SCARLATTI, Alessandro
– Nacque a Palermo il 2 maggio 1660, secondogenito di Pietro Scarlata, musicista trapanese, e di Eleonora d’Amato; fu battezzato con i nomi di Pietro Alessandro Gasparo.
Pietro ed Eleonora si erano sposati il 5 maggio del 1658 a Palermo in S. Antonio Magno Abate, testimoni Pietro Cannella e il cantante Marc’Antonio Sportonio, già allievo di Giacomo Carissimi al Collegio germanico di Roma, attivo a Palermo dal 1653 e coinvolto nell’allestimento della prima opera in città, il Giasone di Francesco Cavalli (1655). Eleonora era parente di don Vincenzo Amato, sacerdote, maestro di cappella in duomo: fu lui a battezzare la primogenita dei giovani sposi, Anna Maria Antonia Diana, nata l’8 febbraio 1659, morta di otto mesi. Dopo Alessandro la coppia ebbe altri sei figli: Anna Maria (8 dicembre 1661, cantante documentata nei teatri di Venezia e Napoli dal 1680 al 1689, morta a Napoli il 14 dicembre 1703) e Melchiorra Brigida (5 ottobre 1663, morta a Napoli il 2 dicembre 1736), anch’esse battezzate da Amato; Vincenzo Placido (15 ottobre 1665), Francesco Antonio Nicola (5 dicembre 1666, violinista a Napoli e Palermo, compositore attivo anche a Londra tra il 1719 e il 1724, morto a Dublino dopo il gennaio 1741) e Antonio Giuseppe (15 gennaio 1669); in data non precisata, probabilmente nel 1674-1675, Tommaso (tenore, documentato nei teatri di Crema e Napoli dal 1701 al 1740 e impiegato nella cappella reale a Napoli dal 1722, dove morì il 1° agosto 1760).
La prima formazione musicale di Alessandro dovette avvenire in famiglia. La tradizione storiografica lo vorrebbe allievo di Giacomo Carissimi (morto nel 1674), ma non ci sono documenti che lo comprovino: è più probabile che, in Roma, egli abbia completato gli studi musicali con Bernardo Pasquini, Antonio Foggia e Pietro Simone Agostini, compositore di musica da chiesa e operista.
La partenza degli Scarlatti da Palermo è stata messa in rapporto con la carestia che colpì la città nel 1672 (Pagano - Bianchi, 1972, p. 29), anno probabile dell’arrivo della famiglia a Roma. Tale data si deduce tuttavia da documenti di molto successivi (il processetto matrimoniale della sorella Anna Maria e la fede di stato libero di Melchiorra; Prota-Giurleo, 1926, pp. 9, 19). Il primo documento che accerti la presenza del giovanissimo musicista in città sono gli Stati d’anime della parrocchia di S. Andrea delle Fratte: nel 1676 risulta abitante a Strada nova, l’odierna via della Panetteria, con la madre già vedova e cinque fratelli (Della Libera, in corso di stampa). Intorno a quell’anno risulta, altresì, affiliato all’arciconfraternita di S. Maria Odigitria dei siciliani. Il 12 aprile 1678 Alessandro sposò Antonia Anzalone nella medesima parrocchia – la stessa dove furono poi battezzati tutti i figli nati in Roma – dirimpetto all’insula dei Bernini, dove, nello stesso anno, è documentata anche la prima abitazione della coppia. Da allora, Scarlatti ebbe rapporti determinanti con la famiglia Bernini e gli architetti a essa collegati, tra cui Matthia De’ Rossi (nel suo palazzo in strada Felice, l’odierna via Sistina, è documentata l’abitazione del musicista nel 1681-82), Giovanni Battista Contini e la famiglia Schor. Il fiorentino Cosimo Scarlatti, forse un lontano parente, all’epoca maestro di casa di Gian Lorenzo Bernini, potrebbe essere stato il tramite tra Alessandro e il migliore ambiente artistico romano (Pagano, 2015, p. 23).
A Roma, Scarlatti visse e operò almeno fino al 1683, attivo come maestro di cappella in varie istituzioni religiose, fruendo della protezione di diversi mecenati.
In questo periodo nacquero cinque figli: Pietro Filippo, battezzato l’11 gennaio 1679, padrino Pietro Filippo Bernini, madrina donna Cinzia Maffei (divenne compositore, fu maestro di cappella a Urbino e poi organista della cappella reale a Napoli, dove morì il 22 febbraio 1750); Benedetto Bartolomeo, nato il 24 agosto 1680, tenuto al fonte dal cardinale Benedetto Pamphili, rappresentato da Antonio Ugolino; Alessandro Raimondo, nato il 23 dicembre 1681, che ebbe per madrina Cristina di Svezia, rappresentata dal conte Giacomo d’Alibert; Flaminia Anna Caterina, nata il 10 aprile 1683, padrini il cardinale Francesco Maidalchini e donna Flaminia Pamphili Pallavicini; Cristina Leonora Maddalena, nata il 6 aprile 1684, madrina la regina di Svezia, rappresentata ancora, dal conte d’Alibert.
L’elenco stesso di tali illustri padrini (altrettanti mecenati e committenti) lascia intravedere talune strategie esistenziali che il compositore perseguì poi per tutta la vita, sia nella ricerca di un magistero di cappella duraturo e ben remunerato, che garantisse il mantenimento della famiglia, sia nella cura con cui seppe assicurare alle proprie musiche e alla propria fama la massima risonanza in città e fuori, e ciò sulla base di una prodigiosa capacità produttiva nei principali generi della poesia per musica – il melodramma, la cantata da camera, in minor misura l’oratorio – coltivati sotto l’ala di potenti protettori delle arti come Gaspar Méndez de Haro y Guzmán, VII marchese del Carpio, Lorenzo Onofrio Colonna, Giovanni Battista Rospigliosi, oltre ai già citati padrini. Questo aspetto va visto alla luce degli stretti rapporti che intercorrono tra la produzione di Scarlatti e la tradizione musicale e letteraria romana – il musicista si trovò a collaborare, in vari momenti, con autori come Carlo Sigismondo Capece, Pietro Ottoboni, Silvio Stampiglia, Pietro Filippo Bernini, Giuseppe Domenico De Totis, Francesco Paglia – e si manifestò sia nell’approfondita revisione poetica di drammi per musica veneziani come Rosmene (1686, derivata dalla Costanza di Rosmonda di Aurelio Aureli, 1659) sia nella pretesa letteraria dello stesso Scarlatti, ammesso nell’Accademia dell’Arcadia (1706) e dedito alla scrittura di sonetti (Della Seta, 1982, pp. 143-145).
Tra l’autunno del 1677 e la primavera del 1678 Scarlatti dovette collaborare all’opera Amor quando si fugge allor si trova, su libretto dell’abate Vincenzo Maria Veltroni, se non altro con la composizione di qualche brano: la partitura completa (Biblioteca apostolica Vaticana, Chigi Q.V.66) è adespota, ma almeno l’aria Farfalletta intorno al lume gli viene espressamente attribuita in manoscritti coevi (Morelli, 2017).
La congregazione dell’ospedale di S. Giacomo nominò Scarlatti maestro di cappella il 16 dicembre 1678, incarico ch’egli tenne fin sul finire del 1682 (Morelli, 1984, pp. 118 s.). Tra il febbraio del 1679 e il febbraio del 1680 riscosse i primi successi musicali di rilievo. Il 27 gennaio 1679 l’arciconfraternita del Crocifisso in S. Marcello lo elesse con altri quattro compositori per musicare i cinque oratori quaresimali. Nel verbale il nome di Scarlatti figura accanto sia ai musicisti con i quali aveva, forse, completato la sua formazione in Roma, sia ai loro stessi protettori che, con i succitati padrini dei figli, furono tra i principali suoi committenti in quest’epoca: Alessandro risulta protetto dal duca di Paganica, Mario Mattei Orsini (1641-1690); gli altri compositori citati sono un Foggia (Antonio o Francesco?), Pietro Cesi e Agostini, protetti rispettivamente dai duchi Altemps, Acquasparta e Caffarelli. Prima del 4 febbraio andò in scena nel teatro dell’architetto Giovanni Battista Contini Gli equivoci nel sembiante, operina di soggetto pastorale, parole di Domenico Filippo Contini: il libretto pervenuto (stampato forse per le riprese estive dell’opera) è dedicato a Giacinta Conti Cesi, duchessa d’Acquasparta. Il 12 febbraio 1679 la regina di Svezia assistette a una recita e volle che l’opera venisse ripresa nel Collegio clementino. Dopo il lusinghiero esito degli Equivoci, Cristina protesse il compositore dallo scandalo suscitato dal matrimonio ‘alla macchia’ della sorella Anna Maria con il prete Paolo Massonio Astrolusco. Da allora, e fino al 1684, Scarlatti portò il titolo di maestro di cappella della regina. Gli equivoci incontrò un successo diffuso e durevole: l’ambasciatore francese, François-Annibal d’Estrées, la volle allestita a palazzo Farnese in occasione della visita della duchessa di Nivers. Ben dieci edizioni del libretto oltre alla prima documentano allestimenti a Bologna, Siena, Monte Filottrano, Linz, Napoli, Ravenna, Mazzarino e Venezia (tre riprese) entro il 1699.
Nel 1680 è documentato il primo contatto tra Scarlatti e un altro mecenate di spicco, il marchese del Carpio, ambasciatore di Spagna a Roma. Nel verbale del 14 gennaio 1680 dell’arciconfraternita di S. Maria Odigitria si legge che il marchese volle che la chiesa provvedesse ai festeggiamenti per le nozze di Carlo II: «e perché si ritrova la Chiesa esausta e poco abile a simile spesa il sig. Alessandro Scarlatti maestro di cappella della Maestà di Svezia si esibisce fare la musica per la messa in detta funzione non solo a proprie spese e senza ricompensa alcuna, ma farla solennissima e colma di perfettissimi virtuosi» (Ziino, in Devozione e Passione, 2014, p. 222).
Fino al 1681 Scarlatti compose quattro drammi per musica, tra cui L’onestà negli amori (teatro della Pace, Carnevale del 1680, libretto di Pietro Filippo Bernini) e Tutto il mal non vien per nocere (teatro Capranica, Carnevale 1681, libretto di De Totis); quest’ultima ‘comedia per musica’ inaugura un filone di opere scarlattiane che mettono a frutto comedias spagnole di cappa e spada, avviato con la collaborazione di De Totis in seno all’Accademia degli Uniti, di cui faceva parte Lorenzo Onofrio Colonna, e poi variamente proseguita a Napoli. Per il Carnevale del 1683 Scarlatti scrisse ben tre opere teatrali, due drammi seri e una commedia. I due drammi furono Il Pompeo (derivato dal Pompeo Magno di Nicolò Minato e Francesco Cavalli, Venezia 1666), culmine della produzione operistica di questo primo periodo, allestito da Colonna nel proprio palazzo, e L’Arsate, libretto di Flavio Orsini, duca di Bracciano, allestito nel suo palazzo di Pasquino. Lo stesso nobile librettista dilettante concepì e produsse La guerriera costante, una ‘comedia in comedia’, cioè un drammetto cantato ad atti alterni entro una sua commedia di parola, La dama di spirito geloso. Il simultaneo accostamento di Scarlatti alle due casate che in Roma capeggiavano, rispettivamente, i filospagnoli e i filofrancesi è sintomatico dell’abilità da lui ormai acquisita nell’agganciarsi alle principali reti sociopolitiche del momento.
Si può ritenere che i due generi musicali più funzionali alla strategia di ascesa sociale perseguita da Scarlatti a Roma fossero la serenata e la cantata da camera. La cautela è d’obbligo: non si sa con certezza quali sue serenate siano state eseguite in Roma in questi anni; ma i principali destinatari di serenate appartenevano alle famiglie che protessero Scarlatti, tutte vicine alla cerchia del marchese del Carpio, come i Caffarelli e i Paganica. Quanto alle cantate, a Scarlatti ne vengono attribuite complessivamente 800 e per tre quarti l’autorità è accertata; non ci sono, però, cantate databili con certezza al primo periodo romano, mentre ve n’è qualcuna per gli altri due periodi, 1703-08 e 1722-25, nei quali ricade il grosso di tale produzione. Ma le cantate che esibiscono strutture più prossime a quelle di musicisti morti nel sesto o settimo decennio, come Luigi Rossi e Antonio Cesti, precedono palesemente la standardizzazione adottata nella forma poetica della cantata negli anni Novanta, basata sulla regolare alternanza di recitativi e arie (Dent, 1905, p. 12); al primo periodo apparterrebbero anche le arie in forma binaria, quelle su basso ostinato e quelle con due strofe. La cantata Augellin, sospendi i vanni, su versi del cardinale Pamphili, ne dà un esempio tipico: per soprano, due violini e basso continuo, è divisa in dieci sezioni di testo più un ritornello strumentale e combina arie strofiche e recitativi. La comparazione con i bassi utilizzati da Scarlatti in altre composizioni coeve (L’onestà negli amori o l’oratorio Agar et Ismaele esiliati, 1683) evidenzia una caratteristica pervasiva del suo stile, il passaggio di spunti melodici dalla parte del canto alla parte del basso e agli strumenti concertanti (Dent, 1905, pp. 14-16, vi ravvisa in nuce il principio fondante della musica ‘moderna’, di cui Scarlatti sarebbe il pioniere, ossia lo sviluppo tematico, che va di pari passo con l’abbandono, nelle fasi successive della sua produzione, del basso ostinato, già in questi primi brani lontano dal modello monteverdiano).
Dopo la nomina di Antonio Foggia in S. Maria Maggiore, Scarlatti gli subentrò a S. Girolamo della Carità come maestro di cappella e direttore degli oratori (l’incarico fu remunerato dal 1° novembre 1682 e cessò nel maggio del 1683; Morelli, 1984, pp. 119 s.); vi incontrò musicisti come il liutista Pietro Ugolini, che lo accompagnò poi a Napoli. Tra la musica da chiesa composta in questo primo periodo romano ci sono gli oratori latini, finora non identificati, cantati nell’arciconfraternita del Crocifisso (il 24 febbraio 1679 il primo, indi almeno altri due il 12 aprile 1680 e il 20 febbraio 1682).
Dal 12 febbraio 1684 al 14 giugno 1702 Scarlatti fu stabilmente impegnato a Napoli, maestro di cappella nella corte vicereale, facendo nel contempo fronte a commissioni che gli giungevano dai patrocinatori romani, in primis i cardinali Pamphili e Ottoboni e don Livio Odescalchi (soprattutto per oratori e cantate) e i principi Colonna (per melodrammi da dare nel teatro Capranica). Il 25 settembre 1683, mentre era ancora a Roma, ricevette una cedola di 5035 scudi per ingaggiare la compagnia che avrebbe recitato nella stagione invernale del teatro di S. Bartolomeo a Napoli per volere del nuovo viceré, il marchese del Carpio (giunto in città il 6 gennaio), e per tramite dei nuovi affittuari del teatro, il pittore Nicola Vaccaro, in società con Francesco della Torre, e l’architetto teatrale romano Filippo Schor. La nuova compagnia esordì con L’Aldimiro overo Favor per favore, dramma per musica dedicato al viceré e ricalcato da De Totis su una tragicomedia di Pedro Calderón. La scelta di Scarlatti come autore primario delle opere a Napoli e, pochi mesi dopo, come successore di Pietro Andrea Ziani alla testa della cappella reale – scavalcando il napoletano Francesco Provenzale, cui da anni sarebbe spettata la precedenza – dipesero dalla politica culturale del viceré, che in ogni campo del suo mecenatismo artistico in Napoli volle imporre «el buen gusto romano» (Le Dessin napolitain, a cura di F. Solinas - S. Schütze, Roma 2010, p. 219, nota 24): indirizzo mantenuto poi dai due successori, il conte di Santisteban (1687-96) e il duca di Medinaceli (1696-1702); quest’ultimo incontrò Scarlatti a Napoli nel 1685, dov’era all’epoca capitano delle Galere, e lo protesse poi in Roma, dove fu ambasciatore tra il 1687 e il 1696.
A Napoli nacquero altri cinque figli: Giuseppe Domenico (26 ottobre 1685, clavicembalista e compositore), Giuseppe Nicola Roberto Domenico Antonio (17 febbraio 1689), Caterina Eleonora Emilia Margherita (15 novembre 1690), Carlo Francesco Giacomo (5 maggio 1692) e Giovanni Francesco Diodato (7 maggio 1695). I primi quattro furono tenuti al sacro fonte da aristocratici, evidentemente protettori del musicista; nell’ordine: Eleonora Cardines, principessa di Colobrano, e Domenico Marzio Carafa, duca di Maddaloni; Domenico Carafa, principe di Colobrano, e Giulia Spinelli, principessa di Tarsia; Marino Caracciolo, principe d’Avellino, ed Emilia Carafa, duchessa di Maddaloni rappresentata dalla principessa di Colobrano; Nicola Gaetani, primogenito di Antonio Gaetani duca di Laurenzano, in vece di Carlo Caracciolo duca d’Ajrola, e la famosa Aurora Sanseverino (che protesse pure Händel), allora consorte di Gaetani. Nell’atto di battesimo di Giovanni Francesco Diodato compare soltanto la levatrice Caterina de Giglio (si sarà trattato di un battesimo precauzionale).
A questo periodo risalgono con certezza una quarantina di drammi per musica, composti in gran parte per Napoli, ma anche per Roma e Firenze, più una decina di serenate. Spiccano i sontuosi spettacoli marittimi a Posillipo come L’Olimpo in Mergellina (1686; vi suonarono e cantarono più di cento musicisti); una decina di oratori, tra cui la Passio Domini nostri Jesu Christi secundum Joannem, annoverata tra i capolavori del compositore (Poensgen, 2004, pp. 63, 98); l’unica sua raccolta a stampa (Mottetti sacri, Napoli 1702), dedicata a Giorgina, la cantante amante ufficiale del viceré Medinaceli, con un esplicito cenno alla memoria di Cristina di Svezia e almeno una sessantina di cantate per soprano e basso continuo. In una lettera del 1696 da Napoli un confidente dei Colonna riferisce al conestabile Filippo II che la serenata Il Genio di Partenope fu bellissima «pues Escarlati compuso todo diferentemente de su solito», con probabile riferimento alla ricerca del grande effetto mediante il ricorso a manierismi armonici, come il subitaneo cambio di modo tra tonalità parallele e l’alterazione cromatica della melodia, tanto nei recitativi quanto nelle arie (Griffin, in Devozione e Passione. Alessandro Scarlatti..., 2013, p. 440). Questa sperimentazione espressiva per via armonica prima ancora che melodica coincide, nel tempo e nello spazio, con il momento storico in cui si assiste a una svolta radicale verso la standardizzazione formale delle cantate da camera, dal 1697 in poi tagliate sul modello delle due arie con il daccapo precedute da recitativi (Boyd, 1964, p. 22). Tra la musica strumentale di quegli anni risultano due suites per flauto e basso continuo, datate 16 giugno 1699 (oggi nella Biblioteca diocesana di Münster, Santini 3975; sulla base dell’inattendibile indice del manoscritto vengono talvolta erroneamente menzionate come «sinfonie» per cembalo). Lo sfruttamento di soggetti drammatici spagnoli continuò per tutto il periodo del viceregno di Carpio; addirittura La Psiche (libretto di De Totis da una tragicomedia di Calderón, gennaio del 1684) echeggerebbe melodie del compositore spagnolo Juan Hidalgo, forse in omaggio allo stesso viceré, che da giovane aveva patrocinato in Madrid l’allestimento di comedias originali di Calderón e Hidalgo (Stein, 2016).
Anche i drammi composti a Napoli, ma destinati ai teatri di Roma, adottano analoghe strategie drammaturgiche: spicca La Statira su libretto del cardinal Ottoboni, fortemente debitrice di Darlo todo y no dar nada di Calderón (Dubowy, in Devozione e Passione, 2014, pp. 226-228). Il ricorso ad argomenti d’origine spagnola sembra venir meno durante il viceregno di Santisteban; aumentano per converso le riscritture musicali di drammi veneziani di Matteo Noris, Minato e Aureli, mentre a Roma si consolidano i vincoli di Scarlatti con Paglia e Stampiglia, librettisti che prevalgono poi durante il viceregno di Medinaceli. Spiccano le tre opere di Scarlatti incluse in un ciclo di cinque drammi appositamente prodotti da Stampiglia per Medinaceli a Napoli: La caduta de’ Decemviri (dicembre del 1697), L’Eraclea (Carnevale del 1700) e Tito Sempronio Gracco (Carnevale del 1702, Domínguez, 2012). A Napoli di regola Scarlatti componeva e suonava a teatro: lo dimostra il pagamento di 600 ducati ordinato da Santisteban per le sue fatiche nelle tre opere della stagione 1688-89 (De Simone, in Devozione e Passione. Alessandro Scarlatti..., 2013, pp. 188 s.). Durante tutto questo periodo, oltre a comporre opere nuove, egli arrangiò infatti opere veneziane, adattandole all’uso di Napoli: il che significava, tra l’altro, dare maggior rilievo ai personaggi buffi, aspetto fondamentale nello sviluppo del linguaggio operistico scarlattiano e italiano in genere. Altri consistenti passaggi di denaro registrati nei suoi conti presso gli antichi banchi pubblici napoletani (confluiti poi nell’archivio della Fondazione Banco di Napoli) suggeriscono un’attiva partecipazione all’allestimento e alla gestione dei drammi e di altri eventi musicali. Sul versante sacro, il maestro regio, spesso richiesto da numerose chiese cittadine, lavorò anche da libero professionista per le maggiori feste religiose promosse dalle confraternite. Anche se la data di composizione non è stata accertata, egli compose lo Stabat mater per la confraternita di Nostra Signora de’ Sette dolori, rimpiazzato dal più celebre Stabat mater di Giovanni Battista Pergolesi negli anni Trenta del nuovo secolo.
Scarlatti si spostava di norma da Napoli a Roma al termine della stagione di Carnevale per supervisionare l’allestimento degli oratori (spicca La Giuditta del 1695 su libretto di Ottoboni) e coltivare i vincoli con i mecenati romani. Le lunghe permanenze sul Tevere gli valsero la deroga dalla nomina a maestro di cappella del Conservatorio napoletano di S. Maria di Loreto, posto che tenne per appena due mesi, dal 13 febbraio all’aprile del 1689. In quell’anno la protezione di don Livio Odescalchi dovette essere molto forte, se il viceré si vide obbligato a scrivere all’ambasciatore Medinaceli una severa lettera, rifiutando al musicista il permesso di rimanere a Roma fino a ottobre: doveva infatti comporre le opere napoletane per il secondo sposalizio di Carlo II, da festeggiare nella stagione seguente.
Oltre alle richieste da Roma, in questo periodo giunsero a Scarlatti numerose commissioni da altre città. Il 27 febbraio 1686 Carlo IV Borromeo sollecitava da Odescalchi musica di Scarlatti da eseguire nel teatro dell’isola Bella dopo il successo dell’Aldimiro a Milano, adducendo «l’eccellenza della musica, quanto per esservi maggiore proprietà e modestia di quelle di Venezia che sono quelle che si sentono nel nostro Teatro di Milano» (Monferrini, in Devozione e Passione, 2014, p. 68) e confermando indirettamente l’esclusività dello stile musicale esibito da Scarlatti in composizioni di tal genere. Al 19 ottobre 1688 risale la prima richiesta di un’opera per l’erede di Toscana, il gran principe Ferdinando de’ Medici, forse la commedia La serva favorita, testo di Giovanni Cosimo Villifranchi, eseguita in autunno nella villa di Pratolino. Per Ferdinando, Scarlatti compose sei opere fino al 1706. Il 3 giugno 1690 il cardinale Pamphili inviò al cardinale Francesco Maria de’ Medici «due cantate e 4 ariette novissime di Scarlatti» (Fantappiè, 2004, II, p. 464). L’8 aprile 1699 il duca di Sesto, che patrocinava il teatro ducale di Milano, richiese a Medinaceli, ma invano, l’invio del musicista per comporre un’opera per il Carnevale successivo. Inoltre venivano inviati a Napoli giovani musicisti per studiare con Alessandro: lo dimostra la lettera di presentazione che il 17 maggio 1698 il duca di Mantova diede a «Carlo Zuccari mio virtuoso nella professione di musica [...] raccomandato da me al famoso Scarlatti, affinché sotto la di lui condotta ed assistenza perfezioni la sua abilità», di modo che, al ritorno in Mantova, servisse come maestro di cappella (Domínguez, 2013, p. 197). Risalgono a quest’epoca anche testimonianze circa la consulenza prestata da Scarlatti sulle doti vocali di molti cantanti, come Margherita de l’Épine, detta La Torinese, o Cristina Morelli.
A prima del 1696 risale il ritratto conservato nella casa de Alba a Madrid, eseguito a Napoli (cerchia di Francesco Solimena), forse per ordine del viceré Santisteban: faceva parte di un gruppo di quattro ritratti di egual dimensione raffiguranti anche il cantante Matteo (Matteuccio) Sassano, il liutista Ugolini e l’architetto Schor. Due altri ritratti di Scarlatti sono a Napoli, conservatorio di S. Pietro a Majella (già attribuito a Nicola Vaccaro) e nella raccolta martiniana del Museo della musica di Bologna. Si conserva inoltre una caricatura di mano di Pier Leone Ghezzi alla Morgan Library di New York con la didascalia «Monsieur le chevalier Scarlati», successiva quindi all’investitura del 1715 (Della Libera, in corso di stampa).
Tra il 1702 e il 1707 Scarlatti visse a Roma senza un impiego stabile e duraturo, ma in cerca di un magistero di cappella tramite potenti mecenati. A questo periodo risalgono cinque altri drammi per Pratolino e le due ‘tragedie’ in cinque atti del nobile Girolamo Frigimelica Roberti, Il Mitridate Eupatore e Il trionfo della libertà, date nel carnevale del 1707 al S. Giovanni Grisostomo di Venezia. Tra gli oratori si contano sedici lavori per Roma, ma anche per Firenze, Venezia e Urbino: spicca Il Sedecia re di Gerusalemme (1705) trasmesso in almeno sette fonti musicali. Tra le cantate si distingue il manoscritto Osborn 2 (New Haven, Conn., Beinecke Library), che contiene 35 cantate datate da ottobre del 1704 a marzo del 1705, già appartenuto a Charles Burney, una sorta di diario musicale tra Scarlatti, il cantante pontificio Andrea Adami e gli Albani, familiari del papa regnante, Clemente XI. Appartengono a questo periodo anche le principali composizioni da chiesa, tra cui la Messa breve a Palestrina, detta pure Messa Ottobona (scritta probabilmente prima di rinunziare al magistero napoletano), la prima Missa Clementina (1703) e la Missa per il santissimo Natale (1707, Della Libera, in corso di stampa).
A metà giugno del 1702, rientrato in Spagna in febbraio il viceré Medinaceli, Scarlatti lasciò Napoli, forse per i pessimi rapporti con il nuovo viceré, duca d’Escalona (1702-1707), e cercò fortuna a Roma, rinunciando definitivamente nel gennaio del 1703 al magistero di cappella napoletano. Nella stessa estate del 1702 soggiornò a Firenze, dove si trovava certamente il 9 agosto (tornò a Roma il 21 novembre). Circa la metà dei 19 drammi rappresentati al teatro del Cocomero tra il 1701 e il 1706 furono scritti da Scarlatti, il che lascia intuire rapporti personali con quel teatro fiorentino. È probabile che a Firenze cercasse di ottenere, oltre alla protezione di Ferdinando de’ Medici, il magistero di cappella in duomo. Tuttavia i rapporti con Ferdinando, testimoniati da un ricco carteggio (Fabbri, 1961), non furono facili e dal 1707 il principe preferì commissionare al bolognese Giacomo Antonio Perti le partiture per il suo teatro di Pratolino. Già a Roma, il 9 gennaio 1703, Scarlatti ottenne, con l’appoggio di Ottoboni e non senza difficoltà, il posto di coadiutore di Giovanni Bicilli alla Vallicella, con la promessa di succedergli nel magistero di cappella dopo la morte di questi. Ottoboni fece anche pressioni a Madrid per ottenere per Scarlatti il magistero di cappella di S. Giacomo degli Spagnoli, vacante dopo la morte di Francesco Grassi, detto il Bassetto, a fine 1703. Una lettera di Alonso di Torralba al cardinale Medici del 5 aprile 1704 conferma che Scarlatti aveva lasciato Napoli con l’opposizione del viceré, «figurándose grandes conveniencias en Roma», dove però «aseguro a Vuestra Excelencia muere de hambre» (Fantappiè, 2004, II, p. 754).
Dal 1705 Scarlatti compare tra i ‘ministri’ nei ruoli di casa Ottoboni assieme ad Arcangelo Corelli; l’anno dopo il cardinale fu l’artefice della sua ammissione in Arcadia. I rapporti con il porporato cambiarono in coincidenza con l’arrivo a Roma del cardinale Vincenzo Grimani (11 luglio 1706), incaricato di coordinare segretamente le operazioni per la conquista del Regno di Napoli da parte dell’Impero. La scomparsa dai ruoli ottoboniani nel gennaio del 1706, la delusione nei confronti di Ottoboni che traspare da una lettera indirizzata a Ferdinando de’ Medici da Urbino (18 aprile 1707) subito dopo la stagione veneziana, e la lunga permanenza in questa città (la sua presenza è documentata ancora il 22 settembre), sebbene il 5 giugno 1707 gli fosse stato attribuito l’incarico di maestro di cappella in S. Maria Maggiore – ma con un salario di soli 12 scudi mensili – sono sintomi di un evidente raffreddamento nei rapporti con Ottoboni, per il quale nondimeno continuò a lavorare negli anni a venire. Può darsi che Scarlatti abbia intravisto in Grimani un nuovo marchese del Carpio in potenza, anch’egli dotato di un forte ‘gusto romano’; dal canto suo, il cardinale venuto da Vienna con il compito di restaurare in Napoli il dominio della casa d’Austria avrà colto in lui un simbolo spendibile di continuità legittimista. In una Roma in cui Clemente XI era stato indotto a sostenere gli interessi dell’imperatore nella contesa contro i Borboni di Spagna sull’investitura del Regno di Napoli non è casuale che Scarlatti per lettera sollecitasse da Grimani il proprio reintegro nel magistero di cappella, dal quale (diceva) era stato estromesso per gli intrighi di un «ministro straniero» (probabile allusione a Escalona). L’operazione si concluse il 1° dicembre 1708, quando Grimani lo reintegrò «con soldo e i lucri a esso pertinenti», degradando Francesco Mancini al posto di vicemaestro (Cotticelli - Maione, 1998, p. 305).
Da allora Scarlatti visse stabilmente a Napoli in qualità di maestro di cappella della corte, senza però tralasciare le frequenti commissioni che continuarono ad arrivargli dai patrocinatori romani, in questa fase principalmente Ottoboni, la regina Maria Casimira di Polonia, il principe Ruspoli (per i melodrammi e gli oratori) e il cardinale Acquaviva per l’importante Messa di santa Cecilia in stile concertato (ottobre del 1720) unitamente al Vespro completo. Risalgono a questo periodo ventun opere teatrali nuove, tra cui spiccano Il Ciro su libretto di Ottoboni (teatro della Cancelleria, Carnevale del 1712, scene di Filippo Juvarra, l’architetto siciliano che allestì anche cinque drammi con musica del giovane Domenico Scarlatti per il teatro della regina di Polonia a palazzo Zuccari); la commedia Il trionfo dell’onore, libretto di Francesco Antonio Tullio, per il teatro dei Fiorentini a Napoli (novembre del 1718); la serie di drammi per Capranica nelle stagioni di carnevale del 1718 (Telemaco, libretto di Capece), 1720 (revisione dei drammi dello Stampiglia Tito Sempronio Gracco e Turno Aricino, risalenti al 1702 e 1704), e soprattutto 1721, con il capolavoro La Griselda, libretto di Apostolo Zeno probabilmente rivisto di pugno da Ruspoli. Stando al frontespizio della partitura autografa, questa sarebbe l’«opera 114»: ma il conto complessivo dei lavori teatrali di Scarlatti è tuttora incerto.
Risale a quest’epoca anche la composizione della serenata pastorale La virtù negli amori, eseguita per la presa di possesso dell’ambasciatore portoghese Andrea de Melo de Castro il 16 novembre 1721: è una di undici serenate e cantate drammatiche sicuramente composte in questo periodo, tra cui emergono anche Il Genio austriaco su libretto di Giuseppe Papis, per sei cantanti, coro e orchestra, recitata nel palazzo reale di Napoli il 28 agosto 1713, e la serenata La gloria di primavera (Napoli 1716), il cui libretto riporta una preziosa incisione di Cristoforo Schor. Coeva è anche la maggior parte della sua produzione strumentale, tra cui le dodici Sinfonie di concerto grosso (1715, Londra, British Library, R.M. 21.b.14-15) e le composizioni per strumento a tastiera, le quali rivestono un doppio interesse storico. Per un verso, rappresentano una tappa decisiva nello sviluppo del genere della toccata, con opere come la Toccata per cembalo d’ottava stesa (1723) e le altre musiche da tasto contenute nel codice Higgs (New Haven, Conn., Beinecke Library, Music Deposit 77; Toccate per cembalo, a cura di J.S. Shedlock, London 1908; ristampa Kassel 1981), nei manoscritti di Montecassino (Cod. 126.D.4) e del Conservatorio di Napoli (34.6.31) e nel codice γ.L.9.41 della Biblioteca Estense di Modena (Toccate d’intavolatura per sonare il cembalo, a cura di L.F. Tagliavini, Bologna 1999). D’altro lato i Principi del signore Cavaliere Alessandro Scarlatti (British Library, Add. 14244) offrono testimonianze assai precoci di un genere, il ‘partimento’, dall’«evidente intento didattico» (Sanguinetti, 2012, pp. 15 s., 60), destinato a grande fortuna nella cultura musicale napoletana e italiana settecentesca.
In questo periodo Scarlatti continuò a rivolgersi per lettera a potenti mecenati per ottenere incarichi e aiuti a favore della famiglia. Con breve papale dell’8 luglio 1715 ottenne il cavalierato dell’Ordine di Gesù Cristo. Ancora la ricerca di nuove committenze e il necessario sostegno della «numerosa famiglia» compaiono in una lettera del mese successivo al Borromeo (Monferrini, in Devozione e Passione, 2014, p. 117). Argomenti dello stesso tenore ricorrono nei tardivi carteggi con gli Albani.
Morì a Napoli il 22 ottobre 1725; fu sepolto nella cappella di S. Cecilia in S. Maria di Montesanto: la lapide lo dice «musices instaurator maximus» e «optimatibus regibusque apprime carus».
Già i contemporanei espressero un giudizio lusinghiero sostanzialmente unanime su Scarlatti (Colloquium, 1979, pp. 164-167). Gli elogi della bellezza della sua musica ricorrono di continuo nelle fonti coeve; tolte talune critiche mosse vuoi dall’invidia (Fabbri, 1961, pp. 44 s.) vuoi da una certa insofferenza per l’esibizione di artifici contrappuntistici poco propizi al teatro (si vedano anche i sarcasmi espressi da un poeta satirico come Bartolomeo Dotti sulle due tragedie veneziane del 1707, pubblicati soltanto cinquant’anni dopo; Pagano, 2015, pp. 284-289), nel primo Settecento l’arte di Scarlatti fu considerata una pietra di paragone del buon gusto musicale tra i mecenati. La principessa Orsini dichiarò che non tener per casa composizioni di Scarlatti «n’est pas pardonnable à un homme de bon goût» (Geffroy, 1859, p. 106). Il giudizio si è mantenuto intatto fino ai nostri giorni. Tra i tanti e diversi dati che lo comprovano si possono menzionare: l’influsso esercitato dalla musica di Scarlatti su Georg Friedrich Händel nel primo decennio del Settecento; la riscoperta delle sue opere da parte del maestro di canto e collezionista Alessandro Orsini nella Roma del secondo Ottocento; l’opinione espressa da Claude Debussy in un articolo del 1903 (poi nel suo Monsieur Croche, antidilettante, Paris 1921).
Data la vastità e varietà della produzione e la convergenza del giudizio storico-estetico, la storiografia ottocentesca, in primis Francesco Florimo nella Scuola musicale di Napoli e i suoi Conservatorii (Napoli 1880-1884), volle ergere Scarlatti a capostipite di una mitica ‘scuola napoletana’, idea poi ripresa e amplificata nel primo Novecento da Salvatore di Giacomo. In realtà il ruolo svolto da Scarlatti come insegnante nel sistema dei conservatori partenopei fu effimero e marginale: più importante è il contributo ch’egli poté dare a una ‘scuola’ fondata non tanto su uno specifico stile musicale, quanto su una tradizione didattica destinata a lunga fortuna, ossia la pratica dei ‘partimenti’ (Sanguinetti, 2012, pp. 29-31). Tra gli allievi di Scarlatti vanno annoverati il figlio Domenico, forse Francesco Geminiani, certamente Johann Adolf Hasse. Edward J. Dent, nella prima pagina della sua fondamentale monografia (1905), spiegava perché, a onta della nevralgica posizione occupata da Scarlatti nella storia della musica, la musicologia che nel XIX secolo produsse il Bach di Philipp Spitta, lo Händel di Friedrich Chrysander, il Mozart di Otto Jahn e il Beethoven di Alexander W. Thayer non avesse prestato ad Alessandro l’attenzione dovuta: si sarebbe trattato di una reazione avversa alla predilezione per la musica italiana manifestata dai musicografi della generazione precedente, Fortunato Santini, Raphael G. Kiesewetter, Carl von Winterfeld e François-Joseph Fétis. Tale ipoteca storiografica può spiegare come mai manchi finora un’edizione dei suoi opera omnia. Tra le iniziative editoriali di maggior impegno si segnalano la serie The operas of Alessandro Scarlatti, a cura di D.J. Grout (Cambridge, Mass., 1974-1985), interrotta al volume nono, e le edizioni pubblicate alla spicciolata dall’Istituto italiano per la storia della musica (Roma 2006 ss.).
Fonti e Bibl.: I cataloghi più importanti delle opere di Scarlatti sono: E. Hanley, A. S.’s “Cantate da camera”: a bibliographical study, diss., Yale University, New Haven (Conn.) 1963; G. Rostirolla, Catalogo generale delle opere, in R. Pagano - L. Bianchi, A. S., Torino 1972, pp. 317-595 (rettifiche e aggiunte nella recensione di R. Strohm, Rivista italiana di musicologia, XI, 1976, pp. 314-323); elenchi sommari in R. Pagano et al., The new Grove dictionary of music and musicians, XXII, London-New York 2001, pp. 384-395, e in N. Dubowy, Die Musik in Geschichte und Gegenwart. Personenteil, XIV, Kassel 2007, coll. 1076-1091, aggiornati nelle rispettive edizioni digitali.
La bibliografia scarlattiana, assai vasta e dispersiva, è ampiamente compendiata in Colloquium A. S. Würzburg, 1975, a cura di W. Osthoff - J. Ruile-Dronke, Tutzing 1979; Händel e gli S. a Roma, Atti del Convegno..., Roma... 1985, a cura di N. Pirrotta - A. Ziino, Firenze 1987; C.F. Vidali, A. and Domenico S.: a guide to research, New York-London 1993; Devozione e Passione. A.S. nel 350º anniversario della nascita, Atti del Convegno..., Reggio Calabria... 2010, a cura di N. Maccavino, Soveria Mannelli 2013 (in partic. P. De Simone, Le arie di A. S. per la ripresa napoletana della “Semiramide” di Aldrovandini, pp. 99-222; T. Griffin, A. S.’s serenata “Genio di Partenope, Gloria del sebeto, Piacere di mergellina” and the summer of 1696 at Naples, pp. 425-458); Devozione e Passione: A. S. nella Napoli e Roma barocca, a cura di L. Della Libera - P. Maione, Napoli 2014 (in partic. S. Monferrini, Carlo IV Borromeo Arese, A. S. e la Cappella Reale di Napoli, pp. 67-118; A. Ziino, A. S. “Proveditor di chiesa”, il marchese del Carpio e l’Arciconfraternita di Santa Maria Odigitria dei Siciliani, pp. 211-223; N. Dubowy, La “Statira”, una proposta di lettura, pp. 225-241); R. Pagano, A. e Domenico S. Due vite in una, Lucca 2015. Qui si segnalano le pubblicazioni anteriori più cospicue e quelle citate nel testo: M. Geffroy, Lettres inédites de la princesse des Ursins, Paris 1859; E. Dent, A. S.: his life and works, London 1905 (rist. con prefazione e note aggiuntive di F. Walker, London 1960); U. Prota-Giurleo, A. S. «il Palermitano». La patria e la famiglia, Napoli 1926; M. Fabbri, A. S. e il principe Ferdinando de’ Medici, Firenze 1961; M. Boyd, Form and style in S.’s chamber cantatas, in Music Review, 1964, vol. 25, n. 1, pp. 17-26; C. Morey, The late operas of A. S., diss., Indiana University, Bloomington (Ind.) 1965; F. Della Seta, La musica in Arcadia al tempo di Corelli, in Nuovissimi studi corelliani, Atti del Congresso..., Fusignano... 1980, a cura di S. Durante - P. Petrobelli, Firenze 1982, pp. 123-150; T. Griffin, The late baroque serenata in Rome and Naples: a documentary study with emphasis on A. S., diss., University of California, Los Angeles 1983, pp. 740-809; A. Morelli, A. S. maestro di cappella in Roma ed alcuni suoi oratori, in Note d’archivio per la storia musicale, n.s., II (1984), pp. 117-144; F.A. D’Accone, The history of a baroque opera: A. S.’s “Gli equivoci nel sembiante”, New York 1985; L. Lindgren, Il dramma musicale a Roma durante la carriera di A. S., in Le muse galanti. La musica a Roma nel Settecento, a cura di B. Cagli, Roma 1985, pp. 35-57; R. Strohm, A. S. and the eighteenth century, in Id., Essays on Handel and Italian opera, Cambridge 1985, pp. 15-33, 272 s.; F. Cotticelli - P. Maione, A. S. maestro di cappella a Napoli nel viceregno austriaco (1708-1725), in Analecta Musicologica, 1998, vol. 30, n. 1-2, pp. 297-321; F. Fantappiè, «Un garbato fratello et un garbato zio». Teatri, cantanti, protettori e impresari nell’epistolario di Francesco Maria Medici (1680-1711), diss., Università degli studi di Firenze 2004; B. Poensgen, Die Offiziumskompositionen von A. S., diss., Universität Hamburg 2004; N. Dubowy, Identity and poetic style: the case of “Rosmene” by Giuseppe Domenico de Totis, in Music as social and cultural practice. Essays in honour of Reinhard Strohm, a cura di M. Bucciarelli - B. Joncus, Woodbridge-Venice 2007, pp. 199-213; L. Della Libera, Nuovi documenti biografici su A.S. e la sua famiglia, in Acta Musicologica, 2011, vol. 83, pp. 205-222; J.M. Domínguez, Cinco óperas para el Príncipe: el ciclo de Stampiglia para el teatro de San Bartolomeo en Nápoles, in Il Saggiatore musicale, 2012, vol. 19, pp. 5-40; G. Sanguinetti, The art of partimento, Oxford 2012; J.M. Domínguez, Roma Nápoles Madrid. Mecenazgo musical del duque de Medinaceli, 1687-1710, Kassel 2013; L.K. Stein, «Para restaurar el nombre que han perdido estas comedias»: the Marquis del Carpio, A. S., and opera revision in Naples, in Fiesta y ceremonia en la corte virreinal de Nápoles, a cura di G. Galasso - J.V. Quirante - J.L. Colomer, Madrid 2013, pp. 415-446; Ead., ¿Escuchando a Calderón? Arias y cantantes en “L’Aldimiro” y “La Psiche” de A. S., in La “comedia nueva” e le scene italiane nel Seicento, a cura di F. Antonucci - A. Tedesco, Firenze 2016, pp. 199-219; A. Morelli, “Amor quando si fugge allor si trova”: un libretto per Scarlatti esordiente?, in Il saggiatore musicale, XXIV (2017), in corso di stampa; L. Della Libera, La musica sacra romana di A. S., Kassel, in corso di stampa; V. De Lucca, The politics of princely entertainment: music and patronage during the lives of Lorenzo Onofrio and Maria Mancini Colonna (1659-1689), Oxford, in corso di stampa.