SCOTTI, Alessandro
SCOTTI, Alessandro. – Nacque a Montegrosso d’Asti (Asti), il 20 dicembre 1889, da Giovanni e da Luigia Bianco, ultimo di sette fratelli.
Il padre era un piccolo proprietario terriero e le modeste condizioni economiche della famiglia influirono in maniera significativa su una infanzia trascorsa a stretto contatto con il duro lavoro nei campi. Tuttavia, secondo un comportamento inscritto nelle più consolidate tradizioni del mondo rurale, la sua gracile costituzione indusse il padre ad avviarlo agli studi in un percorso che – dopo aver frequentato con successo i corsi organizzati dai fratelli delle scuole cristiane a Grugliasco – lo portò a conseguire il diploma di maestro elementare. Nel 1910 ottenne il suo primo incarico di insegnamento presso le scuole gestite dalla ROMI (Regia Opera Mendicità Istruita), a Torino, nel quartiere operaio di barriera di Nizza.
Quelli della sua giovinezza furono anni molto intensi, vissuti tra i doveri scolastici e un forte impegno nell’apostolato laico, nell’ambito delle attività promosse dai fratelli delle scuole cristiane per combattere le dottrine atee e materialiste che si stavano diffondendo nelle classi subalterne. Quando scoppiò la prima guerra mondiale, si arruolò con il grado di sottotenente nel battaglione Cervino del 4° reggimento alpini. Il cattolicesimo che aveva segnato la sua formazione si integrò allora con un patriottismo che gli derivava direttamente da una memoria risorgimentale vissuta sempre con grande trasporto nella sua famiglia e nella sua comunità contadina (il padre era stato bersagliere con Alfonso La Marmora ed Enrico Cialdini nel 1866). Sedotto dalla prospettiva di partecipare alla IV guerra di indipendenza, fu coinvolto in drammatici eventi bellici distinguendosi per il suo valore nella battaglia del Dente del Pasubio (9 ottobre 1916), dove meritò una medaglia di bronzo, e ottenendo in seguito due medaglie d’argento, una croce di guerra e una proposta per la medaglia d’oro.
La fine della guerra lo colse sulla strada per il Tonale, in Trentino, dove restò fino alla smobilitazione, come ufficiale addetto alla propaganda presso il comando della 5a divisione. Tornato a casa fu subito coinvolto nel grande tramestìo che agitava il mondo contadino negli anni del ‘biennio rosso’. Nell’agosto del 1919, due suoi articoli sul Popolo d’Italia (Il fante contadino ha fatto la guerra; I diritti del fante contadino) furono commentati favorevolmente da Benito Mussolini; poi, il 20 settembre 1919, partecipò, ad Alessandria, a una grande assemblea convocata per protestare contro una nuova tassa sul vino che sostituiva la vecchia imposta sul consumo con una tassazione all’origine, presso il produttore. Una delegazione – di cui faceva parte – fu inviata a Roma per chiedere al nuovo governo, presieduto da Francesco Saverio Nitti, la revoca del provvedimento.
La protesta era un piccolo focolaio se confrontato con il grande incendio che infiammò le fabbriche, le piazze, le campagne in quegli anni; pure ebbe una sua importanza, riuscendo a coinvolgere la quasi totalità dei piccoli vitivinicoltori dell’Astigiano che trovarono il loro leader naturale in suo fratello, Giacomo, il primogenito, di sedici anni più vecchio, un capo amato e rispettato, un patriarca contadino oltre che un autorevole esponente politico, destinato ad avere una grande influenza sul futuro del fratello minore.
Alle elezioni politiche del 16 novembre 1919, Giacomo, presentatosi come indipendente nelle liste del Partito popolare, fu eletto deputato; elezione riconfermata nel maggio del 1921. In quello stesso anno, in due successive riunioni, la prima il 18 settembre a Costigliole d’Asti, la seconda il 15 e il 16 ottobre ad Alba, fondò quel Partito dei contadini le cui sorti Alessandro avrebbe condiviso fino alla fine.
Si trattò di un’organizzazione politica tipica dello scenario sociale in cui riuscì a insediarsi con indubbio successo. La sua area di diffusione fu quella della coltura della vite e l’intreccio tra le esigenze agricole della zona e le istanze programmatiche del partito fu una costante che ne garantì un profondo radicamento elettorale. Il suo gruppo dirigente si era formato tutto all’interno della comunità assorbendone un pragmatismo di fondo che lo portava a impegnarsi di volta in volta su singoli obiettivi, su rivendicazioni specifiche, che puntavano a trasformare gli interessi dei contadini in valori da difendere e propagandare.
Con radici saldamente piantate in Piemonte, tra Alba e Asti, con qualche propaggine in Lombardia e in Liguria e qualche flebile presenza anche al Sud, il Partito dei contadini si caratterizzò subito nel senso di un autonomismo rurale – il suo motto era «Da noi!» – che, su scala minore, riproponeva alcune caratteristiche di altre formazioni politiche a base localistica e regionalistica – come il Partito sardo d’azione – tipiche di quella fase della nostra storia. Alle elezioni politiche del 1924 la lista del Partito dei contadini conquistò quattro deputati, di cui tre in Piemonte. Giacomo fu rieletto per la terza volta.
Nel frattempo, nel 1921, Alessandro aveva sposato Pierina Cavallero, intrecciando la sua vita privata con una militanza politica che lo portò a essere eletto consigliere provinciale e comunale a Montegrosso d’Asti. L’arrivo del fascismo sconvolse il piccolo mondo contadino. Una prima aggressione squadristica alla sua casa avvenne l’11 novembre 1922. Dopo un breve tentativo di dialogo, la rottura fu totale e definitiva. Il fascismo non poteva tollerare una forza politica che si rivolgeva ai suoi stessi interlocutori sociali, insidiandone il consenso in quel mondo rurale considerato nevralgico dal regime. L’assassinio di Giacomo Matteotti fece il resto. I fratelli Scotti si schierarono su posizioni decisamente antifasciste e Giacomo, il 9 novembre 1924, fu picchiato a sangue da un gruppo di squadristi arrivati dall’Alessandrino. Ne seguì lo scioglimento del partito e un lungo silenzio politico durato l’arco dell’intero ventennio. Giacomo morì nel 1936; Alessandro nel 1932 si trasferì con la famiglia (della quale erano parte i figli Elio, sacerdote salesiano, e Lilio, avvocato) a Torino, conducendo un’esistenza precaria e approdando infine all’insegnamento all’Istituto sociale dei padri gesuiti dove restò fino al 1940. Poi, con l’inizio della seconda guerra mondiale, fu richiamato in servizio e inviato a Fiume, impiegato presso l’ufficio censura della posta militare, rimanendovi fino al 1942, quando ritornò in Italia, continuando a svolgere le sue mansioni presso la prefettura di Alessandria.
Con l’8 settembre 1943 cominciò una nuova fase della sua vita, impegnato in una ‘resistenza contadina’ dai caratteri specifici, difficilmente riscontrabili nell’esperienza complessiva della lotta partigiana. Ritornato nelle sue colline, si impegnò – già a partire dal 20 settembre 1943 – nella costituzione di ‘squadre di autodifesa’ che assunsero un ruolo importante all’interno della comunità, provvedendo a varare una serie di misure annonarie, tributarie, venatorie e svolgendo un ruolo di supplenza di fatto nei confronti di un apparato statale dissoltosi nel marasma seguito all’armistizio e all’occupazione tedesca. Per quanto tra il settembre 1943 e la primavera del 1944 le ‘squadre’ si fossero astenute da ogni tipo di azione armata, la loro attività non poteva sfuggire alla sorveglianza dei fascisti di Salò; il 25 novembre riuscì a sottrarsi a un primo tentativo di arresto, convincendosi che, senza alcun margine di trattativa, l’impegno diretto nella lotta armata sarebbe diventato inevitabile. Così a partire dal marzo del 1944 le ‘squadre di autodifesa’ presero a chiamarsi ‘squadre rurali’ e confluirono in una formazione organica, la Colonna rurale Monviso, che raggruppava circa trenta partigiani, divisi in quattro compagnie. Pure in questa fase, tuttavia, il loro coinvolgimento in azioni di guerriglia fu molto sporadico così che ben presto i più impazienti dei giovani accorsi nelle sue file preferirono passare nelle altre formazioni, in particolare quelle garibaldine (la 10a divisione Garibaldi) comandate da Giovanni Rocca, ‘Primo’; Scotti a quel punto chiese di affiliarsi alle formazioni di Giustizia e Libertà guidate da Duccio Galimberti. Poi, il 2 agosto 1944, fu nuovamente arrestato; scarcerato dopo dodici giorni guardò impotente alla dissoluzione della Colonna Monviso i cui effettivi residui, alla fine, il 28 novembre 1944, preferirono aggregarsi alla 5a divisione autonoma, comandata da Enrico Martini Mauri.
Nonostante la sua brillante esperienza nella prima guerra mondiale, non era un capo militare ed era rimasto complessivamente estraneo allo spirito della Resistenza, a una dimensione partigiana venata più dalle rivendicazioni di classe che da quello spirito patriottico che gli era caro. La fine della guerra gli consentì tuttavia di riprendere un ruolo più direttamente politico a lui certamente più congeniale. Già il 3 maggio 1945 ad Alba, con un manifesto pubblico, annunciò la ricostruzione del Partito dei contadini. Il partito si definiva «non classista», ma consapevole della prevalenza agricola contadina, «centrista teso a uno sforzo di riconciliazione nazionale», «agnostico sulla questione istituzionale». Confermando il pragmatismo degli esordi, si impegnò in alcune rivendicazioni specifiche che andavano dall’«assicurazione statale contro le avversità atmosferiche», all’«equo prezzo garantito alla produzione», all’«istituzione del medico condotto di Stato». Il 9 gennaio 1946, sull’organo ufficiale del partito, La voce del contadino, scriveva: «Noi abbiamo risolto in noi e cioè nella stessa persona e nella maniera più perfetta il grande dissidio tra capitale e lavoro [...] poiché il piccolo proprietario è garanzia dell’ordine sociale ed è la base su cui possono fondarsi le condizioni stabili della vita di uno stato, per lui non esistono né gli scioperi né le serrate», ribadendo le tradizionali esigenze autonomistiche, l’impegno «per un radicale decentramento amministrativo a fondo regionale» e la diffidenza verso la capillare e asfissiante presenza di una burocrazia statale proliferata in modo abnorme nei venti anni del fascismo. Su queste basi, il Partito dei contadini riuscì a conseguire significativi successi elettorali proprio in quelle zone dove maggiore era stato il radicamento di Giacomo Scotti e dei suoi uomini; nell’Astigiano, alle elezioni amministrative del marzo-aprile 1946, il partito sopravanzò tutti gli altri, conquistando ventidue comuni su ottantotto (sedici la Democrazia cristiana, DC; quattordici la coalizione Partito comunista italiano-Partito socialista italiano di unità proletaria, PCI-PSIUP) e confermando la sua vittoria nella tornata del 27 ottobre, quando vinse in trentadue comuni su centotré (diciotto la DC, quindici la coalizione PCI-PSIUP). Alle elezioni per l’Assemblea costituente, il 2 giugno 1946, i contadinisti risultarono il terzo partito (dietro la DC e il PSIUP, ma lasciandosi alle spalle il PCI), ottenendo nella circoscrizione Cuneo-Asti-Alessandria, 70.724 voti e un deputato (proprio Alessandro Scotti). Oltre il 70% del suo elettorato era concentrato nell’Astigiano, traducendo in un dato politico il dato statistico-economico della rilevanza del trinomio collina-viticoltura-piccola proprietà coltivatrice che caratterizzava quella zona (nel 1946, su 140.000 ettari della superficie agraria dell’Astigiano, un terzo era coltivato a vite).
Nello stesso collegio elettorale fu rieletto nelle elezioni politiche del 18 aprile 1948 e ancora in quelle del 1953, quando si presentò in liste varate insieme ai monarchici del PNM (Partito Nazionale Monarchico). Nel 1958, ‘apparentatosi’ con il movimento Comunità fondato da Adriano Olivetti, non fu più rieletto. La sua carriera politica era finita, così come il suo Partito dei contadini. La dissoluzione era stata anticipata da una sequenza micidiale di scissioni, accordi elettorali contraddittori, rivalità personalistiche, liti furibonde con i democristiani. Sintomi di una crisi strisciante che investiva il partito, ma soprattutto investiva le sue basi strutturali, segnando il declino di quei piccoli coltivatori i cui desideri e i cui slanci aveva saputo interpretare con grande efficacia. Quel mondo era finito con il boom economico. E la fortuna politica di Scotti non gli sopravvisse. Morì a Costigliole d’Asti il 19 maggio 1974: «Il mio è stato un nobile tentativo per dare coscienza e dignità alle masse rurali. Non fu compreso, non fu aiutato, fu combattuto, non fu sostenuto dalla massa contadina che si disperse, che rinunciò alla lotta per la propria indipendenza politica», fu l’amara conclusione del suo testamento spirituale.
Tra gli scritti (oltre a quelli citati) si ricorda L’alpino delle Melette, in Il nostro tempo, 30 gennaio 1972.
Fonti e Bibl.: Torino, Istituto piemontese per la storia della Resistenza Giorgio Agosti, Fondo Scotti (7 buste contenenti un migliaio di carte ordinate cronologicamente; la busta 1 contiene dattiloscritti inediti di Alessandro Scotti: Storia del battaglione Cervino dal 15 novembre al 4 dicembre 1917; I bambini della scuola italiana di Merano nei loro caratteristici costumi tirolesi; Alla memoria di Antonio Rigetti; Eroismo e umiltà).
E. Archimede, Il movimento contadino nell’Astigiano, 1919-1969, tesi di laurea, Università di Torino, a.a. 1969-70; L. Demartini, La nascita del partito dei contadini d’Italia, tesi di laurea, Università di Torino, a.a. 1969-70. S. Soave, Il tema dell’autonomia e i rapporti con il fascismo nell’esperienza del partito dei contadini d’Italia, in Notiziario Isrcep, aprile 1974, n. 5, pp. 21-34; R. P., Pagine inedite della Resistenza. A. S. un protagonista della liberazione, in Gazzetta d’Asti, 23 giugno 1977, n. 25, pp. 2 s.; O. Bo, Per fare gli interessi di tutti i rurali, in Giorni, 1982, n. 6, pp. 11-16; G. Milani, Il movimento contadino nel Monferrato e il Partito dei contadini d’Italia, ibid., pp. 17-21; G. Brandone, Quando si votava contadino. Da Prunotto a Cerruti: per una storia del Movimento rurale in Piemonte, Asti 1983; G. De Luna, A. S. e la storia del partito dei contadini; in appendice Memorie personali di A. S., Milano 1985; Camera dei deputati, Portale storico, ad nomen.