TASSONI, Alessandro
Nacque a Modena il 28 settembre 1565, dal conte Bernardino e da Sigismonda Pellicciari. Orfano di entrambi in età tenerissima, rimase affidato al nonno materno e a uno zio, che lo avviarono allo studio del diritto. Frequentò le università di Bologna, di Pisa e di Ferrara; e a Ferrara, probabilmente, si laureò. Trascorse poi alcuni anni a Modena e a Nonantola, abbandonandosi agl'impeti della sua indole prepotente e vendicativa, che gli procurò anche un processo. Eppure già dal 1589 era iscritto all'accademia della Crusca, col nome di Brullo. Benché avesse un buon patrimonio, fu per tutta la vita avido di denaro, e al denaro, oltre che agli onori, pensava certo quando, nel 1597, si decise a trarre profitto dalla sua dottrina trasferendosi a Roma, "portofranco dei postulanti e degli ambiziosi". Tuttavia solo nel 1599 gli riuscì d'iniziare la carriera delle corti, entrando come primo segretario al servizio del cardinale Ascanio Colonna, che, nel 1600, seguì in Spagna. Il cardinale lo rimandò poi a Roma a chiedere per lui a Clemente VIII il permesso di assumere il vicereame dell'Aragona; e, grato del modo con cui assolse la missione, lo nominò, nel 1603, amministratore generale di tutti i suoi beni in Italia. Mentre si trovava in Spagna, il T. seppe che l'inquisizione di Modena lo accusava di stregoneria per avere regalato a una donna un'ampollina contenente un diavoletto (si trattava di un giocattolo). Si difese con acre arguzia inviando il 9 febbraio 1602, da Valladolid, al vicario dell'Inquisizione modenese, una lettera che è tra le più notevoli di lui. Per ragioni che ignoriamo, alla fine del 1603, o sui primi del 1604, il T. lasciava la corte del Colonna per vivere libero in Roma, dove attese a scritture che destarono violente polemiche, ma gli procurarono anche fama e onori, come l'iscrizione all'Accademia degli Umoristi, della quale fu pure principe. Ospite per parecchi anni del munifico cardinale Bartolomeo Cesi, e del card. Alessandro d'Este, e vanamente proposto nel 1614 come segretario di Paolo V, s'illuse di avere maggior fortuna rivolgendosi alla casa di Savoia. Ammiratore del duca Carlo Emanuele I, nel quale vedeva la salvezza d'Italia dal giogo spagnolo, si fece, da Roma, informatore politico della corte di Torino, scrivendo ai suoi amici conte di Polonghera e conte dì Verrua, già ambasciatori sabaudi presso il papa, numerose lettere, dense di acute osservazioni e di utili notizie. In compenso ebbe da Carlo Emanuele I promesse di doni in denaro e di una pensione; ma dovette attendere sino al 1618 per ottenere la nomina di segretario dell'ambasciata sabauda in Roma e di gentiluomo ordinario del cardinale Maurizio. Per essere più libero accettò solo la carica di gentiluomo. Grazie ai buoni uffici del Verrua, nel 1619 fu invitato a trasferirsi a Torino come "primo segretario delle lettere e de' complimenti" del cardinale Maurizio; ma la gelosia di altri segretarî, e la sua nota avversione alla politica ispanofila, che in quel momento il duca seguiva, gli resero il soggiorno torinese difficile e amaro. Si trasferì allora a Saluzzo, finché, nel febbraio del 1621, si vide rimandato a Roma con il card. Maurizio, che tuttavia già nel luglio lasciava bruscamente, tenendo poi verso di lui un contegno così sprezzante che il principe, col pretesto che avesse divulgato un oroscopo poco onorevole a suo riguardo, lo fece bandire dalla città. Per la clemenza del papa, l'esilio ebbe la durata di dieci giorni soli; ma il T. nulla più poté attendersi dalla corte di Torino. Intorno a queste sfortunate sue relazioni con i principi di Savoia stese, nel 1627, un Manifesto, il quale, anziché una sua giustificazione, è un violento atto di accusa contro la casa sabauda; lo tenne però inedito, fra le sue carte, sicché fu stampato solo nel 1856 da G. Campori.
Ritiratosi a vita privata, cercò rifugio negli studî e nelle cure date all'orticello del suo casino sulla Lungara, che coltivava egli stesso per domare "l'ambizione con la vanga"; ma il cuore gli doleva, e tornava alle corti. Già nel 1621 era in trattative per entrare al servizio del cardinale Ludovisi, che solo nel 1626 lo accolse. Morto il Ludovisi, si rassegnò, nel 1632, a passare alla corte modenese come "gentiluomo di belle lettere" del duca Francesco I suo naturale signore: una sinecura. Placido tramonto dunque; pur lo riprese l'umore litigioso e vendicativo, anche in quegli anni ultimi. Sopravvennero malanni fisici, i quali non gli tolsero l'umor bizzarro che si rivela anche nei testamenti. Ben sette se ne contano fra il 1609 e il 1635, e nel primo sono già parole molto significative perché scritte a 44 anni: "Ringrazio Dio creatore del tutto... che mi abbia fatto nascere uomo e non bestia; maschio e non femmina; Italiano e non Barbaro". Si spense in Modena il 25 aprile 1635, e là fu sepolto nella chiesa di S. Pietro.
La prima opera che il T. diede alle stampe fu un libretto intitolato Parte de' quesiti del Sig. Alessandro Tassoni modenese, apparso in Modena nel 1608, e contenente 151 quesiti di varia materia, che piacquero ai contemporanei, tanto che egli, pur affermando trattarsi di abbozzi toltigli di mano ed editi senza la sua approvazione, sentì il bisogno di ripubblicarli nel 1612, e poi ancora nel 1613, accresciuti a 232, e divisi in nove libri col titolo Varietà di pensieri. Nel 1620 aggiunse altri quesiti e un decimo libro, e diede a tutta la raccolta un titolo definitivo: Dieci libri di pensieri diversi di A.T., ecc.; i primi cinque trattano di cose fisiche, il sesto di questioni morali, il settimo di questioni letterarie, l'ottavo di questioni politiche, il nono di poetiche e storiche, il decimo del "paragone degl'ingegni antichi e moderni". Tuttavia l'opera non ha nulla di organico e non risponde ad alcun sistema filosofico o scientifico. Il T. vi sfoggia la sua vasta cultura e il suo singolare acume critico, ma, indulgendo alla sua indole bizzarra e al gusto di apparir nuovo e originale, accumula accanto a problemi indubbiamente gravi e ardui, questioni futili o addirittura ridicole, o comunque antiscientifiche, presentate però con tutta serietà. Da questa farraginosa raccolta si aspettava fama grande e duratura, ma s'ingannò, perché l'importanza del libro, che in tempi recenti fu alquanto esagerata rispetto alla storia della scienza e del pensiero, è quasi solo nell'antiaristotelismo che lo ispira. Comunque, se è forse troppo dire che valse ad accelerare la caduta dell'aristotelismo esso deve sicuramente annoverarsi tra i documenti più significativi e appassionati della ribellione degli spiriti liberi al giogo della tradizione. Da notare, tuttavia, che il T. non capì taluni effettivi progressi della scienza, dovuti al nuovo metodo, per es. il sistema copernicano e galileiano, che tentò anzi di confutare con troppa superficialità. Importanza storica particolare ha il libro decimo, nel quale, meglio che nei precedenti, è già delineata e discussa la questione che sotto il titolo di Querelle des anciens et des modernes doveva poi fare tanto rumore in Francia dopo la metà del Seicento; e non è da escludere che, diffusa tra gl'italianisants, l'opera del T. abbia avuto diretta influenza sul pensiero francese. Il T. è per la superiorità dei moderni, in base ad argomentazioni di carattere nazionale o religioso, che erano del resto già state messe avanti da alcuni cinquecentisti. Egli è soprattutto accanito contro Omero (libro IX), che vuol far apparire inferiore agli epici moderni, e del quale mette in rilievo i presunti difetti con un linguaggio irriverente.
Lo stesso bisogno di ribellarsi al giudizio corrente ispira in gran parte anche le Considerazioni sopra le rime del Petrarca, buttate giù sulla fine del 1602 in viaggio, e poi riprese più volte con molta pazienza fino a lasciarne quattro redazioni, due delle quali date alle stampe nel 1609 e nel 1611. Il T. si propose di "notar le cose non imitabili, additar le più nobili, dichiarar passi oscuri, e difendere il poeta da varie opposizioni"; ma siccome lo mossero a scrivere certe "zucche secche" incapaci di veder salute all'infuori del petrarchismo e del Petrarca, così mise insieme, meglio che un commento, un'opera letteraria originale, piena di sali, ricca di digressioni, di citazioni, di raffronti con altri poeti (anche con i provenzali). Sui singoli componimenti del Petrarca ha spesso osservazioni critiche e postille acute e calzanti, di cui tennero e tengono conto i commentatori posteriori; sennonché data l'indole del T. non è da stupirsi che si abbandonasse a un linguaggio irrispettoso, non solo nei riguardi dei petrarchisti e dei marinisti, ma dello stesso Petrarca. Ne nacque uno scandalo, e un giovane studente di medicina dell'università di Padova, Giuseppe degli Aromatari, forse per incitamento e consiglio di Cesare Cremonino, suo maestro, diede fuori, nel 1611, un volumetto di Risposte alle Considerazioni del Sig. A. Tassoni. In poco più di due mesi il T. compose e pubblicò una sua violenta difesa col titolo Avvertimenti di Crescenzio Pepe di Susa al Sig. Giosefo degli Aromatari (Modena 1611); e poiché due anni dopo l'Aromatari osò tornare alla carica con certi tediosi Dialoghi di Falcidio Melampodio (Venezia 1613), il T. gli scagliò contro, sulla fine dell'anno medesimo, un altro vivace e mordace libro: La Tenda rossa, risposta di Girolamo Nomisenti ai dialoghi di Falcidio Melampodio (Modena 1613). La polemica ebbe poi anche strascichi giudiziarî.
Tra la fine del 1614 e l'inizio del 1615, senza indicazione di luogo e di anno e senza nome di autore, vennero stampate, col rispettivo titolo di Filippica I e Filippica II, due orazioni veementi "ai principi e cavalieri d'Italia", che fanno parte della vasta letteratura politica antispagnola, sorta allora intorno a Carlo Emanuele I, e sono anzi, di quella letteratura, le pagine più eloquenti e più belle. Ritraggono in poche linee efficaci la triste condizione degli stati italiani e la decadenza della Spagna, confutano le accuse mosse al duca di Savoia, ed esortano i principi ad aiutarlo nell'opera generosa di liberare l'Italia. Si è discusso a lungo se debbano ritenersi scrittura del T., il quale, nel Manifesto sopra ricordato, dichiara, anzi "giura a Dio", di non averle composte lui, e le attribuisce a un ignoto Fulvio Savoiano. Ma, dati i pericoli di vendetta da parte degli Spagnoli a cui si sarebbe esposto confessando la sua paternità, quel giuramento è tutt'altro che probativo, e resta sempre altamente verosimile che sue, e non di F. Testi, come pur s'è voluto credere, o di altri, siano le due Filippiche. Sicuramente sua è poi un'altra italianissima scrittura uscita anonima nel 1617, la Risposta al discorso che, in quell'anno stesso, un Soccino genovese aveva pubblicato per dimostrare la "giustizia dell'imperio degli Spagnuoli in Italia". La Risposta è, per eloquenza e per sagacia polemica, degna sorella delle Filippiche.
Intorno al 1614 il T. ideò il suo capolavoro: La Secchia rapita, poema "eroicomico" in ottave, e lo stese rapidamente fra il 1614 e il '15, in dieci canti, che sottopose poi a un lungo lavoro di lima. Nel 1617 il poema crebbe di mole, avendo il poeta introdotti, fra il nono e il decimo, altri due canti. Stampata la prima volta a Parigi nel 1622 sotto finto nome, l'opera ebbe fortuna rapida e sicura, che durò oltre la vita dell'autore, e nei secoli successivi, ed è attestata, oltre che dalle molte edizioni, anche dalle traduzioni in varî dialetti e in lingue straniere, nonché dalle imitazioni che ne fecero poeti mediocri e insigni. Né è fortuna che possa cessare, perché la Secchia rapita ha, oltre che un singolarissimo valore storico, pregi d'arte che non temono il tempo.
L'argomento prende le mosse da un fatto storico, poiché i Modenesi rapirono davvero un'umile secchia ai Bolognesi inseguendoli fin sulle soglie della loro città dopo la battaglia di Zappolino nel 1325; ma della storia e della cronologia il poeta si serve con tutta libertà, piegandole ai giuochi della sua fantasia per trarne un gustoso guazzabuglio. I Modenesi, che non vogliono rendere la secchia, si rivolgono a Federico II (morto, come ognun sa, quasi un secolo avanti), e ottengono che mandi loro in aiuto il figlio Enzo, re di Sardegna. Arde la guerra, a cui partecipano anche gli deì dell'Olimpo. I Modenesi prendono Castelfranco (fatto storico del 1323); poi, abbandonati da Marte per volontà di Giove, sono sconfitti in campo aperto, e lasciano re Enzo in mano ai nemici (battaglia della Fossalta, che è del 1249). Il conte di Culagna, guerriero pronto sempre a scappare davanti al pericolo, corre ad annunziare il disastro a Modena atterrita; ma un'eroina, Renoppia, alla testa di una schiera di donne, aiutata dal capitano Gherardo, riesce a mettere in fuga i Bolognesi. Questi, impensieriti perché Ezzelino si prepara ad assalirli (evento del 1247), offrono pace. Segue una tregua di dieci giorni, durante la quale un misterioso cavaliere sfida a tenzone i migliori campioni dei due campi: il vincitore avrà in premio la bella Renoppia. Sennonché tutti gli eroi sono sbalzati di sella, tranne il conte di Culagna, fra la meraviglia generale, che si muta in alte risa quando si apprende che il cavaliere misterioso non poteva essere vinto che dal maggior codardo che fosse al mondo. Ma il conte è ormai innamorato di Renoppia, e decide perciò di sbarazzarsi col veleno della propria moglie. Ed ecco che va a confidare il suo disegno proprio all'amante di lei, il guerriero romanesco Titta; così il veleno, che per fortuna è solo un energico drastico, finisce in corpo al conte, mentre la moglie si rifugia nella tenda di Titta, dove, non riconosciuta, viene dal marito stesso esortata a darsi all'amante. Quando scopre la beffa, il conte sfida a duello Titta, e al primo colpo scambia per effetto di mortale ferita il rosseggiare di un nastro scioltosi sulla sua armatura. Finita la tregua, la guerra è ripresa, i Bolognesi sono vinti, e il legato del papa riesce a concludere la pace a condizione che i Modenesi si tengano la secchia e i Bolognesi re Enzo.
A questa materia il T. volle dare la forma di un poema epico regolare con unità d'azione, fondamento storico, uso del meraviglioso, rassegne d'eserciti, ecc., tenendo naturalmente presenti, anche per particolari episodî, Omero e Virgilio, nonché l'Ariosto e il Tasso. Nel tempo stesso credette di avere inventato una nuova specie di componimento "tutto misto", cioè composto di parti serie e di parti facete, che fossero giustificate pienamente, le une e le altre, dall'argomento; ma è superfluo avvertire che l'originalità dell'opera non è nelle apparenze formali.
Si è discusso e si discute sulla genesi precisa del poema, ma in realtà, dal giorno in cui V. Santi ha con pazienti indagini dimostrato che i personaggi e i fatti della Secchia non sono altro che il travestimento di fatti e personaggi contemporanei del T. (rivalità e liti e zuffe fra Modenesi e Bolognesi per questioni d'acque e di confini), è impossibile negare al poema la finalità precipua di dileggiare la boria, la viltà e la ribalderia dei suoi tempi (nel conte di Culagna è ferocemente deriso Alessandro Brusantini, nemico personale del poeta): satira, dunque, che se anche non rispecchia idealità ben ferme e alte, che invano si richiederebbero alla tempra morale del T., e fa suo bersaglio preferito la gretta società modenese del primo Seicento, non dimentica peraltro di sollevarsi oltre i confini regionali per colpire i mali che affliggevano la vita di tutta la nazione, come lo spagnolismo vacuo e pomposo, e le magagne del clero, dai cardinali ai curati di campagna. Satira sociale, che del resto non esclude, ma comprende, anche la satira letteraria; e in questo campo i colpi del T. vanno non solo ai poemi eroici e cavallereschi, allora pullulanti d'ogni parte, ma alla stessa lirica marinistica.
Quanto alla satira personale, ignoriamo le vere ragioni dell'odio che animava il Tassoni contro Alessandro Brusantini; ma che il poema sia nato soprattutto da quell'odio è da escludere, anche per il solo fatto che l'epopea burlesca del conte è narrata proprio nei due canti aggiunti alla prima stesura.
Nei rispetti dell'arte il poema non poteva non risentire delle intenzioni pratiche dell'autore. Ritrarre sotto la maschera del Medioevo la società e la cronaca contemporanea, era già porsi dei limiti duri. Altri gli vennero dallo stesso impegno di affiancare pagine serie a pagine comiche, mentre l'indole del T. era soprattutto incline al sarcastico e al beffardo. Le parti serie, tranne l'episodio di Diana ed Endimione nel canto VIII, non valgono infatti molto più di quelle che ci offrono gl'innumerevoli poemi epici del Seicento; né i frequenti trapassi dal serio al ridicolo, cioè i tratti più propriamente eroicomici, sono sempre indovinati. Ma è fuori di dubbio che bastano a salvare l'opera d'arte le parti in cui rifulge la capacità del poeta di cogliere il comico dei personaggi e degli atti con poche note brevi ed essenziali, che valgono a disegnare vere e proprie caricature.
Neanche gli manca la capacità superiore di creare caratteri; come dimostra soprattutto il conte di Culagna, che è figura viva al difuori della realtà storica ond'è germogliato, anche se per qualche tratto possa ricordare Don Chisciotte, del quale egli stesso si vanta discendente. Accanto a lui, sebbene abbiano un minore rilievo, vivono il suo antagonista Titta, romanesco vanaglorioso, e il Potta, e Renoppia.
Complesso di movenze e di motivi, espressione di uno spirito bizzarro aperto agli stimoli e agl'interessi più disparati, dai quali si lascia volentieri sedurre, il poema manca innegabilmente di vera e salda unità estetica; tuttavia rimane leggibile e godibile, non solo negli episodî più felici, come il concilio degli dei (c. II) o le imprese del conte di Culagna (canti X e XI), ma in tutti i canti, perché in tutti il poeta riesce a rompere la monotonia delle gesta serie con lo scoppiettio della sua risata, che è schietta anche quando, per difetto di sentimento, si rivela superficiale, grottesca, o magari inopportuna.
Analoghe attitudini di artista del comico appaiono in un manipolo di sonetti satirici, alcuni dei quali devono dirsi veramente felici. Mediocrissimo è invece il primo canto di un poema serio sulla scoperta dell'America, l'Oceano, che probabilmente il T. cominciò avanti di scrivere la Secchia rapita, e poi lasciò in tronco per i giusti moniti della sua coscienza di poeta.
Altri scritti il T. lasciò inediti, e furono pubblicati solo in tempi moderni. Notevole fra essi una Difesa di Alessandro Macedone, tre dialoghi scritti a proposito del c. XII dell'Inferno. Intorno a Dante e ad altri poeti lasciò postille non prive d'interesse; inediti tuttora il compendio e la continuazione degli Annali del Baronio. Ma non si tratta di lavori che possano mutare la fisionomia del T. quale è ormai fissata per merito della Secchia rapita: quella cioè del maggiore umorista italiano del secolo XVII.
Belle e importanti sono le lettere, delle quali si hanno a stampa due soli volumi. Esse rispecchiano non soltanto la vita del poeta, ma anche il suo animo beffardo, ricco di contrasti, incline spesso alla malignità e al paradosso, ma non cattivo; e sono scritte con la stessa vivacità, sobrietà e arguzia che ammiriamo nelle Filippiche e nelle prose polemiche.
Edizioni: Prose politiche e morali di A. T. (le Filippiche, la Risposta al Soccino, il Manifesto e larga scelta dei Pensieri), a cura di G. Rossi, Bari I930; Opere minori (scelte), a cura di G. Nascimbeni e G. Rossi voll. 3, Roma 1926; la Secchia rapita, l'Oceano e le Rime, con note di P. Papini, Firenze 1912; la Secchia rapita, con note di F. L. Mannucci, Torino 1928; la Secchia rapita, testo originario in dieci canti, a cura di C. Angeli con introduz. di G. Bertoni, Modena 1935; le Filippiche, a cura di F. Bianchi, ediz. del 3° centenario, Modena 1935; Difesa di Alessandro Macedone, a cura di G. Rossi, Livorno 1904; Lettere di A. T., a cura di G. Rossi, I, Bologna 1901, II, ivi 1910.
Bibl.: G. Rossi, Saggio di una bibl. ragionata delle opere di A. T., Bologna 1908; A. Boselli, Bibl. della Secchia rapita, in Atti e Mem. della Deput. di storia patria per le prov. modenesi, s. 5a, X (1916).
Per la biografia: L. A. Muratori, Vita di A. T., in testa all'ediz. della Secchia rap., Modena 1744; G. Tiraboschi, in Biblioteca modenese, ivi 1784, V, p. 180 segg.; Dubois-Fontenelle, Vie de P. Aretin et de T., Parigi 1768; J. Cooper Walker, Memoirs of A. T., Londra 1815; G. Campori, Appunti intorno ad A. T., in Indicatore modenese, 1852; id., Processo di A. T. in Bologna, in Atti e mem. della R. Deput. di st. patria per le provincie di Modena e Parma, VIII (1876); T. Sandonini, A. T. e il S. Uffizio, in Giorn. stor. d. lett. ital., IX, p. 345; A. Bertolotti, I testamenti di A. T., in Rivista europea, 1877; id., Un testamento di A. T., ibid., 1881; O. Raselli, Ancora dei testamenti di A. T., Firenze 1877; F. Nunziante, Il conte A. T. ed il Seicento, Milano 1885; G. Rua, A. T. e Carlo Em. I di Savoia, in Giorn. stor. d. lett. ital., XXXII, p. 281 segg.; V. Santi, A. T. e il card. Ascanio Colonna, in Atti e mem. della R. Deput. di st. patria per le provincie modenesi, s. 5a, II (1902); id., A. T. fra malfattori e parassiti, in Giorn. stor. d. lett. ital., XLIII, p. 259 segg.; id., Il fico di A. T., in Memorie della R. Accademia di scienze, lett. e arti di Modena, s. 3a, XIV (1921); Miscellanea tassoniana di studi storici e letterari, Modena 1908; V. G. Rossi, T., Milano 1931.
Per le opere: Sui Pensieri: F. Pitoni, Sopra i pensieri diversi di A. T., Livorno 1882; L. Ambrosi, Sopra i Pensieri di A. T., Roma 1896; G. Setti, Il T. erudito e critico d'Omero, in Atti del R. Ist. veneto, LXVI, ii (1907); H. Naef, Due contributi alla storia dei Pensieri di A. T., Trieste 1911. - Sulle Considerazioni: O. Bacci, Le Considerazioni sopra le rime del Petrarca di A. T., Firenze 1887; A. Tortoreto, Il Canzoniere nelle Considerazioni del T. e del Muratori, in Parma e F. Petrarca, Parma 1934. - Sulle prose politiche: E. Errera, Sulle Filippiche di A. T., Firenze 1880; G. Rua, L'epopea savoina alla corte di Carlo Em. I, in Giorn. stor. d. lett. ital., XXVII, p. 230 segg.; D. Perrero, Le due prime Filippiche sono opere di A. T., in Giorn. stor., XXXV, p. 34 segg.; G. Rua, Di nuovo intorno alle Filippiche, ibid., XXXVI, p. 29 segg.; F. Bartoli, F. Testi autore di prose e poesie politiche, Città di Catello 1900; G. Rua, Letteratura civile ital. del Seicento, Milano 1910; V. Di Tocco, Ideali di indipendenza in Italia durante la preponderanza spagnuola, Messina 1926, pp. 93-102, 149-52. - Sulla Secchia rapita: U. Ronca, La Secchia rapita di A. T., Caltanissetta 1884; V. Santi, Paolo ed Alessandro Brusantini nella storia e nella Secchia rapita, in Rassegna emiliana, 1888; G. Carducci, A. T., in Primi saggi, Bologna 1889; G. Nascimbeni, Il consiglio degli Dei nella Secchia rap., Modena, 1890; U. Polesella, Motivo e valore politico della Secchia rapita, Milano 1895; G. Maruffi, Il fine della Secchia rapita, in Rassegna emiliana, 1889, pp. 81-98; D. Vinci, A. T. e il suo secolo, Napoli 1893; F. M. Chicco, L'umorismo e la Secchia rap., Parma 1894; O. D'Uva, Il realismo nella Secchia rapita, Trani 1903; G. Rossi, Il processo del conte di Culagna, in Rassegna bibl. d. lett. ital., XIII (1905), p. 235; V. Santi, La storia nella Secchia rapita, in Mem. dell'Accad. di Modena, s. 3a, VI (1906), e IX (1909); cfr. G. Nascimbeni, in Giorn. stor. d. lett. ital., XLIX, p. 396 seg. e LVII, p. 85 segg.; M. Fiori, A. T. e le questioni sulla Secchia rapita, Ascoli 1910; A. Fumagalli, La Secchia rapita, in Riv. d'Italia, 15 ottobre 1911; G. v. Glanesapp, A. T. und sein Geraubter Eimer, Dresda 1911; E. Messana, La Secchia rapita di A. T., Palermo 1915; E. Giorgi, A. T. e la Secchia rapita, Trapani 1921; N. Busetto, A. T. e la Secchia rapita, in Studi e profili letterari, Milano 1929; A. Pompeati, Unità e valore della Secchia rap., in Il Marzocco, 1929, n. 9; A. Momigliano, La Secchia rapita, in Corriere d. sera, 17 maggio 1930; G. Reichenbach, Motivi pratici ed elementi poetici nella Secchia rapita, in La nuova Italia, 1934, nn. 4 e 5; G. Bertoni, La più antica redazione della Secchia rapita, in Nuova Antologia, 16 marzo 1935; id., La satira tassoniana, in L'Italia che scrive, 1935; id., A. T., discorso commemorativo, Modena 1935. - Per le opere minori: C. Steiner, Cristoforo Colombo nella poesia epica ital., Voghera 1901; G. Rossi, Studi e ricerche tassoniane, Bologna 1904; G. Nacimbeni, Le poesie burlesche del T., in Giorn. stor. d. lett. ital., XLIII (1914), p. 311 segg.; G. Lipparini, Il T. minore, in Divertimenti, Milano 1930. - Per l'iconografia: A. Pedrazzi, Iconografia tassoniana, Modena 1935.