SCARLATTI, Alessandro
Musicista. Nacque a Palermo il 2 maggio 1660, morì a Napoli il 24 ottobre 1725. Seguì i genitori a Roma nel '79. Fino all'83 non ebbe relazioni con Napoli. Resta oscuro il periodo degli studî. Allorché si stabilì a Roma, Giacomo Carissimi era morto da cinque anni, Ercole Bernabei era partito, Francesco Provenzale insegnava a Napoli. Forse fu allievo di Bernardo Pasquini. Dalle statistiche dei melodrammi rappresentati nei teatri romani, privati e pubblici, dal 1671 al 1683, si ricava che venivano preferiti quelli di scuola veneziana. Fra gli autori più ammirati in quel tempo erano F. Acciaiuoli, A. Cesti, il Sartorio, il Pasquini, il Boretti, il Pagliardi, il Foggia e lo stesso Alessandro S. Il Cesti, dunque, insieme con il Sartorio avrebbe influito sul giovane S. più di A. Legrenzi, del quale nessuna opera fu rappresentata a Roma, e più di A. Stradella, del quale è dubbio fosse rappresentata un'opera. Il Pasquini forse influì come compositore, se non come insegnante. Notevoli le relazioni di Alessandro con la società romana, e specialmente con gli Arcadi, dei quali l'attività e l'ambiente eran già vivaci prima che l'accademia ufficialmente si costituisse. E l'accoglimento in Arcadia, il 26 aprile 1706, di B. Pasquini (Protico Azeriano), dello Scarlatti (Terpandro) e di A. Corelli (Arcomelo Erimanteo), accoglimento che tendeva a "favorire anche la musica, come una delle arti liberali", era stato certamente preceduto dalla solidale consuetudine di S. con quella folla di aristocratici, di poeti, di musicisti (si ricordino il Moniglia, lo Stampiglia, il Gigli, il De Totis, fra i librettisti, Filippo Acciaiuoli, compositore, i nobili Grimani e Ottoboni), che adunava il fior fiore dell'Arcadia e dell'intellettualità romana. Trasferitosi a Napoli nel 1685, lo S. occupò il posto di maestro del teatro del palazzo reale. Con atto del 13 febbraio 1689 fu assunto maestro al conservatorio di Loreto. Alla fine d'aprile chiese licenza per recarsi a Roma. Il 15 luglio, non essendo ancora ritornato, fu licenziato e sostituito da don Pietro Bartilotti. Ecco perché non è esatto dire che egli abbia insegnato nei conservatorî di Napoli. Intanto componeva opere per il teatro di corte e per il San Bartolomeo e cantate e serenate per la corte e per l'aristocrazia. Le difficoltà finanziarie e le vicende che turbavano il regno di Napoli lo indussero a recarsi alla corte di Ferdinando II, granduca di Toscana, il quale, protettore di musici, aveva fatto costruire un teatro nella villa di Pratolino. Lo S. scrisse opere per Firenze, ma non ottenne dalla corte un incarico definitivo. Alla fine del 1702 ritornò a Roma. Scontento di tutte le sedi, scriveva nel 1705 a Ferdinando de' Medici, esponendogli le tristi condizioni romane, a cagione delle quali aveva dovuto spingere suo figlio Domenico alla carriera concertistica. Alessandro VIII, succeduto a Innocenzo XI, fu più favorevole agli spettacoli teatrali. Sembra che lo S. sia stato nominato maestro di cappella a Roma nel 1703 o 1704. Nella scarsezza dell'attività teatrale, compose numerose cantate anche per commissione di napoletani e per il principe Ruspoli, arcade. È dubbio se S. e Corelli abbiano stretto relazioni d'amicizia. Secondo il Geminiani, lo S. ammirava Corelli quale violinista e direttore d'orchestra, più che come compositore. Vivendo a Roma, compose anche per la chiesa, fra l'altro, la Missa Clementina I nel 1703, e un'altra messa per il cardinale Ottoboni, tre anni dopo. Per il teatro di Pratolino compose fra l'altro il primo atto del Lucio Manlio. Nell'inviarlo a Ferdinando dichiarava d'aver tenuto conto più del diletto atteso dagli spettatori che delle intenzioni del poeta. Disperando della fortuna, poiché il suo stile dotto non si confaceva alla spensieratezza degli ascoltatori toscani, ritornò a Napoli nel 1708. Un anno dopo veniva reintegrato nel posto di maestro di cappella. Ottenuto il congedo da Napoli nel 1717, si recò a Roma per comporre numerose opere per la sala dei Capranica. Rimase probabilmente a Roma fin dopo il novembre del 1721. L'anno seguente si recò a Loreto, e nel '23 a Napoli, donde probabilmente non si allontanò più fino alla morte. La Gazzetta di Napoli pubblicava il 30 ottobre 1725, sei giorni dopo la morte, un brevissimo necrologio. Fra le poche notizie dei pensieri dello S. sulla musica sono queste: J. A. Hasse, divenuto suo allievo nel '24 (e forse non ebbe da lui regolari lezioni) lo indusse ad ascoltare J. J. Quantz, il famoso flautista, a Napoli, vincendo così la ritrosia di lui, che diceva di non sopportare il suono degli strumenti a fiato. J. J. Quantz riferì poi che lo S. aveva magistralmente toccato il clavicembalo, sebbene non possedesse l'agilità di suo figlio, e s'era compiaciuto di scrivere un pezzo per flauto. Non tradizionalista, lasciava passare certe arbitrarietà dei principianti, perché, diceva "fa buon sentire". Affermò una volta di essersi commosso fino alle lacrime nel leggere un libretto; d'altra parte considerava la composizione come una scienza e la musica la figliuola della matematica.
I primi lavori teatrali seguono la tendenza comica, anche attraverso l'arcadicità del sentimento e il convenzionalismo della forma, come negli Equivoci nel sembiante, del 1679, e nell'Honestà negli amori, del 1680. Opera interamente comica fu quella intitolata Tutto il male non vien per nuocere, 1681, nella quale, alla distinzione fra i personaggi aristocratici e quelli plebei corrisponde il diverso carattere stilistico proprio dell'opera seria e della comica. Anche è notevole, per confronto con le tradizioni dell'opera seria, che quasi tutti i recitativi siano stati sviluppati in ariosi, superando così i tipi fissi del recitativo secco e di quello accompagnato. Manca o difetta invece la caratterizzazione dei personaggi. Generici accenti di letizia o di tristezza si dispiegano in rapide melodie, in delicati siciliani, che sensibili modulazioni opportunamente sostengono.
Fino al 1700 circa sono da considerare migliori, fra le opere serie, la Rosmene, l'Eraclea e la Statira la quale, al pari del Prigionier fortunato, reca arie con tromba obbligata, all'uso veneziano. Nel Prigionier fortunato, come nella Caduta dei decemviri, si accentuava quell'espressione di sensuale languidezza nel 12/8, che, probabilmente derivato dalla melodica di Giovanni Bononcini, divenne maniera comune fra il Sei e il Settecento. Molto concesse al gusto dei napoletani tradizionalisti nell'Amor volubile e tiranno, 1709, trascurando l'elaborazione tecnica già evidente nelle opere anteriori. Riprese il lavoro di lima nella Principessa fedele, dove curò particolarmente l'orchestra. Quel che di tenero e languido talvolta spirava nelle opere giovanili cedeva intanto a una più vigorosa espressione. Poche pagine veramente sentite contiene il Tigrane, 1715, cui il Dent contesta l'eccellenza comunemente riconosciuta. Quell'opera reca alcune parti buffe. Certo, esse sono assurde, e sembrano pertanto meno irreali di quelle serie; vi si alterna con l'italiano il dialetto bolognese, il tedesco goffamente pronunciato, un grottesco latino. La strumentazione ha pregi nuovi e singolari. Danze e marce, brevi, procedono per lo più all'unisono o a due parti. Un'aria è accompagnata da due corni, concerto di oubuoé (probabilmente oboi e fagotti raddoppiati) e archi; predominano i corni, qui usati per la prima volta. Altre arie sono accompagnate da liuti e viole d'amore. Anche nel Telemaco, 1718, e nelle successive opere, i corni hanno parte, in specie durante le scene marinaresche, d' imbarchi o di sbarchi; talvolta i cornisti suonano dall'alto delle navi. Nel Marco Attilio Regolo, 1719, quattro arie, improvvisamente interrotte per il sopraggiungere di un altro personaggio e parecchi recitativi accompagnati, mossi da diversi sentimenti, testimoniano un'accresciuta ricerca dell'interesse scenico e drammatico. È notevole che un ballo di giovani cartaginesi con strepito di zampogne e gnaccare e sistri all'uso di barbare nazioni" come dice la didascalia, venga invece realizzato con oubuoé e fagotto, accompagnati dal quartetto degli archi. Un nuovo elemento appare nelle ultime opere: la parte vocale dell'aria è preceduta da una breve frase, che non anticipa lo spunto iniziale dell'aria stessa, ma sembra disporre l'animo all'effusione melodica. La Griselda, 1721, ultima opera, reca i segni della piena maturità. L'accento umano penetra le forme dell'accompagnato e dell'aria. Anche è notevole in queste ultime opere l'importanza conferita agl'insieme, o meglio nuovamente conferita, poiché un complesso come il settimino dell'Eraclea era rimasto senza seguito. Il secondo atto della Griselda termina con un terzetto ben congegnato, ma generico. Migliori i quartetti del terzo atto della stessa opera e del Telemaco. In quelli del Turno Aricino e del Regolo, denominati "arie a quattro" l'interesse drammatico è nuovamente scialbo.
La struttura dei melodrammi scarlattiani merita un particolare accenno, poiché presenta alcuni fra gli aspetti più tipici dell'opera secentesca e altri dell'opera del Settecento. Nella maggior parte dei libretti musicati dallo S. non si riscontra quella disposizione del recitativo alternato con l'aria, che divenne regolare con Apostolo Zeno e poi con il Metastasio; vi appare invece l'altra disposizione, comune all'operistica veneziana del secondo Seicento, nella quale la scena consta di parecchi recitativi e di parecchie arie. Il recitativo scarlattiano è normalmente secco, di rado accompagnato. L'aria col da capo, frequente nei contemporanei, vi è trattata con singolare maestria, quella che lo S. poté acquistare, inserendone perfino una cinquantina in qualche opera. Un gran numero di arie è iniziato o da un'introduzione del cembalo, su basso cifrato, che reca in germe il motivo principale della prima parte, o annuncia vocalmente lo spunto del primo verso. Egli dapprima abbondò nelle arie accompagnate dal solo cembalo, una maniera, questa, che esemplò dai veneziani, e che a mano a mano ripudiò nelle opere dell'età matura, per giovarsi degli archi, dell'orchestra. Per esempio, nella Statira, 1700, si hanno 20 arie col cembalo, e 23 con l'orchestra; ma nella Griselda del 1721 quelle scomparvero e queste toccarono il numero di trentuno. La composizione di tali arie con orchestra non afferma pertanto un concetto unitario, nel senso che la parte melodica strumentale, anziché congiungersi con la parte vocale, preferisce alternarsi con essa, quasi con il rapporto del ripieno col solista, sì che la fusione dei due elementi raramente avviene.
Notevole contributo recò lo S. alla sinfonia precedente l'opera, in quanto composizione strumentale, e però il suo nome resta legato al tipo dell'ouverture italiana, così come quello del Lulli all'ouverture francese. Usando il ciclo ternario, un allegro, un adagio, un allegro, egli ampliò urgente, la tematica incisiva, la stesura quadrata e agile, impresse espressività al secondo, sempre breve, e accrebbe l'interesse ritmico dell'ultimo. Tutt'insieme l'ouverture riusciva compatta, pur nell'antitetica varietà dei concetti e della composizione più o meno monodica o polifonica. Si può citare con G. Pannain la sinfonia dell'oratorio Maria Vergine, Ss. Giovanni, Nicodemo e Orio per lo slancio e il vigore ritmico dell'allegro, per la distensione, quasi una patetica sillabazione delle armonie nell'adagio, per l'alternanza dei soli e dei tutti nel terzo episodio, dove lo stile concertante acquista una particolare compattezza sinfonica attraverso l'abilissimo giuoco delle parti. Le quali sono quattro, e tutte d'archi, e tanto sufficienti che il cembalo vi appare superfluo.
Oltre che nelle ouvertures lo S. si afferma altresì pregevole compositore strumentale nelle Dodici sinfonie del 1715, nelle Sonate a quattro (2 violini, viola e cello), nelle Sonate per 2 flauti, 2 violini, viola e continuo di ripieno.
Per la parte clavicembalista lo S. appare progressivo nella tecnica fra il Sei e il Settecento. Ancora fedele alla polifonia, ravvivò pertanto la dinamica delle linee con un impeto singolare, che tanto accentuava il ritmo quanto rinvigoriva la melodicità dei motivi. È tutto un moto, scorrevole, prepotente, infocato, che vuol congiungere all'energia la grazia. Né mancano le pagine, sia un'aria alla francese, sia un minuetto, sia una fuga, nelle quali appunto la grazia tende a emergere sopra ogni altra virtù.
Opere. - Ecco la cronologia, ancora approssimativa, delle opere, con l'indicazione dell'anno, del teatro, del titolo, del librettista: 1679, Capranica, Gli equivoci nel sembiante (Contini); 1680, Bernini, L'onestà negli amori (Parnasso); 1681, Accademici riuniti, Tutto il mal non vien per nuocere (De Totis), Roma; Il Lisimaco (?) (Baldosini, anagr. di Sinibaldo), Vienna; Amor non vuol inganni (librettista sconosciuto); 1682?, Anacreonte tiranno (Bussani); 1683, Colonna, Il Pompeo (Minato); Napoli, Palazzo Reale, La Psiche ovvero Amore innamorato (De Totis); 1685, Napoli, Palazzo Reale, Il Fetonte (De Totis); Olimpia vendicata (Aureli?); 1685, Napoli, Palazzo Reale, L'Ezio (?); Clearco in Negroponte (Arcoleo); 1687, Roma, in casa Capece, Il figlio delle selve (Capece); Gubbio, L'Aldimiro ovvero Favor per favore (De Totis); Napoli, Palazzo Reale, Dal male il bene (De Totis); 1688, Napoli, Palazzo Reale, La Rosmene ovvero l'Infedeltà fedele (De Totis); Il Flavio (?); 1689, Napoli, Palazzo Reale, L'amazzone corsara ovvero L'Alvilda (Corradi); 1690, (Ottoboni); Roma, Amb. di Francia, Gli equivoci in amore ovvero La Rosaura (Lucini); 1692?, Gerone tiranno di Siracusa (Aureli); 1693, Capranica, Teodora Augusta (Morselli); 1694, San Bartolomeo, Bassiano ovvero Il maggior impossibile (Noris); Roma, La Santa Genuinda (pasticcio); San Bartolomeo, Il Pirro e Demetrio (Morselli); 1695, San Bartolomeo, Le nozze con l'inimico ovvero L'Analinda (?); Napoli Palazzo Reale, Il Nerone fatto Cesare (Noris); San Bartolomeo, Massimo Puppieno (Aureli); 1696, San Bartolomeo, Il Comodo Antonino (Paglia); Capranica Il Flavio Cuniberto (Noris), pochissime arie aggiunte alla Penelope e alla Didone del Pallavicino già rappresentate a Venezia; 1697, San Bartolomeo, L'Emiremo ovvero Il consiglio dell'ombra (Paglia); Napoli, L'Ajace (d'Averana); San Bartolomeo, La caduta dei decemviri (Stampiglia); 1698, San Bartolomeo, La donna ancora è fedele (Contini); Napoli, Muzio Scevola (opera dubbia, Minato); San Bartolomeo, Il prigioniero fortunato (Paglia); Pratolino, Anacreonte (?); 1699, San Bartolomeo, completamento del Creonte di Pollaroli (David); Gli inganni felici (Zeno); 1700?, L'Ariovisto (?); Napoli, Dafni e Galatea (Manfredi); San Bartolomeo, L'Eraclea (Stampiglia); Odoardo (Zeno); 1701, San Bartolomeo, Laodicea e Berenice (Noris); Il pastor di Corinto (?); 1702, Napoli, Palazzo Reale, Iberio imperatore d' Oriente (Pallavicino); San Bartolomeo, Tito Sempronio Gracco (Stampiglia); 1703, Firenze, Arminio (Salvi); 1704, Pratolino, Turno Aricino (Stampiglia); 1705, Pratolino, Lucio Manlio (?); Roma, Amb. di Venezia, La Pastorella (?); 1706, Pratolino, Il gran Tamerlano (?); 1707, San Giov. Crisostomo, Il Mitridate Eupatore (Frigimelica Roberti); Il trionfo della libertà (Frigimelica Roberti); 1708, San Bartolomeo, L'humanità nelle fere ovvero Il Lucullo (?); Londra, Queen's Th., Pirro e Demetrio (7); 1709, San Bartolomeo, L'amor volubile e tiranno (Pioli); Il Teodosio (?); 1710, San Bartolomeo, La principessa fedele (Piovene); La fede riconosciuta (?); 1712, Roma, Il Ciro (?); 1713, San Bartolomeo, aggiunte al Porsenna (Piovene); 1714, San Bartolomeo, Scipione nelle Spagne (?), con intermezzi: La dama spagnuola, L'amor generoso (Papis), con intermezzi: Despina e Niso; 1715, San Bartolomeo, Il Tigrane (Lalli); 1716, San Bartolomeo, Carlo re d'Alemagna (?); La virtù trionfante dell'odio e dell'amore (?); Fano, La forza della fedeltà, uguale a Pirro e Demetrio; Napoli, Palazzo Reale, Merope (Zeno); 1717, Dresda, Vespetta e Milo, intermezzi al Giove di Lotti (Stampiglia); 1718, Capranica, Telemaco (Capece); Fiorentini, Il trionfo dell'onore (Tullio); 1719, San Bartolomeo, Camoise (Lalli); Capranica, Marco Attilio Regolo (?); 1720, Capranica, Tito Sempronio Gracco (rielaborazione, Stampiglia); 1721, Capranica, La Grisella (Zeno); Roma, La virtù negli amori (Lemer).
Oratorî (circa 20); Serenate (circa 20); 6 Madrigali; Cantate da camera per 1 e 2 voci (il Dent, nella sua monografia sotto citata, ne elenca 600 con basso continuo e 61 con accompagnamento di strumenti); Messe (circa 200); Concerti sacri, Mottetti a 1-4 voci, ecc.; Toccate e altre composizioni per cembalo; Sonate a 4, 2 viol. e cello; Suites, flauto e cembalo; Preludî e fughe, cembalo; 12 Sinfonie, orchestra da camera, ecc.
Edizioni moderne: Stabat Mater per soprano, contralto, 2 violini e basso continuo, rev. F. Boghen (Ricordi); Toccate, ecc., rev. F. Boghen (Ricordi); Cantate a 1 voce e basso continuo, rev.A. Toni (Notari); Comp. per clav., rev. A. Longo (Ricordi), Arie in Alte Meister ("Universal" Vienna), in Arie antiche di A. Parisotti (Ricordi), in Isori Album (Universal", Vienna), in Dodici arie antiche (Fantuzzi), in 30 arie antiche, rev. M. Zanon (Ricordi); altre arie e frammenti di cantate in Gloires d'Italie di F.A. Gevaert (Heugel), in Les maîtres du chant, Tailleferre (Heugel), in Antiche gemme italiane, Ricci (Ricordi); l'opera La Rosaura, in R. Eitner, Publikationen, ecc.
Bibl.: E. J. Dent, A. S. his Life and Works, Londra 1905; C. van den Borren, A. S. et l'esthétique de l'opéra napolitain, 1922; I. Shedlock, The harpsicord Music of A., S., in Samm. d. I. M. G., VI; A. Sandberger, Zur älter. ital. Klaviermusik, in Jahrbuch Peters, 1918; U. Prota Giurleo, A. S.., il Palermitano, Napoli 1926; A. Lorenz, A. S.'s Jugendoper, Augusta 1927; P. Fienga, La vera patria, ecc., in Revue musicale, X, 3; A. Della Corte, A. S. in una satira veneziana, in Riv. mens. della città di Venezia, 1930, luglio; A. Cametti, A. S. e la regina di Polonia, in Musica d'oggi, XIII, 2.