PARRONCHI, Alessandro
PARRONCHI, Alessandro. – Figlio unico di Augusto, notaio, e di Annunziata Paoletti, nacque il 26 dicembre 1914 a Firenze, dove trascorse l’intera esistenza, a parte brevi assenze legate ai viaggi e all’insegnamento.
Iscrittosi nel 1933 alla facoltà di lettere della città natale, qui conobbe e frequentò, tra gli altri, Franco Calamandrei, Franco Lattes (Franco Fortini), Giorgio Spini, Valentino Bucchi; per quest’ultimo scrisse nel 1936 il libretto del Giuoco del Barone in 9 e più colpi di dadi, opera rappresentata nel 1939 e vincitrice del premio Italia nel 1953. Al 1936 risalgono anche l’amicizia con Mario Luzi e quella, fraterna e duratura, con Vasco Pratolini.
Le poesie di Giuseppe Ungaretti ed Eugenio Montale furono tra le letture più significative di quegli anni; ma destinati a lasciare un’impronta nella produzione del critico e del poeta furono altresì Alfonso Gatto e Carlo Betocchi, insieme con gli amici pittori Ottone Rosai e Mario Marcucci.
Laureatosi nel novembre del 1938 con una tesi di storia dell’arte (relatore Mario Salmi), quando erano già apparsi nella rivista Il Bargello suoi articoli di critica d’arte, fu dapprima insegnante nelle scuole superiori e poi, dal 1959, docente di storia dell’arte all’Università. Nel 1954 si unì in matrimonio con Nara Somigli, da cui ebbe le figlie Rosa e Agnese. Come poeta, invece, esordì nel 1938, in Frontespizio (Eclisse, con presentazione di Betocchi).
Con la pubblicazione della raccolta I giorni sensibili (Firenze 1941), cui seguì due anni dopo I visi (1943), ebbe inizio la storia della poesia di Parronchi: collocata nell’ambito dell’ermetismo in base alle frequentazioni biografiche dell’autore e a movenze stilistiche che ne apparentavano i testi a quelli della cerchia amicale più prossima (autorevolmente consacrata da lettori d’eccezione come Carlo Bo, Oreste Macrì, Giuseppe De Robertis), la produzione del primo periodo è tuttavia da valutare, come lo stesso Parronchi ebbe a precisare, entro la cornice più ampia «di un’apertura alla letteratura e alla poesia europea, soprattutto al simbolismo francese», e come ricerca di un linguaggio «più sottile» di quello lirico corrente e svincolato dall’eredità della triade Carducci - Pascoli - D’Annunzio (R. Cassigoli, Conversando con A. P., Firenze 2001, pp. 13 s.). In parallelo alle prime prove di autori come Vittorio Sereni, Giorgio Caproni, Attilio Bertolucci, emerge nei versi, e li distingue, una propensione elegiaca ed esistenziale che riporta all’esperienza e ai sentimenti (in quest’ambito gli esiti più felici, come A un’adolescente o Bicicletta notturna), alla sfera circoscritta di un io assorto eppure aperto al mondo esterno, ovvero ai riflessi del tempo e della natura. Aliena da oltranze metaforiche, come sarà anche in seguito, la scrittura si presentò agli esordi screziata di tratti definiti ‘neoclassici’ dalla critica coeva, non senza cadenze memori della tradizione lirica più nobile; ma, allo stesso tempo, seppe distendersi, senza contraddizione, nella prosa: che apre il primo libro, con un attacco senza riscontri nei contemporanei, con Al di qua d’una sera (poi ripresa in Ut pictura, Firenze 1997) e forma da sola circa metà del libro. Pur considerato dall’autore episodio giovanile, del resto, il libretto del Giuoco del Barone, in anticipo di cinque anni sulla raccolta d’esordio, aveva costituito un precedente per l’evoluzione dell’età matura, per le cadenze gnomiche e le andature da ‘recitar cantando’ conformi al carattere estroso e inventivo di un procedere dettato dalla sorte (quale richiedeva uno spartito che dell’impromptu faceva la propria legge), estranee al clima ermetico.
Il terzo libro (Un’attesa, Modena 1949) confermò la disposizione intimistica e sentimentale degli esordi, approfondendo le lezioni di Ungaretti (Sentimento del tempo) e di Montale (Le occasioni), maestri sentiti come divergenti e complementari – il primo con le sue «vertigini di senso», il secondo con lo «scavo esistenziale» (L. Baldacci in P., in Novecento passato remoto. Pagine di critica militante, Milano 1999, p. 464) – e altresì testimoniando di una maturazione non solo espressiva bensì di coscienza, tale da ravvisare anche sul piano critico negli autori del tempo della Voce la prima vera poesia moderna: Dino Campana, Clemente Rebora meditati e riscoperti come riferimenti esemplari.
Ma furono questi, della guerra e del primo dopoguerra, anche gli anni in cui l’esercizio della traduzione fornì un’importante occasione per ampliare l’orizzonte culturale e stilistico del poeta: Stéphane Mallarmé, Gérard de Nerval, Charles Baudelaire, Arthur Rimbaud (e con loro diversi ‘minori’ della tradizione francese), restituiti con taglio personale, attento a recepirne sia i tratti ereditati dal Romanticismo, sia le istanze derivanti da sensibilità squisitamente moderne (come anche l’Eliot dei Four Quartets, il cui influsso si rivelò di lunga durata). Agli anni tra il 1947 e il 1953 appartengono inoltre tre testi di particolare rilievo, riproposti integralmente nell’ultima e riassuntiva raccolta (Le poesie, Firenze 2000), innovativa anche nelle sezionature interne: Giorno di nozze (1947), Nel bosco (1951-52), Città (1953), trittico che inizialmente comparve in Per strade di bosco e città (1954).
Il gusto dell’invenzione e la disposizione narrativa, come il lessico, a quest’altezza si staccano con nettezza dai codici dell’età ermetica in virtù di uno sperimentalismo (anomalo in quanto antiinformale, e però neanche ‘neorealistico’) pronto a sfruttare tanto i modi della sceneggiatura cinematografica in vista della «rappresentazione di una simultaneità coscienziale» (L. Baldacci su Città: in P. poeta, in Per A. P.: atti della giornata di studio, 1998, p. 29), quanto le risorse del racconto in versi (Nel bosco, variazione poetica sul canovaccio del film Rashomon di Akira Kurosawa) e della poesia d’occasione (Giorno di nozze), a loro volta riecheggianti desueti modelli sette-ottocenteschi di poemetto.
La correzione stilistica e la disposizione soggettiva di tali esperimenti si accompagnarono, quindi, a un primato dell’etica assunto in chiave sempre più esplicita nelle raccolte successive, licenziate a cadenza decennale. Da Coraggio di vivere (Milano 1961) a Pietà dell’atmosfera (1970), Replay (1980) e Climax (1990), libri che formano il corpus compatto della maturità espressiva dell’autore, ogni ombra di solipsismo e di estetismo fu cancellata a favore di un’adesione al vero («Fin dal principio volli che del vero / la mia poesia fosse uno specchio non difforme», Fin dal principio…: da Nuovo cammino, in Le poesie, cit.) e di una originale avventura conoscitiva. Senza smentire la raffinata tavolozza metrica del poeta, i frammenti diaristici si susseguirono così, negli anni, coniugando con trasparenza discorsiva l’elemento autobiografico ai temi prediletti, rapsodicamente profusi e ribaditi di libro in libro: gli affetti familiari e la vita quotidiana, l’amicizia, il paesaggio, la passione per l’arte antica e moderna, la musica. Contestualmente il verso si aprì alla polemica sempre più risentita verso le mode e l’apparente ‘progresso’ della società circostante, su una linea che, partendo dai classici (la tradizione delle satire, Orazio), si riallacciava al Leopardi della Ginestra; e venne accentuandosi l’allontanamento non solo dagli autori più prossimi nella prima fase (Mario Luzi, Piero Bigongiari, Alfonso Gatto), ma anche dai canoni vulgati del Novecento poetico e dal dibattito ideologico corrente; mentre rimase un punto fermo, nel suo rinnovarsi, la lezione di Carlo Betocchi. Toccò a Pier Paolo Pasolini, nel 1957, fissare, in una magistrale recensione, i caratteri di novità e le istanze stilistiche ed etiche della nuova poesia di Parronchi, identificati in una «gnosi psicologica» e in un «tono» originale, «basso ma visibilmente elaborato, grigio ma non crepuscolare, discorsivo ma non facile …, limpido ma non ovvio» (P.P. Pasolini, recensione alla plaquette Coraggio di vivere, poi in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti - S. De Laude, I, Milano 1999, pp. 1200-1203). È il «tono medio da epistola» di cui parlò Giuseppe De Robertis (Rapporto su P., in Id., Altro Novecento, Firenze 1962, p. 511): conquista definitiva per il poeta, capace di accordare l’innata tensione dialogante che anima il diario in versi al ritratto di sé (quale in altri tempi poteva assumere la forma del ‘saggio’) che il poeta abbozzò attraversando il proprio tempo.
Nata dal vissuto e a esso consegnata, la saggezza perseguita dalla poesia degli ultimi anni, per una mossa vicenda di sedimentazioni e strappi, conserva un che di precario e d’intrepido, di non pacificato, e comporta una crescita che può darsi per via di sottrazione e non di accumulo («E disimparo a vivere», Come con tremore e con tumulto, in Replay, cit.), di ribellione e non di quiete («La quiete? Mai!», sempre in Replay); non compimento bensì slancio, nuovo cammino: «Nuovo cammino al margine / del bosco voglio in questa tarda / età inventare» (Nuovo cammino, 1991, in Le poesie, cit.). La scrittura di Parronchi raggiunse così esiti di particolare forza confrontandosi con la vecchiaia e la morte, allorché seppe donare all’ultimo scorcio del Novecento, con Replay e poi con Climax, Il rispetto della natura (1987), Quale Orfeo? (1991), Paura di vivere (1999, in Le poesie, cit.), alcune delle sue riuscite più memorabili, tramate di memorie e sogni inquieti, invettive e alte meditazioni. Davanti alla desolazione del paesaggio devastato dall’uomo, alla perdita degli amici più cari (Per Dante Giampieri, A Mario), al senso della radicale finitezza dell’avventura umana e alla permanenza del dolore, quella che era sembrata una poesia elegiaca e schiva assunse vibranti tonalità apocalittiche, e seppe riguadagnare alla lirica un’intima e personalissima visione cristiana, una speranza non consolatoria, ma a suo modo e in extremis affermativa: «Da questo stato di cose avvilente / vo verso un tempo di resurrezione,/ vo verso un tempo che sia, né so io come, / concreto di memoria e di certezza…» (A Mario, in Le poesie, cit.).
Dopo una vita di studioso tanto operosa quanto appartata, Parronchi morì a Firenze il 7 gennaio 2007.
Fonti e Bibl.: L’archivio di Parronchi è conservato nella Biblioteca umanistica dell’Università di Siena. Sull’archivio, L. Lenzini, Il Fondo A. P. dell’Università di Siena, in Ricordando P.: artisti del Novecento in Toscana nella collezione A. P. dell’Ente Cassa di risparmio di Firenze, nel fondo A. P. della Biblioteca umanistica dell’Università degli studi di Siena, a cura di E. Barletti - L. Lenzini, Firenze 2013, pp. 19-26. La bibliografia complessiva degli scritti è in “Il mappamondo volubile”. Bibliografia degli scritti di A. P., a cura di E. Bassi, con uno scritto di M. Boskovits, Fiesole 2004. Per l’opera poetica il riferimento principale è l’edizione complessiva del 2000, strutturata e annotata dallo stesso autore: A. Parronchi, Le poesie, Firenze 2000, con approfondito studio di E. Ghidetti (A. P.: appunti per un ritratto). La folta bibliografia della critica è in via di pubblicazione, per il centenario della nascita del poeta, nelle edizioni Bibliografia e informazione (Pontedera). Si segnalano, oltre a Per A. P.: atti della giornata di studio, Firenze... 1995, a cura di L. Bigazzi - G. Falaschi, Roma 1998, le monografie di C. Toscani, Piovra celeste e specchio non difforme. La poesia di A. P., Pasian di Prato 2003; L. Lenzini, Sulla poesia di A. P., Arezzo 2005; L. Manigrasso, Una lingua viva oltre la morte: la poesia inattuale di A. P., Firenze 2011. Tra gli studiosi che hanno dedicato pagine essenziali per l’interpretazione della poesia di Parronchi, nelle sue varie fasi, oltre a quelli citati, vanno ricordati Ruggero Jacobbi, Giovanna Ioli, Marino Biondi, Anna Dolfi, Pier Vincenzo Mengaldo, Silvio Ramat, Massimo Fanfani.