VERRI, Alessandro
Letterato e romanziere, nato a Milano il 9 novembre 1741, morto a Roma il 23 settembre 1816. Fratello di Pietro V., studiò nel collegio imperiale dei Barnabiti, poi attese alla giurisprudenza, e fu curiale, per volere del padre Gabriele. La natura sua lo spingeva alle lettere, e ancora ventenne lavorava negli archivi a comporre una storia d'Italia, da Romolo al 1761, a scopo divulgativo. Vi lavorò 5 anni, ma poi l'opera rimase manoscritta e fu abbandonata per sempre. Alessandro aveva conosciuto Roma, si era invaghito della marchesa Boccapadule, gli pareva impossibile viverne lontano; ma nella città dei papi la sua storia, ispirata a liberi sentimenti, non gli assicurava una vita senza angustie e senza litigi. Già prima di lasciare Milano aveva pur dato qualcosa alle stampe: una trentina di scritti varî, nelle colonne del Caffè, quale membro della Società dei Pugni, seguace dell'enciclopedismo, in guerra con i pedanti e con i puristi, innamorato del pensiero europeo sino a fare rinunzia, avanti notaio, al vocabolario della Crusca, per rendere omaggio al pensiero nuovo anche con il sacrificio della forma, giusta il motto "cose non parole". Ben diverso fu il V. a Roma, dove divenne un classicista e tale si dichiarò, e giudice severo degli enciclopedisti, ma pre-romantico nello spirito che trasfuse in tutte le sue pubblicazioni.
Tradusse in prosa, dallo Shakespeare, l'Amleto (1768) e l'Otello (1777) e del teatro inglese fu imitatore nei suoi tentativi drammatici, la Congiura di Milano e la Pantea (Livorno 1779). Egli vuol seguire la verità e la natura, vuol essere fedele alle fonti storiche, predilige soggetti nazionali, viola le tre unità, tende all'analisi psicologica, riabilita la dignità eroica. Rappresentate, queste tragedie furono accolte con freddezza. Maggiore fortuna ebbero i suoi romanzi. Più volte edite e tradotte le Avventure di Saffo (Padova 1782), dove è raffigurata una Saffo purissima - in cui si rieonoscono echeggiati i motivi del Werther - condotta al suicidio da un primo amore infelice. Ancor più fortunate le Notti Romane, dapprima tre (Roma 1792) poi sei (ivi 1804), con molte ristampe e traduzioni, di una fama popolarissima fino alla prima metà, circa, dell'Ottocento; messe in terza rima dall'ab. Sanguinetti, e più volte imitate. Il V. imagina le ombre degli illustri Romani a colloquio intorno ai sepolcri degli Scipioni, scoperti nel 1780 sulla Via Appia; ed egli stesso le guida, al lume della luna, per i colli e i rioni a confrontare l'antica e la moderna Roma, e le fa esultare alla visione della patria, per il suo fiorire eterno, quasi mezzo perpetuo scelto dalla provvidenza del cielo a produrre le più meravigliose vicende sulla terra. L'opera, che ricorda le Notti dello Young, ripete lo stile manierato ed enfatico del precedente romanzo, conforme a quello spiritualismo fantastico d'oltretomba che ebbe allora fortuna, e si assumeva il compito di glorificare, contro la violenza romana, i nuovi principî di umanità. Frutto d'ingegno svaporato parve al Giordani l'ultimo romanzo del V., la Vita di Erostrato (Roma 1815), dove è studiata la passione della gloria, capace, se insoddisfatta, di condurre a reati. Vi è forse adombrata, così intesero i contemporanei, l'infelice gesta napoleonica.
Bibl.: A. Levati, Elogio funebre del conte A. V., Milano 1818; G. A. Maggi, Vita di A. V., ivi 1822; L. Ferrari, Del "Caffè", periodico milanese del sec. XVIII, Pisa 1899; A. Leprieri, Studio biogr. critico su A. V. e le Notti romane, Roma 1900; U. Ucerra, I romanzi di A. V. e l'influenza d. letter. franc. e inglese, Aversa 1912; E. Greppi, Un'opera inedita di A. V. sulla storia d'Italia, in Arch. st. lombardo, XXXII (1905); G. Natali, Il Settecento, Milano, 1929.