura contingenza politica, prospetta una drammatica visione della storia come se neppure la presenza del Divino fosse in grado di spiegare e di sanare una radicale ingiustizia. La vicenda umana è vista come un tormentoso scenario in cui si muovono, da una parte, i potenti oppressori, sordi al richiamo della Grazia, eppure protagonisti dell’avventura terrena, e, dall’altra, gli eletti destinati a essere oppressi. La sofferenza di costoro è tuttavia segno certo di un premio che Dio ha loro riservato, il Dio che, attivamente presente anche nel Cinque maggio (1823), «atterra e suscita, / Che affanna e che consola» (in Tutte le opere, cit., p. 107). È, in sostanza, il tipico concetto manzoniano della «provida / Sventura» che qui, nel coro dell’atto IV (in Tutte le opere, cit., p. 176), si precisa con riferimento all’infelice sorte toccata a Ermengarda e che conferisce un confortevole senso all’inesorabile dualismo tra oppressi e oppressori, tra vincitori e vinti.
Con l’ode Marzo 1821 (1848), Manzoni, che già con la canzone Aprile 1814 (1883) e l’abbozzo Il proclama di Rimini (1848) aveva chiaramente espresso vivi sentimenti patriottici, spostando lo sguardo dalla storia alla viva attualità politica, rivela in maniera diretta e appassionata la propria adesione alla lotta risorgimentale. Il moto dei carbonari piemontesi, storicamente destinato al fallimento, lo induce a prefigurare un’esaltante realtà, quasi che il suo auspicio di unità e di concordia si andasse finalmente realizzando: gli italiani non sono più in lotta tra di loro, non sono più il «volgo disperso che nome non ha» dell’Adelchi, ma sono tutti eroicamente uniti per la conquista della propria libertà. Notevole è inoltre una lucida percezione dell’Italia come nazione «Una d’arme, di lingua, d’altare, / Di memorie, di sangue e di cor» (Marzo 1821, in Tutte le opere, cit., p.107), cui fa peraltro riscontro una pertinente definizione dei suoi confini naturali tracciati nel coro del Conte di Carmagnola:
Questa terra fu a tutti nudrice,
Questa terra di sangue ora intrisa,
Che natura dall’altre ha divisa,
E ricinta con l’alpe e col mar.
(in Tutte le opere, cit., p.135).
L’elemento più distintivo di questa produzione resta, però, un’elevata concezione della libertà politica vista non come effetto di una pura e semplice rivendicazione nazionalistica bensì come realizzazione di una superiore giustizia nel senso che ogni popolo, per volontà di Dio, ha il sacro diritto di vivere in pace e libertà nella propria terra. Il che, tuttavia, non vuol dire, per Manzoni, assoluto rifiuto delle armi. Già in Aprile 1814, egli aveva infatti parlato di «ben pugnanti», di «braccio salvator» di Dio, parole in cui si affaccia il tema della guerra giusta «che a lungo tormentò la coscienza manzoniana» e che ora «torna a serpeggiare in Marzo 1821 […] “(per l’Italia si pugna, vincete / Il suo fato sui brandi vi sta)”» (Di Benedetto 2011, pp. 32 e 35).
I promessi sposi (1827, ed. definitiva 1840-1842), che si collocano al sommo della produzione artistica di Manzoni, risultano, a loro volta, estremamente importanti anche ai fini di una più completa definizione dell’ideologia manzoniana. Il romanzo si muove lungo la linea tracciata attraverso la precedente produzione, ma i suoi vasti orizzonti, illuminando forme molteplici di vita individuale e collettiva, si aprono su una più concreta e palpitante umanità. Lo sfondo o, se si vuole, il protagonista del romanzo, almeno secondo una condivisibile proposta, è il Seicento che rimane il simbolo del «fortissimo gusto storico del Manzoni» e sulla cui realtà egli «proietta tutto il suo mondo ideale» (L. Russo, Personaggi dei Promessi Sposi, 1945, 19606, p. 15). Il fatto è che la rappresentazione di questa realtà si risolve in un quadro estremamente pessimistico di ingiustizia, di prevaricazione, di sofferenza. Il dominio straniero è violento e arbitrario, la contrapposizione tra oppressi e oppressori, tra umili e potenti permane netta e attraversa in qualche modo perfino il mondo della Chiesa. Comunque sia, fatto assolutamente nuovo è che nel romanzo, con una sensibilità che è allo stesso tempo etico-civile e storico-politica, a essere chiamati in primo piano sono non più gli straordinari personaggi della tradizione, ma umili popolani visti in genere come portatori di valori autentici e come appartati, ma effettivi attori della storia. La stessa consolante realtà della «provida sventura» non è più richiamata, come ancora nelle due tragedie, solo a conforto del solitario e tragico mondo degli eroi, ma è guardata come reale sollievo per ogni sofferenza poiché Dio «non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande» (I promessi sposi, cap. VIII, in Tutte le opere, cit., p. 319) e perché «quando [i guai] vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore» (cap. XXXVIII, in Tutte le opere, cit, p. 528).
In questo quadro, lo stesso uso del romanzo, elevato così da una deteriore forma di espressione, qual era comunemente considerato, a genere di alta cultura, rivela di per sé una presa di coscienza di singolare interesse. È la lucida percezione che la nuova base sociale della letteratura è ormai non più una ristretta élite, ma una dinamica e attiva borghesia con tutte le sue esigenze e le sue spinte di carattere umano, politico e culturale.
La posizione ideologica di Manzoni, già trasparente attraverso l’opera letteraria, trova una più diretta e sistematica estrinsecazione in numerosi scritti di carattere dottrinale. Si tratta di un consistente corpus di lavori che, tra saggi, lettere e abbozzi, affrontano una vasta e articolata tematica relativa sia a questioni di viva attualità sia a interrogativi di assoluta rilevanza storica, etica e filosofica.
In tale contesto, notevole importanza assumono le Osservazioni sulla morale cattolica che, iniziate nel 1818 e pubblicate limitatamente alla Parte prima nel 1819, figureranno nella loro interezza solo nel 3° vol. (1887) delle Opere inedite o rare di Alessandro Manzoni pubblicate a Milano per cura di Pietro Brambilla da Ruggiero Bonghi.
Rivolgendosi «al lettore», così, in apertura, Manzoni sinteticamente definisce lo scopo dell’opera:
Questo scritto è destinato a difendere la morale della Chiesa cattolica dall’accuse che le sono fatte nel Cap. CXXVII della Storia delle Repubbliche Italiane del medio evo.
In un luogo di quel capitolo s’intende di provare che questa morale è una cagione di corruttela per l’Italia. Io sono convinto che essa è la sola morale santa e ragionata in ogni sua parte; che ogni corruttela vie-
ne anzi dal trasgredirla, dal non conoscerla, o dall’interpretarla alla rovescia; che è impossibile trovare contro di essa un argomento valido (in Tutte le opere, cit., p. 781).
La Storia richiamata è quella di Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi che, in realtà, non aveva messo in discussione la fede o la morale cattolica bensì la posizione della Chiesa quale istituzione storica considerata tra l’altro responsabile della ritardata unificazione politica dell’Italia. In ogni modo, l’opera, attraverso una confutazione analitica delle affermazioni di Sismondi, si risolve in una serrata difesa sia della Chiesa sia della fede e della morale cattolica. I suoi principi cardine sono quello della compatibilità tra fede e ragione e quello secondo cui solo la religione può garantire eque riforme e giustizia sociale in quanto, essa e non la politica, agisce direttamente sull’animo umano che è radice di ogni azione. Ciò nonostante e malgrado l’impostazione sostanzialmente apologetica del discorso, insistendo su un motivo costantemente ribadito, l’autore dichiara con decisa determinazione che non intende per nulla difendere «gli abusi che si giustificano con un pretesto religioso, ma che in realtà si sostengono per fini temporali» e che anzi ardentemente brama «che sieno sempre più conosciuti, e condannati» (in Tutte le opere, cit., p. 879).
Un interesse più propriamente storico si coglie poi nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia (1822). La sua composizione si affianca, come idea di approfondimento, a quella dell’Adelchi, ma riceverà attente e ripetute cure da parte dell’autore tanto che, alla prima edizione del 1822, ne seguiranno altre, rimaneggiate e corrette, fino al 1845. In esso Manzoni, sulla base di una vasta e puntigliosa informazione, si preoccupa in primo luogo di definire lo stato della popolazione italiana durante il dominio longobardo poiché, se di fronte alle discordanti ipotesi, si dovesse concludere che è impossibile conoscerlo, non resterebbe che questa amara considerazione:
Un’immensa moltitudine d’uomini, una serie di generazioni, che passa sulla terra, sulla sua terra, inosservata, senza lasciarci traccia, è un tristo ma importante fenomeno (cap. II, in Tutte le opere, cit., p. 627).
Ebbene, a suo giudizio, la condizione degli italiani durante quel dominio non fu, come di solito affermato, di acquisita comunanza con i Longobardi vincitori, bensì di dura e umiliante soggezione. Anche in ordine al ruolo dei papi, e in modo più specifico di Adriano I, respingendo la tesi di quanti li accusavano di aver aperto le porte dell’Italia allo straniero, sempre schierato in difesa della religione e della Chiesa, sostiene invece che gli umiliati italiani solo in essi trovarono i propri difensori in quanto,
nelle tribolazioni di quell’infelice popolo, chiedevano o forze ai Greci, o pietà ai Longobardi, o aiuti ai Franchi, secondo che la condizione de’ tempi permetteva di sperar più in un rimedio che nell’altro (cap. V, in Tutte le opere, cit., p. 665).
Un attento e severo sguardo al passato è anche quello che si coglie nella Storia della Colonna Infame, originariamente concepita quale parte integrante dei Promessi sposi, ma successivamente rielaborata come scritto autonomo e pubblicata in appendice al romanzo nella sua edizione definitiva del 1840-1842. L’autore, nel ricostruire i processi intentati a Milano nel 1630 contro i cosiddetti untori, accusa i giudici di vile e disumano crimine giudiziario in quanto i presunti responsabili della diffusione della peste, nonostante la loro attendibile professione di innocenza, furono da loro condannati a morte in assoluta malafede al solo scopo di offrire al pubblico capri espiatori. Carattere specifico dell’opera è comunque una sorta di sdegno a stento contenuto che, se è indice di un alto senso della giustizia e di una risentita coscienza etica e civile, certamente non giova all’equilibrio di un’indagine storica.
Dato lo specifico riferimento alla concreta situazione dell’Italia del tempo, una particolare attenzione merita a questo punto un brevissimo scritto manzoniano solitamente trascurato, e cioè Indipendenza politica e liberalismo economico, un semplice articolo uscito per altro anonimo sul giornale torinese «La Concordia» il 15 settembre 1848. Di fronte alla notizia secondo cui i commercianti di Praga chiedevano all’imperatore di non cedere in alcun modo la Lombardia e il Veneto, l’autore non solo definisce ancora una volta la causa italiana come causa di giustizia, ma giudica favorevole per quegli stessi commercianti l’avvento, «Dio lo voglia! E par che lo voglia», di un’Italia «affatto indipendente e staccata dall’Austria». Ciò, con esplicito richiamo ad Adam Smith, a Jean-Baptiste Say, a Richard Cobden e a Claude-Frédéric Bastiat, nella previsione che i legislatori italiani non avrebbero fatto ricorso a provvedimenti protezionistici e perché «il commercio ci guadagna sempre a aver che fare con popoli liberi» (in Tutte le opere, cit., pp. 777-79).
La storia sarà ancora chiamata dal Manzoni a costituire un diretto tema della propria riflessione con uno dei suoi saggi più discussi, La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859. Osservazioni comparative (1889), che, iniziato intorno al 1860 e rimasto incompiuto, sarà pubblicato postumo tra le citate Opere inedite o rare. In effetti, qui più che altrove si avvertono i segni di una rigida e conclusa convinzione religiosa tanto che il costante moderatismo dell’autore sembra ridotto a pura e semplice condanna della violenza. Un decisivo e complesso evento storico, quale di fatto fu la Rivoluzione francese, viene così da lui visto come un illegittimo e sanguinoso processo di usurpazione del potere. La rivoluzione italiana viene al contrario enfaticamente esaltata poiché, in piena legittimità, avrebbe assicurato al Paese, insieme con l’unità, il prestigio tra le nazioni e un’autentica libertà per i cittadini.
Se si esclude la non irrilevante dichiarazione dell’antico e radicato sentimento che solo dal Piemonte «dovesse, potesse, un giorno, venire il risorgimento» dell’Italia intera, non molto aggiunge il breve scritto Dell’indipendenza dell’Italia. Composto probabilmente nel 1872 per invito del Comune di Torino e pubblicato postumo su «La Stampa» del 24 dicembre 1924, esso si risolve infatti in una elogiativa narrazione delle vicende risorgimentali viste come il risultato di un’accorta e lungimirante politica sabauda.
Spunti più interessanti, ai fini di una ricostruzione del pensiero storico-politico manzoniano, si possono invece ancora cogliere in opere di diversa materia. È il caso, per es., di quelle riguardanti la lingua la cui definizione, al di là delle ragioni di ordine letterario e filologico, è vista come un problema essenzialmente politico e civile per una nazione che, in presenza di una raggiunta unità, ha bisogno di un comune strumento di comunicazione. Ma perfino quando scrive dell’attività di agricoltore e di botanico, da lui svolta a Brusuglio con dedizione e competenza, egli rivela una costante attenzione per le sorti dell’Italia come quando, in una lettera del 1° marzo 1820, afferma che «propagando nel nostro paese delle produzioni utili, gli rende un servigio».
A voler ora in qualche modo coordinare i richiami analitici dei principali scritti di Manzoni fin qui operati sotto il profilo ideologico, occorre, in linea preliminare, ricordare che egli resta principalmente uno scrittore e quindi, per quanto acute e ragionate possano essere le sue indagini, il suo discorso non presenta la sistematica coerenza che è propria della filosofia. D’altronde, «la filosofia non è per lui fine a se stessa, sibbene mezzo al costituirsi di un habitus critico per la soluzione di quei problemi etico-religiosi, storici ed estetici che sgorgano dalla sua profonda e complessa umanità» (Boldrini 1954, p. 211). Malgrado ciò, è possibile definire, in termini abbastanza organici, i nuclei essenziali della sua riflessione storico-politica che, va subito detto, risulta intimamente connessa, se non del tutto connaturata, con le sue prospettive di carattere etico-religioso.
Manzoni ha chiaro il concetto di nazione elaborato nel corso della Rivoluzione francese ed esaltato dalla cultura romantica. Nel riferirlo alla situazione italiana, egli naturalmente lo vive come puro e intenso fervore patriottico che accentua le sue aspirazioni di riscatto senza tuttavia sfociare in atteggiamenti o propositi di acceso nazionalismo e comunque al di fuori di ogni opzione di tipo rivoluzionario. Questo perché il problema, prima che politico, è per lui morale nel senso che va risolto alla luce di un principio che garantisca, come a tutti i popoli, anche a quello italiano un equo destino di libertà. L’obiettivo che Manzoni si propone è quello di uno Stato unitario in cui le ragioni della politica si concilino con quelle della religione e in cui l’alto valore della libertà si traduca anche in liberalismo politico e liberismo economico. In questo modo egli si colloca in quella che, da Francesco De Sanctis in poi, viene comunemente definita scuola «cattolico-liberale» o, proprio con riferimento al suo nome, «manzoniana», nella quale, tra gli altri, si ritrovano autori come Vincenzo Gioberti o Cesare Balbo, Niccolò Tommaseo o Gino Capponi, Carlo Troya o Luigi Tosti. Manzoni, però, vi si distingue non solo per il prestigio, che lo rende costante e imprescindibile punto di riferimento, ma anche perché rifiuta, diversamente da altri, ogni soluzione federalistica del problema italiano e, avverso com’è al potere temporale dei papi, ogni diretto coinvolgimento della Chiesa. Del tutto impropria risulta quindi la qualificazione di neoguelfismo talvolta assegnatagli.
Quanto alla concezione della storia, non c’è dubbio che in Manzoni siano chiaramente avvertibili i segni di una duplice influenza, quella dell’Illuminismo e quella della religione cattolica, l’uno e l’altra inclini, anche se con motivazioni e prospettive diverse, a considerare la vicenda umana dominata dall’ingiustizia e dal male. Ciò nonostante, è altrettanto vero che nel suo spirito trovano più viva risonanza le ragioni della fede in quanto rapportano la condizione umana non all’esclusiva azione delle istituzioni bensì alla responsabilità individuale di ciascuno e di tutti. Questo induce l’autore a guardare alla storia con estremo amore della verità ma anche con commossa partecipazione e soprattutto nella prospettiva di una possibile rigenerazione affidata all’alta presenza di un Dio che è sempre in attesa di incontrarsi con la libera volontà dell’uomo. È d’altra parte la condizione che gli consente di raccogliere sotto un solo sentimento e un solo interesse sia la ricerca propriamente storica sia la produzione artistica, la quale non solo si ispira costantemente alla storia ma, fatto salvo il valore propriamente estetico, della storia costituisce una sorta di integrazione in quanto consente di ricostruire e illuminare zone di umanità altrimenti dimenticate.
A ogni modo, la complessità del suo pensiero e della sua arte, ha esposto nel tempo Manzoni a riserve e ad accuse di vario genere sia tra i cattolici sia tra i laici. A seconda dei contrapposti campi di opinione, gli si è di solito imputata scarsa o eccessiva adesione alla fede e all’ortodossia cattolica. Ma negli ultimi tempi, attenuatesi le tensioni ideologiche che hanno a lungo condizionato il dibattito culturale, sembra che la figura di Manzoni, fatta oggetto di più attenti studi, vada a collocarsi, anche in rapporto al suo pensiero storico-politico, tra i più fedeli e autorevoli testimoni del suo tempo. Questo anche perché si va sempre più riconoscendo che «l’intreccio tra Risorgimento e religione è stato continuo, ricco, fecondo anche nei momenti di conflitto, e perché questo conflitto è stato sempre ricomposto in una sintesi più alta» (Cardia 2012, p. 80), come per l’appunto è avvenuto nel pensiero e nella coscienza di Alessandro Manzoni.
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G. Belotti, Il messaggio politico-sociale di Alessandro Manzoni, Bologna 1966.
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A. Accame Bobbio, Alessandro Manzoni. Segno di contraddizione, Roma 1975.
M. Corgnati, L. Corgnati, Alessandro Manzoni «fattore di Brusuglio», Milano 1984.
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C. Cardia, Risorgimento, Unità, Chiesa cattolica, «Nuova antologia», 2012, 2261, pp. 79-95.