MELANI, Alessandro
– Nacque a Pistoia il 4 febbr. 1639 da Domenico e da Camilla Giovannelli; ebbe come padrini di battesimo i nobili pistoiesi Bartolomeo Rospigliosi e Caterina Cellesi.
Il padre (Pistoia, 1588 - ivi, 1649 circa), campanaro e lettighiere del vescovo di Pistoia, seppe abilmente mettere a frutto la rete delle sue relazioni con la nobiltà cittadina, riuscendo ad avviare i figli (Iacopo, Atto, Francesco Maria, Giacinto, Bartolomeo, Vincenzo, oltre al M.) verso una brillante carriera di musicisti che condusse alcuni di essi a stabilire stretti e proficui rapporti con le maggiori corti europee.
Il M. ricevette la prima formazione musicale a Pistoia, probabilmente da Pompeo Manzini, maestro di cappella del duomo. Nella cattedrale pistoiese fu infatti attivo fin da giovane, come cantore, negli anni 1649-60 (Weaver, 1977, p. 269). Nel 1661 circa si trasferì a Roma, dove – secondo quanto attesta Pitoni – «fu scolare di Antonio Abbatini», noto compositore, all’epoca maestro di cappella di S. Luigi dei Francesi. Il 24 marzo 1663 il M. divenne maestro di cappella del duomo di Orvieto, su segnalazione dello stesso Abbatini. Tuttavia non dovette mantenere a lungo questo incarico se già nel giugno 1664, attraverso il fratello Iacopo, faceva pressione sul marchese Ippolito Bentivoglio affinché lo raccomandasse come maestro di cappella in S. Maria Maggiore a Bergamo (Monaldini, pp. 192-194). Come si apprende da alcune lettere del periodo agosto-ottobre 1664, tratte dalla corrispondenza dei Bentivoglio, il M. all’epoca soggiornava a Roma (ibid., p. 203); effettivamente una lettera dell’oratoriano Zenobi Gherardi da Firenze del 20 nov. 1663 menziona un oratorio «sopra santa Teodora» composto dal «Melani di Roma» (Hill, p. 252), identificabile con il Melani. Forse ritornato a Orvieto, nel marzo 1665, pur «essendo chiamato a Roma per maestro di cappella al Giesù», preferì ritornare a Pistoia (Monaldini, p. 219). Posteriormente a questa data dovrebbe collocarsi un suo soggiorno a Ferrara, dove, per quanto scrive Pitoni, sarebbe stato «maestro di cappella della Morte»; tuttavia, nei documenti di questo sodalizio non v’è traccia del suo nome; più probabile invece che avesse assunto la direzione musicale di un altro sodalizio ferrarese, l’Accademia dello Spirito Santo, di cui era principe il marchese I. Bentivoglio, succedendo così a G. Legrenzi che aveva lasciato il posto all’inizio del 1665. Il fatto che il M. fosse «maestro di cappella in Ferrara» ci viene comunque confermato da una lettera del fratello Iacopo, che lo aveva richiamato a Pistoia perché gli succedesse nella carica di maestro di cappella del duomo (Weaver, 1977, p. 268); infatti, nel dicembre 1666 il M. ricevette dalla cattedrale pistoiese un pagamento di lire 42, equivalente a un mese di servizio come maestro. Quando Iacopo si dimise dall’incarico, il 30 giugno 1667, il M. fu eletto al suo posto (ibid., pp. 268-270). Tuttavia non rimase a lungo a Pistoia dal momento che, cogliendo la felice congiuntura dell’elezione di Clemente IX Rospigliosi, suo concittadino e fratello del padrino, fece ritorno a Roma dove, il 16 ott. 1667, fu eletto maestro di cappella della basilica di S. Maria Maggiore. Dal mese di novembre il M. assunse anche la direzione della cappella Borghese, ubicata all’interno di S. Maria Maggiore, mantenendola fino alla morte ed entrando così nell’orbita della nobile famiglia romana da cui tale istituzione dipendeva (Della Seta, p. 204).
L’attività romana del M. non si limitò alla musica sacra, ma ben presto si allargò anche al teatro musicale. Grazie ai buoni rapporti intrattenuti dal fratello Atto – famoso soprano e abile agente diplomatico della corte francese al tempo di G. Mazzarino – con i più influenti personaggi della corte romana, il M. ebbe presto importanti commissioni dalla più alta nobiltà. Durante il carnevale del 1668 ricevette alcuni compensi dai Rospigliosi per la rappresentazione dell’Ergenia, prima opera composta dal M. di cui si abbia notizia (sono perduti sia la partitura sia il libretto). Il 17 febbr. 1669, nel palazzo dei Colonna in Borgo, sotto la direzione scenica di Filippo Acciaiuoli, fu rappresentato il suo dramma per musica L’empio punito (partitura in Biblioteca apost. Vaticana, Chigi, Q.V.57), alla presenza della regina Cristina di Svezia e di un folto gruppo di cardinali da lei invitati.
L’empio punito, su testo di Acciaiuoli messo in versi da Giovanni Filippo Apolloni, costituisce la prima opera composta sul soggetto del don Giovanni, entrato nella storia letteraria ai primi del Seicento grazie alla versione di Tirso de Molina, El burladór de Sevilla, e circolato in Italia con il titolo Il convitato di pietra nella traduzione di O. Giliberto e nel rifacimento di G.A. Cicognini. Diversamente dalla consuetudine, L’empio punito non è ambientato fra Napoli e la Spagna, in un tempo vicino, ma è trasportato in una cornice pseudoclassica, a Pella alla corte di un re di Macedonia dal nome inventato. Ad Acciaiuoli si deve, oltre che la trama del libretto, l’ideazione dei grandiosi effetti scenici, con ben dodici mutamenti di scena, e gli interventi di macchine spettacolari, come «un vascello che si sommerge», «la barca di Caronte», «un volo della statua di Tidemo» e di statue danzanti in un intermedio (Pirrotta, p. 29). Nella sua concezione scenografica l’opera mostra una stretta discendenza formale dall’Ipermestra (G.A. Moniglia, P.F. Caletti detto Cavalli) rappresentata a Firenze nel 1658, sotto la direzione dello stesso Acciaiuoli, come si evince dai disegni di Pierre-Paul Sevin che riproducono il set completo delle scenografie di recente venuto alla luce (Salerno). Sebbene il M. fosse agli esordi della carriera di operista, nell’Empio punito si mostra «già esperto e duttile, dalla penna scorrevole, sicura e attenta a cogliere nel testo tutti i suggerimenti che potevano arricchire il suo discorso musicale, ad alternare con destrezza momenti ariosi ad altri di puro recitativo, ad introdurre all’occasione drammatici momenti recitativi che interrompono il corso delle arie» (Pirrotta, p. 32). Larga parte delle arie dell’opera è accompagnata dagli strumenti (due parti di violino e basso continuo). Le parti furono interpretate tutte da voci maschili: il protagonista Acrimante (soprano) dal castrato Giuseppe Fede; Atrace, re di Macedonia (basso), da Francesco Verdoni; mentre il servo Bibi e la nutrice Delfa, coppia di buffi, furono rispettivamente affidati a un basso e a un tenore. Fra i momenti di maggiore intensità l’aria di Atamira, Piangete occhi piangete (atto I, scena 5), che inizia col canto contrappuntato dai violini, brevemente interrotto da un recitativo, per riprendere in un più disteso tempo ternario che prelude al sonno in cui cade la protagonista, sopraffatta dalla stanchezza. Insolita l’aria Se d’Amor la cruda sfinge (atto I, scena 9), in tempo Adagio, con accompagnamento dei violini caratterizzato da ripetute dissonanze su accordi omoritmici di crome ribattute, la cui prima strofa è cantata da Acrimante e la seconda, sulle stesse note, da Atamira.
Il M. continuò a servire i Rospigliosi con l’esecuzione di accademie per musica che ebbero luogo nel palazzo a S. Lorenzo in Lucina nel 1669. La morte di Clemente IX (1669) e, più ancora, la clamorosa partenza da Roma (1672), seguita alla separazione da L.O. Colonna, di Maria Mancini, protettrice di Atto Melani, spiegano, almeno in parte, le ragioni per cui, dopo la rappresentazione dell’Empio punito, il M. non collaborò più ad alcuna attività operistica a Roma.
Nel 1670 pubblicò la prima sua raccolta, i Motetti sagri a due, tre, quattro e cinque voci (Roma 1670), dedicata all’imperatore Leopoldo I. Dimessosi dall’incarico a S. Maria Maggiore nel marzo 1672 (Burke, p. 105), il 27 giugno il M. passò a dirigere la cappella di S. Luigi dei Francesi, grazie alla raccomandazione dell’ambasciatore francese (Lionnet, I, p. 99; II, p. 106).
Oltre che per la cappella, formata da una dozzina di cantanti e da un organista, che svolgeva un servizio musicale tutte le domeniche e i giorni di festa, la chiesa di S. Luigi era nota per le sfarzose musiche policorali eseguitevi annualmente per i due vespri e la messa in occasione della festa patronale; nell’ambito di queste solenni liturgie il M. fu probabilmente tra i primi maestri di cappella ad abbandonare il tradizionale stile policorale romano a cori omofoni, ereditato dal tardo Rinascimento, in favore di una prassi moderna che prevedeva un coro principale accompagnato da uno o più cori di ripieno. Non è casuale che a partire dal 1676 i musicisti elencati nelle liste dei pagamenti presentate dal maestro per la festa di S. Luigi e in altre occasioni solenni furono suddivisi per ruolo e non per coro di appartenenza come avveniva in precedenza. Inoltre, rispetto agli immediati predecessori il M. ingaggiò un numero superiore di soprani di spicco, concentrandoli nel primo coro, e conferì un ruolo di maggior risalto alla componente strumentale di queste musiche, coinvolgendovi esecutori di vaglia, come i violinisti C. Mannelli, C.A. Lonati e l’esordiente A. Corelli, il liutista L. Colista e l’organista B. Pasquini, e inserendo talvolta anche due parti di tromba.
Probabilmente favorita dai rapporti del M. con alcune famiglie della nobiltà romana fu la sua intensa produzione di oratori: diversi furono eseguiti per l’Arciconfraternita del Ss. Crocifisso di S. Marcello durante la quaresima degli anni 1668, 1672, 1675 (La destruttione di Jerico) e 1676. Nell’anno santo 1675 si ha notizia dell’esecuzione di altri due suoi oratori: La morte di Oloferne (libretto Bartolomeo Nencini) per la Compagnia della Pietà della nazione fiorentina di S. Giovanni dei Fiorentini, nell’ambito di uno straordinario ciclo che ne comprendeva quattordici dei migliori compositori attivi a Roma in quel momento; e un secondo in casa della «nobilissima cantarina [Anna Carusi], sotto la protezione del sig.r contestabile Colonna» su libretto «del barone di San Bartolomeo palermitano» (Morelli, 2004, p. 337). Negli anni Settanta sono documentati i rapporti del M. con altre due importanti famiglie romane: i Chigi e i Pamphili. Nel febbraio 1676, insieme con B. Pasquini, il M. fu pagato per «aver fatto la musica» per la vestizione di Laura Chigi, figlia del principe Agostino, nel monastero romano dei Ss. Domenico e Sisto (Weaver, 1977, p. 278). Non è casuale poi che a Ferrara, negli anni della legazione del cardinale Sigismondo Chigi, furono eseguiti alcuni suoi oratori, come L’Oloferne (1675) e Il giudizio di Salomone (1676). Nel novembre 1676 il M. diresse sue musiche «a quattro cori», eseguite «con voci esquisite, con sinfonie maravigliose e col suono di due trombe a battuta di musica», per la fastosa cerimonia della laurea di Benedetto Pamphili nella chiesa di S. Ignazio (Morelli, 1994, pp. 126 s.). Su testo dello stesso Pamphili mise poi in musica l’oratorio Il sacrificio d’Abel, eseguito l’11 apr. 1678 nell’oratorio filippino di S. Maria in Vallicella, e successivamente anche a Vienna, Bologna, Mantova, Modena e Firenze. Sempre alla Vallicella nel 1679 fu eseguito l’oratorio S. Francesca Romana su libretto del conte Giulio Bussi, con cui il M. tornò in seguito a collaborare.
Negli anni Settanta-Ottanta il M. continuò la produzione di opere rappresentate per lo più a Firenze e a Siena; si tratta di lavori appartenenti al genere della commedia o della favola in musica, destinati a teatri di corte o accademici, come Le reciproche gelosie (Nencini; Siena, 27 febbr. 1677); la favola boscareccia Il Corindo (Jacopo Giuseppe Giacomini; autunno 1680, Firenze, villa di Pratolino); Il carceriere di sé medesimo (Ludovico Adimari da Th. Corneille; Firenze, Accademia degli Infuocati, 24 genn. 1681); Ama chi t’ama (Nencini; Siena, 1682); Il finto chimico (Giovanni Cosimo Villifranchi; Firenze, villa di Pratolino, 10 sett. 1686).
L’attività operistica del M. nei teatri toscani fu senza dubbio agevolata dai suoi legami con la corte medicea, mediati dai fratelli Atto e Iacopo, ma coltivati direttamente anche dal M. stesso che, fra l’altro, dedicò al principe Ferdinando de’ Medici i suoi Concerti a due, tre e cinque voci... opera terza (Roma 1682).
Alle opere rappresentate in Toscana (che conobbero anche alcune riprese a Firenze, Bologna e Reggio Emilia ancora negli anni Novanta) va aggiunto Il trionfo della continenza considerato in Scipione Affricano (Giulio Montevecchi), dramma per musica, andato in scena il 26 maggio 1677 a Fano come spettacolo inaugurale del teatro della Fortuna, sotto la direzione scenica dell’architetto Giacomo Torelli, e dedicato a Luigi XIV.
Dell’opera sopravvivono diverse arie (Münster, Bibliothek des Bischöflichen Priesterseminars, Santini-Sammlung, 4085) e una Descrizione degli apparati et intramezzi dello stesso Torelli, ricca di particolari sulla sala, le scene e le macchine. La messa in scena dell’opera costituiva un chiaro atto di omaggio a LuigiXIV; Torelli intendeva infatti palesare la propria fedeltà al sovrano francese, che aveva servito per anni, ma presso il quale era caduto in disgrazia invischiato negli intrighi del ministro N. Fouquet; anche Atto Melani aveva perso il favore del re per queste stesse vicissitudini ed è quindi verosimile pensare che il M. non fosse coinvolto semplicemente come un neutrale compositore nell’operazione politica architettata da Torelli.
L’attività musicale del M. si intrecciò spesso con quella diplomatica, che lo vide costantemente schierato nel campo francese. Riflette bene questo intreccio fra musica e diplomazia una sua «Cantata in onore di Luigi XIV» (A bella gloria in seno; partitura in Venezia, Fondazione Querini-Stampalia, classe VIII, cod. V), composta nel 1678, i cui versi alludono alle vicende della guerra franco-olandese allora in corso. Forse non è casuale che l’anno successivo il fratello Atto, rientrato nelle grazie di Luigi XIV, poté far ritorno in Francia.
Dagli anni Ottanta, tuttavia, il M. non sembra aver più ricevuto commissioni di lavori rilevanti, come opere e oratori, dalle nobili famiglie romane che lo avevano protetto nel decennio precedente e che da allora volsero il loro interesse verso altri compositori della nuova generazione, come A. Scarlatti, F.C. Lanciani e G.L. Lulier. Ad alcune commissioni pervenutegli da fuori Roma si devono invece gli ultimi importanti lavori del M.: nel 1686 furono eseguiti a Viterbo il dramma per musica L’innocenza vendicata overo La santa Eugenia (G. Bussi; partitura in Lione, Biblioteca municipale, Mss., 129.979) e l’oratorio S. Rosa, forse su libretto dello stesso Bussi. Per la corte di Francesco II d’Este a Modena compose l’oratorio Lo scisma del sacerdozio (G.B. Giardini, 1691), che faceva parte di un ciclo di otto oratori sulla vita di Mosè commissionati ad alcuni importanti compositori.
Suo principale committente a Roma fu il cardinale francese César d’Estrées, per la cui nomina Atto Melani pare si fosse prodigato attraverso la rete delle sue relazioni diplomatiche, e a cui il M. aveva dedicato la sua seconda raccolta Delectus sacrorum concentuum binis, ternis, quaternis, quinisque vocibus (Roma 1673). Nel 1682 d’Estrées gli commissionò le musiche per la festa di S. Luigi e, nel maggio 1686, quelle per i festeggiamenti per l’estirpazione dell’eresia calvinista in Francia con l’editto di Fontainebleau. Per l’occasione il M. diresse le musiche per la messa alla Trinità dei Monti e la cantata Il trionfo della fede, su versi di Giuseppe Domenico De Totis inneggianti alle «glorie del re e della Francia», da lui composta ed eseguita dopo un banchetto nel palazzo di Propaganda Fide (Morelli, 1996, pp. 161-163).
Quando nel 1686 fu decisa la chiusura della cappella musicale di S. Luigi dei Francesi, il M. rimase comunque al servizio della chiesa, conservando l’incarico di dirigere annualmente le musiche per la festa del santo titolare e in qualche altra occasione solenne. Alla luce di questi suoi saldi rapporti con la comunità francese a Roma appare improbabile l’attribuzione al M. dell’oratorio Golia abbattuto (Cambridge, Fitzwilliam Museum, Mss., 23.F, copia inglese inizio sec. XVIII), considerando i contenuti politici fortemente antifrancesi che traspaiono dal testo, in cui si allude alle trame di Luigi XIV volte a far fallire la Lega austro-polacca contro la Turchia e a intimidire papa Innocenzo XI che l’aveva benedetta.
Negli ultimi anni di vita, secondo quanto attesta Pitoni, il M., oltre a svolgere la «professione [di maestro di cappella] con molto decoro et applauso […], essercitò l’agentia del duca di Nivers e altri principi». Nel 1689 era infatti agente della corte di Hannover a Roma e negli anni 1690-92 mantenne rapporti epistolari con G.W. Leibniz, all’epoca consigliere dell’elettore, a cui procurò alcuni libri da Roma. Dalla corrispondenza con Leibniz risulta anche che il M. era agente della corte di Brunswick. Un documento del 1693 conferma inoltre che in quell’anno il M. agiva da procuratore per conto di Philippe-Julien Mancini, duca di Nevers e fratello di Maria, con il quale successivamente finì in causa davanti al tribunale della Sacra Rota (Lionnet, II, pp. 156, 158).
Nel febbraio 1700 il M. fu nominato «residente del re di Polonia [Augusto II]» presso la corte romana, per intercessione del fratello Atto che aveva servito questo sovrano (Weaver, 1977, pp. 261 s., 264 s., 289; Staffieri, pp. 142 s.).
Il M. morì a Roma il 3 ott. 1703 e fu sepolto a S. Nicola in Arcione, sua chiesa parrocchiale, accanto alla moglie Cecilia Martinetti (morta a Roma il 5 apr. 1698).
Dalla loro unione non nacquero figli. Il M. lasciò per testamento a S. Luigi dei Francesi un gruppo di sue composizioni, quali salmi vespertini, antifone, inni, Magnificat e una messa, a 5, 8 e 16 voci, a cappella o con strumenti, perché «in caso di mancanza di maestro di cappella» o nel caso che la musica fosse affidata a una persona raccomandata ma «di niun credito e di poca abilità», la chiesa potesse avvalersene per i due vespri e la messa della festa di S. Luigi (Lionnet, II, p. 158). Lasciò poi alla cappella Borghese le musiche da lui composte per «servitio delle funtioni ecclesiastiche solite farsi in detta cappella» (ibid., p. 157). Le restanti musiche furono assegnate per lascito testamentario al cognato Pietro Paolo Martinetti, che fu suo allievo e poi successore come maestro di cappella di S. Luigi, dove restò in carica fino al 1730.
Opere (oltre a quelle già citate): drammi teatrali: Le reciproche gelosie, operetta in musica (B. Nencini; Siena, 27 febbr. 1677; ripresa come Il sospetto senza fondamento, dramma pastorale, Firenze, 9 ag. 1691, e ivi, estate 1699); Il carceriere di sé medesimo (L. Adimari da Th. Corneille), dramma per musica (Firenze, Accademia degli Infuocati, 24 genn. 1681; ripresa come La calma fra le tempeste overo Il prencipe Roberto fra le sciagure felice, Reggio Emilia 1684; e come Roberto ovvero Il carcieriere di sé medesimo, Bologna 1697; partitura in Modena, Biblioteca Estense universitaria, Mus., F.730, e Bologna, Museo e Biblioteca della musica, AA.286); Ama chi t’ama (Nencini), dramma per musica (Siena 1682; ripreso come Gli amori di Lidia e Clori, Bologna 1688 e ibid. 1691; partitura in Modena, Biblioteca Estense universitaria, Mus., F.1551, e Bologna, Museo e Biblioteca della musica, AA.287; L’Idaspe, pastorale (partitura in Biblioteca apost. Vaticana, Chigi, Q.VI.95); Il conte d’Altamura ovvero Il vecchio geloso, dramma musicale (Firenze; perduto); Capriccio a 3, Bacchettone, Soldato e giocatore, intermedio; Rinaldo (Pietro Cenciani), intermedio a cinque; L’Europa, introduzione a 3 voci a un balletto (Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Mss., 18740); Arsinda, dramma (perduto); opera dubbia: La santa Dimna (B. Pamphili, commedia, Roma, palazzo Doria Pamphili 1686, solo I atto; II di B. Pasquini, III di A. Scarlatti; perduta); musica profana: 27 cantate a voce sola; 2 a tre voci; Dialogo di Lilla e Lidio a due; 43 arie (elenco completo in A. M., 1972); musica sacra: sopravvivono in manoscritto messe, salmi, antifone e mottetti (elenco completo in Weaver, 1977, pp. 290-292).
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A. Morelli