Alessandro VII
Fabio Chigi nacque a Siena il 13 febbraio 1599, da Flavio, discendente del "magnifico" Agostino, e da Laura Marsili. Trascorsi a Siena in un fecondo fervore intellettuale gli anni della sua giovinezza, formandosi, specie alla scuola del letterato Celso Cittadini, quel gusto erudito e, pare da autodidatta, quel gusto artistico che impronteranno i suoi interessi di uomo di cultura, la sua bibliofilia e il suo splendido mecenatismo da pontefice, si trasferì nel dicembre 1626, compiuti gli studi giuridici, a Roma per iniziarvi la carriera curiale.
I rapporti con l'ambiente di Rota, con l'auditore e poi decano Clemente Merlini, ma anche i legami con i circoli colti romani, che egli seppe avviare ben presto, gli valsero nel 1629 la nomina a referendario delle due Segnature da parte di Urbano VIII, che lo inviò di lì a poco come vicelegato a Ferrara presso il cardinale Giulio Sacchetti. Con questo Chigi si unì in duratura amicizia, importante per i riflessi e le conseguenze future. Dopo un quinquennio passato col Sacchetti, Chigi non trovò presso il successore di lui, il cardinale G.B. Pallotta, quella concordanza di spirito che aveva resa fruttuosa la collaborazione per il governo della Legazione, tanto da essere indotto nel 1634 al ritorno a Roma, dove fu ordinato sacerdote, nominato vescovo di Nardò (8 gennaio 1635) ed inviato a Malta con l'incarico di inquisitore e di visitatore apostolico. Anche nell'isola per altri cinque anni, nei rapporti con i Cavalieri, egli diede buona prova delle proprie doti amministrative e diplomatiche, finché le non buone condizioni di salute e le congiunte pressioni degli amici romani gli ottennero il richiamo e l'incarico più importante e impegnativo (giugno 1639) di nunzio a Colonia, dove Chigi giunse nell'agosto.
Il periodo della sua nunziatura in terra tedesca costituì per i complessi problemi che egli si trovò ad affrontare il vero banco di prova delle sue capacità e l'occasione che lo rese non solo profondo conoscitore delle principali questioni politico-ecclesiastiche che si agitavano in quegli anni quanto, per la sua duttilità e insieme per lo zelo dispiegato nell'applicazione autoritaria delle direttive pontificie e curiali, ben accetto agli ambienti romani, al cardinal nepote F. Barberini e ad Albizzi, assessore del Sant'Uffizio, come poi al pontefice Innocenzo X e al cardinale Spada, che doveva maggiormente favorirlo.
Fu infatti Chigi, che ebbe parte negli affari della Nunziatura di Bruxelles, prima col Pauli-Stravius, ma, soprattutto, con la nomina, nel 1642, a internunzio del nipote A. Bichi, a dover affrontare le questioni sollevate dalla prima condanna dell'Augustinus di Giansenio (con la bolla In eminenti del 1642, ma pubblicata nel 1643) e a partecipare alle prime vicende del grande contrasto dottrinale e disciplinare. Al quale in parte contribuì con la ristampa del documento romano inviatogli da Albizzi, che ne era stato fautore ed estensore: alla bolla non priva di errori tipografici egli apportò talune variazioni, nella data, da lui mutata dallo stile "ab incarnatione", proprio della Curia, in quello comune "a nativitate", e nel testo, creando, però, quelle incongruenze formali che diedero facilmente adito ad accuse di alterazione e falsificazione della bolla e vennero sfruttate nelle successive polemiche da parte giansenista per inficiarne il valore. Per quanto breve, questa prima esperienza e questo primo contatto con il problema giansenistico furono determinanti per gli orientamenti futuri del nunzio, che dai gruppi antigiansenisti belgi, per i quali agì da tramite con la Curia, ricevette suggerimenti e pressioni rimanendone chiaramente influenzato. Ma più, allora e in seguito, dai rapporti con i Gesuiti, che ebbero gran parte nella sua formazione spirituale, in specie con Van der Veken, per molti anni suo ascoltato consigliere e direttore di coscienza, trasse quei convincimenti che sarebbero rimasti alla base della sua azione di pontefice.
Nel maggior fervore delle discussioni, l'urgenza dei problemi politici sul turbato scacchiere europeo indusse la Santa Sede a nominare, il 23 dicembre 1643, Chigi nunzio pontificio straordinario al congresso di Münster per la pace che venne detta di Vestfalia.
Una serie di rappresentanti papali aveva preceduto Chigi, dal cardinale Marzio Ginetti, inviato nel 1636 al congresso di Colonia e rientrato deluso dopo quattro anni per l'ostilità francese, a F.M. Macchiavelli e C. Rossetti, entrambi ancora invisi alla Francia. Se si preferì Chigi, figura certo non ancora di primo piano nella diplomazia pontificia, e se si incontrò il gradimento francese (24 gennaio 1644), le difficoltà erano ben lontane dall'essere appianate. Il 1644 trascorse per Chigi nell'incertezza, dopo la morte di Urbano VIII e l'elezione di Innocenzo X (15 settembre), che egli personalmente non conosceva e sul quale furono esercitate pressioni da parte spagnola perché richiamasse il proprio rappresentante. Né in seguito, fino al dicembre 1649, dopo la stipulazione della "infame" pace di Münster, come Chigi la definì, egli ebbe vita facile durante le logoranti fatiche del congresso, quale "mediator pacis" insieme con l'ambasciatore veneziano A. Contarini. Ma le più gravi difficoltà di Chigi erano determinate, soprattutto, dal generale orientamento della Santa Sede verso i problemi del mondo tedesco, orientamento che anche sotto Innocenzo X continuò la erronea politica dei Barberini (ne sono prova le successive istruzioni inviate ai rappresentanti pontifici e a Chigi, sostanzialmente e spesso letteralmente identiche): accanto alla "indifferenza" e alla neutralità tra le parti in contesa veniva raccomandata la salvaguardia intransigente degli interessi cattolici. In tal modo l'opera di Chigi, per quanto abile, dovette limitarsi, da una parte, a superare le complicazioni formali e protocollari dei plenipotenziari e a ricercare quelle formule di compromesso che permettessero la continuazione delle trattative, mentre, dall'altra, sul piano politico, dovette registrare il più clamoroso dei fallimenti. Chigi venne a trovarsi sempre più isolato tra le posizioni assolutamente politicizzate sia spagnole sia francesi; sostenendo il gruppo dei cattolici intransigenti, l'ambasciatore spagnolo conte di Peñaranda, il vescovo di Osnabrück F.W. de Wartenberg, il gesuita H. Wangnereck, si alienò lo schieramento dei cattolici "politici", inclini alle maggiori concessioni in vista della conciliazione, rappresentato da Massimiliano di Baviera e dai consiglieri dell'imperatore Ferdinando III, tra i quali Caramuel; nel grande vuoto politico creatosi in quegli anni intorno alla Chiesa romana la linea da lui patrocinata non poté neppure giovarsi del coperto contrasto tra Francia e Svezia. Perduto ogni aggancio con la realtà della situazione in ossequio alle rigide direttive della Santa Sede, Chigi assisté così senza potervi minimamente influire al cedimento completo degli Imperiali e alla stipulazione di quelle clausole del trattato di pace che, con la "restitutio" alle condizioni del 1618, sanzionò uno stato di fatto, ma lese gravemente gli interessi cattolici, consacrando la scissione religiosa, il principio delle Chiese territoriali, la spoliazione dei beni ecclesiastici. Egli si rifiutò di firmare i protocolli, il 24 ottobre 1648, e protestò ufficialmente contro le decisioni dei plenipotenziari dieci giorni dopo la chiusura del congresso. Pure si adoperò a che la Curia non intervenisse violentemente contro le deliberazioni di pace e suggerì diverse modifiche alla bolla di protesta e di disconoscimento delle conclusioni di Vestfalia emanata da Innocenzo X nel 1651.
Questo periodo di maneggi diplomatici doveva, però, risolversi in un altro elemento importante per la vita di Chigi, poiché contribuì non poco ad alienargli le iniziali simpatie francesi (Mazzarino nel 1644 avrebbe compiuto qualche passo a Roma per il cardinalato di Chigi): il nunzio nel suo ruolo di moderatore ebbe più volte a contrastare le pretese francesi e ad attraversare quei piani francesi di saldo inserimento nel gioco politico europeo tra l'Impero esausto e la Spagna in decadenza, che dovevano, con Mazzarino, preparare la base per le affermazioni di supremazia di Luigi XIV. E Mazzarino nella Istruzione per il conclave, dopo la morte di Innocenzo X, dichiarando la esclusiva francese per Chigi, farà appunto risalire agli anni di Münster l'ostilità francese contro uno dei più probabili candidati alla tiara (cfr. Lettres du cardinal Mazarin pendant son ministère, a cura di A. Chéruel, VI, Paris 1890, pp. 343-52: "[...] per l'impiego che ha havuto in Munster, che è quello che l'ha fatto conoscere a noi per il più incapace di tutti gl'huomini per il governo della chiesa universale [...]" ecc.). Può anzi dirsi che nel periodo di Münster va vista la genesi lontana di molti orientamenti della politica di A. verso la Francia e della Francia verso il papato.
Da Münster Chigi venne inviato ad Aquisgrana (dicembre 1649-ottobre 1651) per i preliminari di pace tra Francia e Spagna che non ebbero seguito. Innocenzo X, che avrebbe voluto richiamarlo in Italia già nel 1649, fu indotto dai suggerimenti del cardinale Spada, esponente del gruppo di cardinali e prelati di Curia più rigidi, in particolare sulla questione giansenistica, dietro il quale era Albizzi, a ordinarne il ritorno e a designarlo quale successore del cardinale G.G. Panciroli alla Segreteria di Stato, il 9 settembre 1651. Il mese successivo Chigi rientrò a Roma dopo dodici anni di lontananza.
Nei quattro anni in cui rimase nella nuova carica, sullo scorcio del pontificato pamphiliano, seppe inserirsi nella vita di Curia e della Corte pontificia, mantenendo un difficile equilibrio nei rapporti con i parenti del pontefice, tra cui la influente cognata di Innocenzo, Olimpia Maidalchini, e i cardinali Sacchetti e F. Barberini, allora in disgrazia presso il papa. Ma andrà, soprattutto, posta in evidenza di Chigi segretario di Stato la parte avuta nella Congregazione speciale cardinalizia per il giansenismo, istituita da Innocenzo X dopo la denunzia da parte dei vescovi francesi dell'opera di Giansenio, Congregazione che, iniziatasi il 12 aprile 1651, portò alla promulgazione della bolla Cum occasione del 31 maggio 1653 e alla condanna di cinque proposizioni dell'Augustinus.
Nelle discussioni il ruolo di primo piano fu svolto ancora da Albizzi che tanta parte già aveva avuto nella elaborazione della In eminenti: Chigi, che non aveva propriamente preparazione teologica, come nessun altro dei cardinali presenti (ché anzi, come sottolinea Pallavicino, che della Congregazione fu qualificatore, da essa furono esclusi deliberatamente i duem cardinali teologi Maculani e de Lugo, domenicano e gesuita), partecipò alle discussioni dalla XIV Congregazione in poi (11 aprile 1652), affiancandosi ad Albizzi e rappresentando insieme quell'esigenza disciplinare che andava sempre più facendosi strada nel dibattito teologico. Tale esigenza Chigi espresse più volte al di fuori della Congregazione nei colloqui con Saint-Amour, rappresentante ufficiale di quella minoranza di vescovi francesi che si era schierata a favore della dottrina agostiniana, che si temeva sarebbe stata compromessa da una condanna dell'opera di Giansenio; e impersonò poi, a conclusione dei lavori della Congregazione, quando fece propria presso il pontefice l'istanza di Albizzi di emanare una bolla e non un semplice decreto e quando, respinto da Innocenzo X un primo abbozzo della bolla steso dal solo Albizzi ed elaboratone un secondo (insieme da Chigi e da Albizzi), si trovò a dover vincere l'ultima resistenza del papa, incerto di fronte al grave passo che era sul punto di compiere. Determinante fu allora, in nome dell'autorità della Santa Sede a difesa dell'ortodossia e del giudizio infallibile del pontefice nelle controversie di fede, l'opera di persuasione da lui svolta presso Innocenzo X per la promulgazione di quell'atto che avrebbe poi avuto tante conseguenze durante il pontificato dello stesso Chigi.
Divenuto cardinale il 19 febbraio 1652 e vescovo di Imola il 13 maggio, Chigi vide accresciuta la propria influenza in Curia negli ultimi tempi del pontificato di Innocenzo X dopo la disgrazia del cardinal nepote Pamphili (già Astalli), i cui incarichi e le cui responsabilità passarono a lui, pur se l'abile Maidalchini prese a contrapporgli Azzolini, che, ottenuto il cardinalato nel 1654, pareva destinato a succedergli nella Segreteria di Stato. Ma la lunga malattia di Innocenzo e la sua morte, il 7 gennaio 1655, lasciarono sostanzialmente immutata nel suo prestigio la posizione di Chigi.
Il conclave, iniziatosi il 18 gennaio, vide un fatto che da più pontificati non si verificava nella vita della Chiesa, la mancanza, cioè, di un cardinale nepote che impersonasse la politica del papato precedente e condizionasse in certo modo, per aderenze e legami con cardinali eletti dallo zio pontefice, l'elezione del successore. Le coloriture politiche, però, rimanevano quelle tradizionali: il gruppo dei cardinali spagnoli faceva capo ai due medicei, Carlo, decano del Sacro Collegio, e Gian Carlo; il gruppo "francese" era guidato da R. d'Este e da A. Barberini. A parte erano il gruppo dei cardinali anziani, creati da Urbano VIII, controllato da F. Barberini, e il gruppo dei cardinali di Innocenzo X, lo "squadrone volante", che contava tra gli altri Albizzi, Azzolini e Ottoboni. Il candidato più probabile fu, in un primo tempo, Sacchetti, che, pur sostenuto dai "francesi", dai "barberiniani" e dai "volanti", non raggiunse, per l'ostilità spagnola, più di trentasei voti sui quarantaquattro necessari all'elezione. A Chigi, cui andavano simpatie da diversi settori, si opponevano l'esclusiva non pubblica di Mazzarino e l'ostilità dei cardinali anziani, contrari a un candidato appena cinquantaseienne.
La situazione si protrasse fin quando Sacchetti, accortosi che parte dei voti controllati da Barberini sarebbe andata a Rapaccioli, fu indotto a richiedere a Mazzarino il ritiro dell'esclusiva per Chigi. La risposta francese del 4 marzo 1655, per quanto non annullasse le riserve sulla persona di Chigi, ne permetteva l'elezione il 7 aprile successivo con venticinque voti più trentanove di "accessus". Egli si chiamò Alessandro VII a ricordo, come disse, del terzo di tal nome. Un esame delle principali vicende del pontificato di A. dovrà tener presenti i motivi essenziali già delineati della sua personalità: formatosi nella vita della diplomazia e della Curia, buon esecutore e interprete di quegli orientamenti e di quegli interessi profondamente strutturati nel centro del cattolicesimo, A. nella sua azione religiosa e politica mancò di una decisa volontà accentratrice e tese piuttosto a vedere le questioni quale risultato di discussioni e consigli: donde nel suo pontificato una ripresa delle attività delle Congregazioni, smorzata nei decenni precedenti, e addirittura il ripristino di alcune di esse, come quelle della Visita e degli Sgravi, istituite da Clemente VIII e poi abolite; e l'importanza che assunse il gruppo dei suoi intimi e consiglieri, Albizzi, Pallavicino, che egli creò cardinale, Bona, ecc. Dal che derivò talvolta un'oscillazione e un'incertezza nelle decisioni e certo disinteresse nella trattazione diretta degli affari da parte del pontefice, che andò accentuando quell'amore per la quiete appartata, per la meditazione e i colloqui con i suoi collaboratori, espressione di un gusto culturale umanistico e di tendenze ascetiche che agivano profondamente nella sua formazione. Pure numerosi momenti del papato di A., frutto di un intervento personale del pontefice o dei suggerimenti del suo entourage, rappresentano punti nodali nella vita religiosa, ecclesiastica e politica della Chiesa a metà Seicento, tali da influire sui pontificati successivi, da perdurare - almeno alcuni - sino alla metà del sec. XVIII, e comunque da contribuire esemplarmente alla costruzione di quell'edificio organizzativo e disciplinare della Chiesa postridentina, che A. sentì in tutta la sua complessità.
Ad A. pontefice si presentò immediatamente e più grave che negli anni precedenti il problema del giansenismo, questa volta travalicato dai Paesi Bassi alla Francia.
La Cum occasione aveva originato una clamorosa discussione sul senso da attribuire alle cinque proposizioni condannate e Arnauld aveva avanzato la distinzione, divenuta famosa, tra la questione di diritto e quella di fatto, negando la presenza delle cinque proposizioni condannate in Giansenio, o che esse fossero state condannate nel senso di Giansenio, ed aveva elaborato sulla "quaestio facti" la teoria del "silenzio rispettoso", cioè di un'ubbidienza puramente disciplinare ed esteriore alla condanna della Santa Sede, di contro agli antigiansenisti, che reclamavano la piena accettazione e la sottoscrizione di fede di un formulario. Innocenzo X aveva risposto con vaghe ammonizioni, ma da A., che tanto si era adoperato per la promulgazione della bolla, era da aspettarsi un intervento ben più deciso.
Maturò così, anche per le pressioni di Albizzi, un nuovo documento, la bolla Ad sanctam beati Petri Sedem del 16 ottobre 1656 (ma decisa già nel mese di aprile), in cui A., confermando la Cum occasione, attestò, come intervenuto alle discussioni sulle cinque proposizioni gianseniane, la cura con cui l'esame era stato condotto e dichiarò le cinque proposizioni estratte dall'Augustinus e condannate nel senso inteso dall'autore.
La rinnovata condanna papale, pur se accettata dall'Assemblea del clero francese del 1656-1657, che impose accanto all'accettazione della bolla la segnatura di un formulario, non solo non risolse la situazione, ma l'aggravò, poiché la discussione dal problema giansenistico venne spostata a quello ben più ampio della estensione della infallibilità della Chiesa e del pontefice sulle questioni di fatto, per l'affermazione di A. intesa in tal senso, che incontrò una irriducibile opposizione nei settori filogiansenisti e, ancor più, gallicani del clero e delle magistrature francesi. La bolla Ad sanctam, che non fu per questo registrata, acquistò in tal modo, per l'interpretazione di cui fu oggetto, un valore che trascende l'episodio da cui essa era stata originata. Falliti tutti i tentativi di pacificazione religiosa e imposta più duramente dal re la segnatura del formulario (1664), Luigi chiese ad A. una nuova presa di posizione. A. emanò allora, il 15 febbraio 1665, la bolla Regiminis apostolici, con la quale ribadì le due bolle del 1653 e del 1656 e prescrisse a tutti gli ecclesiastici la sottoscrizione di un formulario analogo nella sostanza a quello presentato dall'Assemblea del clero del 1657. La registrazione della bolla voluta questa volta dal re non fu in grado di spezzare il fronte degli oppositori: la resistenza fu impersonata da P. Nicole e dai quattro vescovi di Alet, Beauvais, Angers e Pamiers, che, nel riacutizzarsi violento della questione di fatto, negarono la infallibilità della Chiesa in materia e dichiararono la sottoscrizione del formulario un puro atto di rispetto e di disciplina verso l'affermazione del pontefice. Condannato il Mandement dei quattro vescovi (18 gennaio 1667), A. decise di portare a giudizio dinanzi a nove confratelli francesi, come da lui delegati, i disobbedienti. La sua morte, il 22 maggio, troncò quest'ultima e più dura fase del contrasto. Spetterà al successore di A., Clemente IX Rospigliosi, che era stato segretario di Stato di papa Chigi, abbandonare la linea di assoluta intransigenza e tentare quella pacificazione degli animi che, con qualche cedimento e compromesso da parte della Santa Sede, culminò nella cosiddetta pace clementina del 1669.
Sul problema del giansenismo il pontificato di A. si chiudeva così con un bilancio negativo: le chiare prese di posizione pontificie non solo non erano state in grado di vincere prevedibili resistenze, ma avevano provocato e rinvigorito quegli orientamenti gallicani della Sorbona e del Parlamento di Parigi (condannati da A. nel 1665 con una dura bolla Cum ad aures, ispirata da Pallavicino e da Albizzi) su cui, contro i successori di A., avrebbe fatto leva l'assolutismo di Luigi XIV. Ma, d'altra parte, con la Regiminis apostolici, A., cedendo alle pressioni di Luigi, dimentico questa volta di rivendicazioni gallicane, realizzò un fatto nuovo nell'atteggiamento della Chiesa riguardo al giansenismo e compì un gesto di estrema importanza per il futuro: legandosi nella lotta contro il giansenismo alla monarchia francese, dopo che questa aveva fatto valere con gli avvenimenti politici del 1662-1664 (v. oltre) il suo intervento imperioso sul papato, sottrasse l'iniziativa alla Santa Sede e fece travalicare definitivamente la controversia sia religiosa sia disciplinare dall'ambito ecclesiastico nel settore politico; ma, ponendo le premesse di una più stretta convergenza e intesa tra Roma e Francia intorno alla questione giansenistica, che diverrà operante, dopo le più recise affermazioni del programma gallicano, negli ultimi tempi di regno di Luigi XIV, configurò di lontano lo schema entro cui si svolse ampia parte delle vicende della Chiesa francese ancien régime.
Alla questione giansenista si accompagnò, durante il pontificato di A., un vasto dibattito dottrinale nel settore della teologia morale, contro gli eccessi del probabilismo diffusosi nella Chiesa nel corso della prima metà del sec. XVII. L'insorgenza di rigorismo, quale reazione, favorita anche da tendenze giansenisteggianti, antigesuitiche e, più generalmente, agostiniane, si configurò come opposizione netta al lassismo e trovò, negli ultimi anni del pontificato di A., il suo sbocco in una serie di decisioni pontificie.
Già nel 1656 A. aveva intimato al Capitolo generale dei Domenicani riunito a Roma di opporsi alle nuove opinioni morali (v. L. Ceyssens, Le cardinal Jean Bona, p. 100) e pareva orientato per la pubblicazione di una bolla contro il probabilismo. Ne sarebbe stato distolto da Pallavicino, che l'avrebbe persuaso a non procedere ad una condanna generale, ma a colpire singole proposizioni lassiste, già denunziate o condannate in parte dall'Università di Lovanio e da vescovi belgi e francesi: da qui un primo decreto del Sant'Uffizio del 24 settembre 1665 includente ventotto proposizioni (senza i nomi degli autori, ma alcune di Guimenius, Caramuel, Amico) e un secondo del 18 maggio 1666 includente altre diciassette proposizioni (alcune da Sanchez e Diana), entrambi opera, come si suppone, del Bona e dell'allora membro e presto assessore del Sant'Uffizio, poi cardinale, Casanate. Le condanne di A. prelusero a quella emanata per altre sessantacinque proposizioni lassiste, in modo analogo, nel 1679 da Innocenzo XI; è certo che in questo senso esse furono fondamentali per lo sforzo di elaborazione della teologia morale nel corso del Seicento.
Saranno da menzionare infine due altri particolari documenti, notevoli per il loro significato, che mostrano come A. fosse attento agli sviluppi del dibattito dottrinale, ma, al tempo stesso, incline a far maturare quei motivi della tradizione che apparivano ancora discussi. Il primo, riguardante la pietà mariana, suonava risposta alle pressioni spagnole per la definizione del carattere del culto dell'Immacolata Concezione. Conscio dell'antichità e della diffusione di tale opinione e della sua accettabilità nella Chiesa cattolica, come gli veniva suggerito anche dal Pallavicino, A. emanò la bolla Sollicitudo omnium Ecclesiarum dell'8 dicembre 1661, in cui rinnovò i decreti favorevoli di Sisto IV, Paolo V e Gregorio XV, ma proibì, in attesa di una decisione della Santa Sede, di incolpare coloro che sostenevano l'opinione contraria di eresia o peccato mortale. È l'ultimo importante atto pontificio prima della prescrizione generale della celebrazione della festa della Concezione in tutta la Chiesa ad opera di Clemente XI (1708). Esso per il suo carattere disciplinare sopì ogni discussione fino alla celebre polemica muratoriana contro il "voto sanguinario" apertasi intorno alla metà del Settecento.
Con il secondo documento, il decreto sull'attrizione del 5 maggio 1667, A. rispose alla controversia, scoppiata nei Paesi Bassi, in particolare a Gand e Lovanio, ma sentita fortemente negli ambienti ecclesiastici con cura d'anime, circa la natura dell'attrizione sufficiente per l'assoluzione sacramentale. Anche per questo documento singolare fu la partecipazione di Pallavicino, al quale, come al pontefice, si erano rivolti i curati "contrizionisti" di Gand. Personalmente antiattrizionista, come, del resto, lo stesso A., ma consapevole della estrema diffusione dell'attrizionismo nel cattolicesimo, Pallavicino, insieme con Bona, influì molto probabilmente sul decreto pontificio del 1667, che A. firmò sul suo letto di morte e che impose silenzio alle parti in attesa di una decisione della Chiesa. Questa mancò, ma il documento rimase tra i termini ineliminabili delle discussioni successive: ancora un secolo dopo, s. Alfonso Maria de' Liguori doveva rifarsi al decreto alessandrino.
L'uso dei decreti e l'attività della Congregazione dell'Indice e di quella del Sant'Uffizio non conobbero sosta col pontificato di A.: per l'Indice anzi A. fece approntare una nuova edizione nel 1664 che completò l'Indice clementino del 1596, raccogliendo le proibizioni e le condanne di libri dal 1601 al 1662-1663, e riordinando non solo un imponente materiale che si era venuto accumulando quanto le norme consacrate da una lunga pratica dopo i dettami del Tridentino e l'istruzione clementina. L'Indice alessandrino con graduali ampliamenti conobbe numerose edizioni per tutto il secolo e oltre (anche se le edizioni del 1681, 1683, 1685, ecc., vanno sotto il nome di Innocenzo XI) e fu sostituito soltanto nel 1758, sotto il pontificato di Benedetto XIV, dal nuovo Indice curato dal domenicano Ricchini.
Alla durezza di certe decisioni, però, fanno riscontro concessioni maggiori in altri settori, specie in quello missionario, a cui A. fu particolarmente sensibile e che conobbe un intenso sviluppo negli anni del suo pontificato.
Con A. venne regolata, almeno temporaneamente (23 marzo 1656), la questione dei riti cinesi, condannati un decennio prima da Innocenzo X. A., diversamente dal predecessore, si mostrò disposto ad accogliere il punto di vista dei missionari gesuiti e tollerò un'interpretazione più larga, permettendo, "secundam exposita", ai cristiani della Cina l'omaggio a Confucio, il culto degli antenati e alcune altre cerimonie quale espressione di un culto soltanto civile e politico e non religioso.
Il decreto alessandrino fu accolto dai missionari durante le cosiddette conferenze di Canton del 1668: esso, però, lasciando aperta la discussione sul vero carattere dei riti, segnò un punto di compromesso tra le opposte tendenze e diede adito, nonostante il decreto di Clemente IX del 13 novembre 1669, che confermò i due documenti precedenti tra loro in qualche modo discordanti, alle ulteriori discussioni che si riaprirono violentemente sotto Innocenzo XII e sotto Clemente XI, soprattutto nel primo decennio del Settecento. Ma, ancora nell'Estremo Oriente, la decisione maturata con il pontificato di A. di creare una gerarchia missionaria (1658), inviando tre vicari apostolici di nazionalità francese, e di spezzare il monopolio portoghese nel settore, fu estremamente significativa per il futuro, poiché ripropose in termini concreti la possibilità di formazione di un clero indigeno, sino allora rimasta puramente teorica.
Tale possibilità riportò in discussione una importante questione, dibattuta già sotto Paolo V, ma di cui si era perso il ricordo, cioè dell'uso del cinese, come di altre lingue orientali, nella liturgia e per le traduzioni della Scrittura. Con il privilegio Romanae sedis antistes del 27 giugno 1615 Paolo V ne aveva permesso l'uso: ma il privilegio non aveva avuto attuazione per la mancanza di un clero indigeno. A., ignorando la decisione del predecessore, nella nuova situazione di fatto venutasi a creare sollevò il problema, incaricandone una speciale Congregazione, e personalmente si mostrò favorevolmente disposto, sebbene condannasse poi, con breve del 12 gennaio 1661, recisamente, attraverso la traduzione francese del messale (del Voisin), ogni eventuale traduzione nelle lingue europee dei testi liturgici e della Scrittura. Se l'orientamento papale trovò consensi nella Congregazione da parte di Albrizzi, di Allacci, di Rancati e una apertura possibilistica da parte di Albizzi, la maggioranza fu di parere contrario e giudicò immatura qualsiasi decisione. A. accolse il parere negativo della Congregazione, ma con il breve Super Cathedram del 9 settembre 1659 dispensò per un settennio, poi continuamente rinnovato, i missionari indigeni dalla lettura di parte dell'uffizio in latino, che venne sostituita da preghiere in cinese, e delimitò temporaneamente la questione che doveva, come altre, riaprirsi in seguito.
Alcune intrinseche debolezze del pontificato di A. risultano più chiaramente al di fuori dell'azione religiosa e di politica ecclesiastica, nella quale, se si sono notate pressioni diverse esercitate secondo i momenti dalle tendenze di Curia sul pontefice (tipici, a questo proposito, gli interventi di Pallavicino e di Albizzi per la lotta contro il giansenismo e il gallicanesimo, di Bona e di Casanate per la condanna del lassismo), pure è stato possibile delineare un orientamento non privo di coerenza e di energia e una preoccupazione costante di intervenire e di dare risposta alle maggiori questioni successivamente affrontate: con una vocazione autoritaria che in A. si accompagnò per lo più alla ricerca di un equilibrio armonizzatore tra i partiti curiali, che erano insieme espressione di più vaste discussioni nel mondo cattolico. Nell'azione più propriamente politica, che può sintetizzarsi nei rapporti con la Francia, si colgono i limiti, oltre che di una personalità, di un intero momento storico della Chiesa.
Si è accennato all'inimicizia di Mazzarino nei riguardi di A., ma converrà aggiungere come essa, motivata dall'ostilità francese verso un atteggiamento politico che si sforzava di essere imparziale e veniva interpretato come filospagnolo (e di appena velate simpatie filospagnole si dovrà parlare per A., che in questo seguì la linea politica di Innocenzo X), in un primo tempo si sia articolata intorno al caso del cardinale di Retz, il grande nemico politico di Mazzarino, che, dopo lunghe e complicate trattative, A. privò dell'arcivescovado di Parigi e, sia pure salvando il principio delle immunità ecclesiastiche, sacrificò al risentimento del potente ministro (1662). Ma A. accentuò la frattura con la Francia quando, preoccupato per il protrarsi della guerra franco-spagnola, volle interporsi come mediatore tra i contendenti, con un breve diretto all'Assemblea del clero del 1655-1656, nel quale auspicò una pronta pacificazione e biasimò i tentativi che i due Regni andavano facendo per stipulare un'alleanza con Cromwell. L'intervento papale non solo non impedì che la Francia raggiungesse il suo intento, ma spinse Mazzarino a reagire e a porre le basi di più ampi contrasti con Roma, su due fronti diversi, nella stessa Francia sul piano della politica ecclesiastica, quando egli in funzione antipapale prese a blandire e a sviluppare intorno al tronco giansenistico i motivi gallicani, e in Italia, dove seppe abilmente soffiare sul fuoco delle rivendicazioni di Parma e Modena contro la Santa Sede per le questioni di Castro e Comacchio.
La stipulazione, a insaputa del papa, della pace dei Pirenei tra Francia e Spagna (7 novembre 1659), con le clausole imposte da Mazzarino circa le pretese dei duchi di Parma e Modena contro il pontefice, e il ritardo della comunicazione alla Santa Sede (11 gennaio 1660) sanzionarono quella decadenza politica del papato, di cui A. era stato diretto testimone a Münster.
A. rispose alle pressioni francesi su Parma incamerando Castro nel Concistoro del 20 dicembre 1660; ma trovò nuovi ostacoli nella sua politica verso la Francia, nonostante concessioni e cedimenti da parte sua specie sul piano della provvista dei vescovadi, quando, aumentata la pressione turca nei Balcani ai danni dell'Impero, si pose con impegno a organizzare una lega cattolica, riprendendo il programma abbozzato nel 1657 in aiuto di Venezia, alla quale egli aveva inviato la flotta pontificia e dalla quale in cambio aveva ottenuto il ritorno dei Gesuiti dopo il cinquantennale esilio dal tempo dell'interdetto. L'aspirazione papale si scontrò allora con le ambizioni di Luigi XIV in terra tedesca, dove ai piani francesi tornava utile un indebolimento dell'Impero e perciò stesso il mantenimento del peso turco ai confini orientali. Sia l'inviato straordinario francese d'Aubeville sia il ministro Créqui, giunti a Roma nel corso del 1662 per la stipulazione di una lega che non si aveva nessuna intenzione di concludere, compromisero in ogni modo volutamente i negoziati e, insieme, i rapporti tra Francia e Roma. Gli incidenti del 20 agosto 1662, provocati dalla guardia corsa pontificia contro il personale dell'ambasciata francese, in un'atmosfera già tesa determinarono, con l'esplosione di una questione di prestigio, la reazione violentissima della Francia, che costò ad A. una serie di gravi umiliazioni.
Il pontefice si trovò isolato: né l'Impero né la Spagna, impegnata con la guerra contro il Portogallo, potevano intervenire; il contegno degli Stati italiani fu timoroso e ambiguo, se non ostile come Modena e Parma. Usurpati Avignone e il Contado Venassino dalla Francia e votati per le pressioni di Luigi XIV dalla Sorbona i sei articoli gallicani del 1663, ad A. non restò, di fronte ad una minaccia armata, che piegarsi: col trattato di Pisa del 12 febbraio 1664 disincamerò Castro, concedendo una dilazione di otto anni al duca di Parma, e versò per Comacchio un'indennità al duca di Modena, creando così più solida base all'influenza francese in Italia; si vide costretto ad altri gesti di riparazione, erigendo una piramide con scritta infamante per i Corsi sul luogo del tumulto e inviando in Francia per le scuse formali il nipote cardinale Flavio Chigi. Poté solo esprimere, "extrema ratio", la propria protesta in una bolla rimasta segreta.
L'episodio assume, nel più generale quadro degli avvenimenti europei, un significato e un'importanza singolari: in Europa, travolti gli schemi e le dimensioni politiche e spirituali create dalle guerre di religione e consolidatosi in Francia, dopo lunghe crisi, ultime quelle della Fronda, l'assolutismo monarchico, era finito quell'equilibrio vario tra le potenze che aveva caratterizzato la prima metà del Seicento e permesso alla Chiesa di esercitare la tradizionale funzione mediatrice, a salvaguardia dei propri interessi spirituali e politici; esso si era spostato a favore della Francia e proprio A. ne aveva raccolto i frutti già amari durante la pace di Vestfalia. Ma nel cambiamento dei rapporti di forza giocava anche, determinante, l'ambivalenza insita nella personalità stessa del pontefice, rigidissimo nella difesa dei principi e, al tempo stesso, legato ad una scuola di alta diplomazia piuttosto che dotato di vero intuito politico, incapace di elaborare immediatamente prospettive e linee nuove della politica pontificia e di inserirsi a pieno nella nuova fase politica europea, e portato, per carattere e lunga consuetudine, a quella cautela e a quegli orientamenti di compromesso che, di fronte a decise affermazioni di potenza, non potevano non risolversi nella più completa cedevolezza. Per la Santa Sede, e con la persona di A., tramontava davvero un'epoca - non senza crisi - e si iniziava una fase di alterni contrasti con la Francia durati sino alla fine del secolo.
Nella politica interna, nel governo cioè dello Stato pontificio, possiamo rintracciare tendenze analoghe a quelle già riscontrate. Qui, se mai, è avvertibile un'accentuazione maggiore da parte del pontefice a servirsi di collaboratori preposti alle diverse Congregazioni: così il cardinale G. Rospigliosi, che aveva nelle mani gli affari esteri, venne chiamato alla Segreteria della Congregazione di Stato, che, istituita da Urbano VIII e retta già da Panciroli e dallo stesso Chigi, assunse in tal modo la fisionomia rimastale nei secoli successivi; il cardinale Corrado, datario, presiedette la Congregazione dell'Immunità; Sacchetti seguitò ad avere importanza in diverse Congregazioni e fu notevole il contributo da lui dato in quella dell'Abbondanza, intorno al 1656, dopo la pestilenza che devastò Roma e la Campagna, arrecando per la diminuita mano d'opera gravi danni all'agricoltura già in decadenza. Un qualche peso nella vita della Curia e dello Stato ebbero anche i più stretti parenti del papa. Solo ad un anno dall'assunzione al pontificato A. si risolse a far venire a Roma i congiunti, dopo che sembrò opportuno non abbandonare una tradizione importante anche per i suoi riflessi politici. Il fratello di A., Mario, fu sovraintendente all'Annona e giudice di Borgo; il nipote Flavio divenne cardinale nepote e ottenne rendite ecclesiastiche che raggiunsero i 100.000 scudi; il nipote Agostino ricevette splendidi possedimenti e il palazzo romano e sposò una Borghese. Ma questi e altri, come A. Bichi che fu grandemente beneficato, pur perpetuando il nepotismo nella Corte papale, ebbero poca influenza sul pontefice, neppure paragonabile ai tempi dei Barberini o a quelli più vicini di Innocenzo X.
Dove A. lasciò orma profonda fu nelle riforme degli uffici di Curia di cui egli aveva direttamente potuto constatare la venalità e gli abusi, sotto il papato Pamphili. Riordinò la Cancelleria, raccogliendo le Regulae, ordinationes et constitutiones cancellariae Apostolicae (Romae 1655), e emanò quelle disposizioni per la carriera prelatizia che diedero ad essa la sua forma moderna.
A. cercò inoltre, tra i suoi principali provvedimenti di politica interna, di risolvere in qualche modo la grave situazione finanziaria venutasi a creare nello Stato sin dai primi del Seicento, con la decadenza dell'agricoltura, il rigido sistema annonario, la diminuzione del reddito pubblico e l'aumento pauroso del debito che la fastosa e dispendiosa politica dei Barberini aveva accentuato.
Succedendo a Innocenzo X, A. trovò 48 milioni di scudi di debito complessivo, per i prestiti e il pagamento degli interessi che assorbivano gran parte delle entrate. Apparsagli evidente l'impossibilità di un ulteriore aumento delle imposte già pesantissime, si risolse così, a parte i tentativi di più rigorosa economia, per un'importante riforma finanziaria riducendo l'interesse dei luoghi di Monte, che erano il perno del sistema finanziario pontificio. Riscattò quelli vacabili e rimborsò, senza tener conto delle quotazioni, il valore nominale di quelli non vacabili, realizzando certamente un utile considerevole; ma il provvedimento scosse il credito su cui era fondato il sistema e provocò una diminuzione del valore dei luoghi. Il guadagno fu inghiottito presto dalle spese dell'amministrazione, dalle costruzioni edilizie, alle quali A. diede grandissimo incremento, e soprattutto dal fatto che ovviamente rimase in piedi il vecchio sistema economico. Anzi A. continuò la prassi dei predecessori e nella ricerca di nuovi cespiti per le casse dello Stato aumentò la tassa sul macinato, creò la privativa e l'appalto del tabacco (1655 e 1665) e mantenne il sistema annonario, rifiutandosi di prendere in considerazione quella liberalizzazione delle tratte delle granaglie che Sacchetti gli suggerì quale rimedio alla grave crisi dell'agricoltura e del commercio nello Stato. Il debito pubblico aumentò, tanto che nel 1670, a tre anni dalla morte di A., esso era salito a 52 milioni.
Cagionevole di salute sin dalla giovinezza e sofferente di mal della pietra (per cui venne anche operato mentre era nunzio a Colonia), A. si aggravò nel corso del 1666: morì il 22 maggio 1667.
Il profilo di A. non sarebbe completo se non dessimo infine qualche cenno di quella che è stata definita la sua fisionomia spirituale e se non cercassimo di delineare un altro aspetto essenziale della sua personalità. Accanto alla componente organizzativa e disciplinare, più evidente e più compiutamente espressa in quegli anni di lotte dottrinali e politiche, è da vedere in A. la risonanza di motivi del tardo Umanesimo, rivissuti più che nella consuetudine di comporre versi latini orazianamente atteggiati, nel mecenatismo artistico, nei rapporti eruditi e nella bibliofilia. Se la storia esterna di questi atteggiamenti di A. è nota almeno nelle sue grandi linee, ben poco si sa di quella interiore, per la limitata attenzione rivolta sino ad oggi alla vasta corrispondenza privata, alle carte e agli appunti personali del pontefice.
Delle composizioni latine di A. si dirà brevemente: le Philomathi Musae iuveniles (Coloniae Ubiorum 1645, Antverpiae 1654, Parisiis 1656, Amstelaedami 1660), sono, pur nella finezza della imitazione letteraria che ammanta numerosi spunti biografici, poco più che il diletto di uno spirito colto, che anche nei momenti più duri, specie del soggiorno tedesco, amò rifugiarsi in quei "carmina animo deducta sereno". Importante invece e significativo il mecenatismo artistico di A., che giunse ad assumere le forme di un vero e proprio rinnovamento urbanistico di qualche zona di Roma: dalla costruzione berniniana del colonnato di S. Pietro, dai lavori nell'interno della basilica, dalla costruzione della Scala Regia in Vaticano, della Zecca, di una parte dell'Archivio, all'ingrandimento del Quirinale, la cui galleria A. fece affrescare da Pietro da Cortona, alla sistemazione delle piazze del Pantheon e della Minerva, nella quale venne eretto l'obelisco berniniano dell'elefante, all'apertura di via del Corso, alla sistemazione della Sapienza, dove venne costituita la biblioteca che da lui fu detta Alessandrina (1667), ecc. E sovrano fastoso si mostrò A. nelle accoglienze tributate a Cristina di Svezia (1655); e intelligente mecenate nell'amore per la cultura e i libri e nella protezione concessa a studiosi e ad artisti, in anni forse tra i più ricchi dell'erudizione romana seicentesca, che vide insieme Allacci, Holstenio, Kircher, Ughelli, Giano Nicio Eritreo, Pallavicino, per non parlare, tra gli artisti, del Bernini. Ad Holstenio A. affidò l'incarico di trasferire nella Vaticana (1657) i codici urbinati, contesi, dopo la morte dell'ultimo duca Francesco Maria II della Rovere, tra la comunità di Urbino e la Confraternita del Ss. Crocifisso della Grotta: e l'acquisto suggerito ad A. dal cardinal legato Luigi Omodei evitò che essi andassero dispersi. Ma A. dedicò cure attente soprattutto alla sua biblioteca personale, per i cui acquisti sembra abbia obbedito spesso ad uno schema preordinato: così operò una scelta tra i manoscritti senesi delle biblioteche di Pio II e Pio III Piccolomini, si procurò codici dalle biblioteche di due letterati senesi suoi amici, Celso Cittadini, che fu, come si è visto, suo maestro, e Federico Ubaldini; e altri codici acquistò in Germania, come forse gli importanti originali delle epistole del Melantone, e in Francia, o ricevette in dono. Molto resta da studiare, mancando ancora una ricerca precisa sulla formazione della biblioteca attraverso gli interessi di A., le note di sua mano apposte a numerosi manoscritti, appunti, lettere, ecc. Soltanto un timido avvio fu dato quando la Chigiana venne acquistata dallo Stato italiano nel 1918 e donata poi nel 1922 alla Biblioteca Vaticana.
Questo fervore di cultura, d'altra parte, s'innestò armonicamente nella vena di una pietà autentica, alimentata in A. dalla quotidiana meditazione della Introduction à la vie dévote o Philothée di Francesco di Sales, che egli beatificò nel 1661 e canonizzò nel 1665. Già in una lettera notissima e diffusa anche in traduzione francese, diretta mentre era nunzio a Colonia, il 1° aprile 1642, al nipote A. Bichi, A. consigliava quale prototipo di vita spirituale (profondamente consentaneo al suo spirito aristocratico) l'insegnamento di Philothée: "Il ne vous persuade point l'austerité, ny la solitude des déserts, ny un genre de vie extraordinaire; mais une dévotion civile, noble, et temperée [...]" (in appendice a La bonne philosophie et l'art de salut ou Institution de vivre parfaitement comprise en trois praeceptes, par N.S.P. le Pape Alexandre VII, a cura di F. Martial, Paris 1658); e lo ricordava come esempio, ormai ventennale, proposto alla propria personale ricerca di perfezione cristiana. A quanto sappiamo A. divulgò in diverse operette, apparse anonime, i temi principali della pietà salesiana e dell'umanesimo devoto e improntato qua e là a questo (ma anche alla spiritualità gesuitica per il ricordo esplicito del Realino e del Coster) ci appare l'opuscolo La bonne philosophie et l'art de salut, dove si giustappongono un'arte di ben morire, in quattordici meditazioni ("la bonne philosophie") e un'arte di ben vivere delineata in tre precetti che ripercorrono le "tre vie", purgativa, illuminativa e unitiva.
La meditazione della morte sembra essere stato un motivo della pietà barocca fortemente presente nell'animo di A., che amò tenere sempre sul suo tavolo, da pontefice, un cranio di marmo scolpito da Bernini. Questi diede poi, in maniera mirabile, forma artistica a quel barocco trionfo della morte costituito dal sepolcro di A. in S. Pietro, che segna una svolta nella iconografia funebre del Seicento (v. E. Mâle).
I precetti de "l'art de salut" indicano equilibratamente i doveri del vivere cristiano: accentuati quelli ascetico-penitenziali (meditazione quotidiana, contrizione dei peccati) e quelli devozionali (caratteristiche la lettura dei libri devoti, la comunione frequente, la devozione alla Vergine e all'Angelo custode). La parte finale, sulla conformità alla volontà divina, riconduce ad altri accenni espressi nella corrispondenza con il cappuccino Carlo d'Arenberg (1642-1652), analizzata da Callaey, nella quale il motivo della sottomissione al volere di Dio trova perfetta rispondenza in quello della obbedienza alla Chiesa romana. Tale rapporto, se approfondito da ulteriori ricerche, varrebbe forse a mostrare dietro tanta parte dell'attività organizzativa e disciplinare di A. un'ispirazione più profonda e la presenza di una concezione della Chiesa motivata nella sua ricchezza spirituale.
Mario Rosa
Negli ultimi decenni diversi aspetti del mecenatismo e della cultura di A. sono stati oggetto di articolate ricerche. Le più sistematiche e numerose hanno riguardato la frenetica attività edilizia del pontefice, il quale modificò l'aspetto di Roma in una misura raramente raggiunta dai predecessori o dai successori. È possibile elencare solo sommariamente e per tipologie le imprese alessandrine: l'apertura, l'ampliamento o il risanamento di vie e piazze (tra le quali piazza del Popolo, il Tridente, piazza Colonna, piazza del Collegio Romano, piazza della Minerva), l'erezione o il rinnovamento di numerose chiese (per esempio S. Andrea al Quirinale, S. Maria in Campitelli, S. Maria in Via Lata, S. Maria della Pace, S. Andrea della Valle, S. Maria del Popolo), i lavori ai palazzi pontifici (la "manica lunga" del Quirinale e la sistemazione della sala Ducale in Vaticano) e il miglioramento delle infrastrutture urbane (Ripa Grande, la Sapienza), la costruzione delle residenze per la famiglia del papa (i palazzi a piazza Colonna e ai SS. Apostoli, il giardino alle Quattro Fontane, e in campagna il palazzo di Formello e villa Versaglia), l'incremento del verde urbano (alcuni viali alberati), il restauro di illustri antichità (il Pantheon e le sue adiacenze, la Piramide di Cestio), le impressionanti realizzazioni vaticane (il colonnato, la cattedra di s. Pietro, la Scala Regia) e gli interventi nei Castelli (Ariccia, Galloro e Castel Gandolfo), nello Stato (l'arsenale del porto di Civitavecchia) o addirittura nella natìa Siena (la cappella del Voto in Duomo).
Oltre ad indagare i risultati dei singoli cantieri ed a chiarirne la cronologia, i fini e le responsabilità, gli studi (specie grazie a R. Krautheimer) hanno potuto coglierne l'ispirazione unitaria e l'impressionante consapevolezza che li governava. Grazie a quello straordinario documento che è il diario del papa e all'imponente materiale conservato nei fondi chigiani della Biblioteca Vaticana è possibile conoscere dall'interno la genesi dei progetti e la prassi della loro attuazione, e apprezzare quindi la quantità inusitata di energie mentali, tempo e denaro che A. metteva al loro servizio: egli pianificava e armonizzava gli interventi utilizzando un modello ligneo della città che teneva nei propri appartamenti, e si confrontava quotidianamente con gli architetti, i consulenti legali e finanziari, gli eruditi della Corte. Egli stesso conoscitore e dilettante di architettura, riempiva fogli e quaderni di schizzi, piante, prospetti e componeva le elegantissime epigrafi da apporre agli edifici conclusi. La Roma alessandrina fu pensata come una gigantesca rappresentazione permanente dell'autorità e magnificenza pontificie, in grado di gareggiare vittoriosamente con la Roma antica da un lato e con le altre capitali italiane ed europee dall'altro. I fini "diplomatici" di Chigi sono stati più volte sottolineati: le lunghe arterie, la facciate, le piazze e i fondali urbanistici tracciano un percorso di "teatri" - culminante con la cattedra di s. Pietro, apoteosi simbolica del potere dei successori dell'apostolo - pensato per incorniciare degnamente le solenni apparizioni della persona del papa, per colpire gli insigni ospiti stranieri (esemplare il caso della regina Cristina di Svezia), per abbracciare i pellegrini provenienti da tutto l'orbe e per sbalordire i visitatori non cattolici o non cristiani. Una capillare e accattivante produzione di stampe, libri illustrati e medaglie, spesso affidata ad artisti di primissimo piano, aveva il compito di veicolare ovunque l'immagine ufficiale della città di A., sovrastando le riserve della debole opposizione interna e le aperte critiche degli ambasciatori e dei governi stranieri.
Studi recenti inducono a credere che il pontefice non ignorasse però il "rovescio della medaglia", cioè la men che mediocre qualità della vita della popolazione romana, e che a cercare di innalzarla puntassero la realizzazione di alcune infrastrutture e i tentativi di incrementare l'edilizia abitativa e di migliorare l'igiene della città.
Se è ancora possibile sostenere che la pittura e la scultura interessassero ad A. soprattutto come indispensabili complementi delle realizzazioni architettoniche, l'impiego di Pietro Berrettini, Pier Francesco Mola o Carlo Maratta in importanti commissioni, la stima che egli nutrì per Francesco Mochi, Alessandro Algardi (che non fecero in tempo ad approfittare delle occasioni del suo pontificato) e soprattutto per Gian Lorenzo Bernini, nonché la versatile disponibilità del collezionismo del cardinal nipote Flavio Chigi (basti rammentare l'accoglimento delle taglienti provocazioni di Salvator Rosa, o l'accostamento alla multiforme varietà della pittura di genere e a quella dei bamboccianti) non consentono più di giudicare arretrata o miope la posizione del papa e del suo entourage verso tali arti. Grazie anche al sostegno di una fitta produzione teorica ed encomiastica, si avvertiva diffusamente che la scultura poteva ormai competere direttamente con i venerati modelli antichi e con i prodigi michelangioleschi.
Sebbene architetti come Pietro da Cortona e Carlo Rainaldi avessero parti non trascurabili nella strategia di A., e anche se non tutte le opportunità vennero sottratte a un minore come Felice della Greca o al malvisto Francesco Borromini, l'artefice principale dei progetti chigiani fu Bernini, sorta di dittatore incontrastato della scena artistica romana. La fiducia senza limiti e l'amicizia che il papa gli accordò lo misero in grado di lasciare un'impronta indelebile sul volto della città: i fogli in cui si rinvengono disegni e appunti di A. e di Bernini sintetizzano simbolicamente una progettazione a due che fu abituale e fecondissima di risultati.
Bernini non fu solo il regista della Roma alessandrina fatta di pietre, ma fu anche al centro della cultura letteraria, erudita e antiquaria che fiorì a Corte: grazie anche al suo profondo legame intellettuale e personale con il cardinale gesuita Sforza Pallavicino (la più autorevole figura del circolo chigiano) l'artista poté incarnare quella fiducia nel primato dei moderni che aveva caratterizzato l'età di Urbano VIII e che era tornata vigorosa con l'avvento di A., il quale - con una consapevole sterzata neobarberiniana dopo la parentesi pamphiliana - volle da subito circondarsi di letterati come Alessandro Pollini, Agostino Favoriti, Ferdinand von Fürstenberg, Stefano Gradi e Natale Rondanini (ai quali si dovette una produzione poetica latina assai pregevole), di antiquari come Atanasio Kircher, Ottavio Falconieri, Leonardo Agostini e Francesco Gottifredi, o come gli ormai venerabili Leone Allacci e Luca Holstenio. Essi ed altri ancora contribuirono ad animare una stagione culturale i cui tratti salienti e i cui risultati più durevoli sono ancora in gran parte da studiare e valutare. Negli anni di A. l'inarrestabile e sofferto declino del peso politico della Corte papale cominciò ad erodere quella supremazia culturale che sembrava toccare proprio allora lo zenit, e che aveva saputo attirare a Roma un personaggio aggiornato e cosmopolita quale Cristina di Svezia: solo un lustro dopo la morte del papa tale primato appariva irrimediabilmente conquistato dalla Parigi del Re Sole. Il viaggio in Francia di Bernini (1665) è in questo senso esemplare: scaturito dall'esigenza francese di legittimarsi tramite l'impiego del più autorevole protagonista della Roma di Urbano VIII e A., il suo fallimento sancì invece la definitiva emancipazione della nuova capitale d'Europa dall'egemonia della cultura romana.
Tommaso Montanari
fonti e bibliografia
Tra le fonti, un diario di A. degli anni di Münster (1644-1645) che è stato pubblicato da V. Kybal, e tra gli inediti, nella B.A.V., Chigi O.IV.58, un altro diario che inizia con l'agosto 1655; ancora nel Chigi A.I.8, diari del periodo da Colonia al pontificato.
La corrispondenza, e due serie di manoscritti sempre nel Fondo Chigi riguardanti gli anni di pontificato, la prima, in nove volumi, di Scritture diverse concernenti molti e importanti negozi religiosi e politici del tempo di Alessandro VII, e, la seconda, in quindici volumi, di Proposte e risposte di cifre in copia, dei nunzi apostolici, dei cardinali legati, di governatori e arcivescovi. Per indicazioni sulla corrispondenza di A. e su altro materiale, estratti di lettere, ecc., v. Archivalia in Italië, a cura di G. Brom, II, Rome. Vaticaansche Bibliotheek, "Rijks Geschiedkundige Publicatiën", kleine serie, 9, 1911, nrr. 252, 272, 349, 351, 352; III, Rome. Overige Bibliotheken en Archieven, ibid., kleine serie, 14, 1914, passim, e Bescheiden in Italië, a cura di G.I. Hoogewerff, III, ibid., kleine serie, 17, 1917, passim.
Ampio materiale manoscritto e archivistico utilizza L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, XIV, 1, Roma 1932, pp. 311-538 (ma v. anche L. von Ranke, Storia dei papi, Firenze 1959, pp. 839 ss. e pp. 913 ss. nn.).
La nunziatura di Fabio Chigi (1640-1651), a cura di V. Kybal-G. Incisa della Rocchetta, I, 1-2, Roma 1943-46, giunge finora al 1645.
Edito il carteggio con F. Barberini, F. Albizzi, Van der Veken e altri riguardante il giansenismo nei Paesi Bassi, La correspondance antijanséniste de Fabio Chigi nonce à Cologne plus tard pape Alexandre VII, a cura di A. Legrand-L. Ceyssens, Bruxelles-Rome 1957 (con bibl.); edito e regestato il carteggio con lo Stravius in Correspondance de Richard Pauli Stravius (1634-42), a cura di W. Brulez, ivi 1955, passim; della corrispondenza sporadiche indicazioni dà I. Ciampi, L'epistolario inedito di Fabio Chigi, poi papa Alessandro VII, "Atti della R. Accademia dei Lincei", memorie della classe di scienze morali, storiche e filologiche, ser. III, 1, 1876-77, pp. 393-403; del carteggio con i Merlini dà notizia e pubblica parti A. Piccolomini, Carteggio inedito di Fabio Chigi, poi papa Alessandro VII, "Bullettino Senese di Storia Patria", 15, 1908, pp. 3-31.
V. inoltre: L. Ceyssens, La fin de la première période du jansénisme. Sources des années 1654-1660, I-II, Bruxelles-Roma 1963-65; Diarium Chigi 1639-1651, a cura di K. Repgen, Münster 1984; V. Malvezzi, Lettere a Fabio Chigi, a cura di M.C. Crisafulli, Fasano 1990.
Manca una monografia moderna su A.: fondamentale resta la biografia Della vita di Alessandro VII libri cinque. Opera inedita del p. Sforza Pallavicino [...] tratta dai migliori manoscritti esistenti nelle biblioteche di Roma, I-II, Prato 1839-40.
In partic. per l'attività politica v.: V. Borg, Fabio Chigi Apostolic Delegate in Malta (1634-1639), Città del Vaticano 1967, nonché A. von Reumont, Fabio Chigi-Papst Alexander VII.-in Deutschland (1639-1651), "Zeitschrift des Aachner Geschichtsvereins", 7, 1885, pp. 1-48; L. Schiavi, La mediazione di Roma e di Venezia nel Congresso di Münster per la Pace di Vestphalia tra Francia e Allemagna, Bologna 1923; I.I. Poelhekke, De vrede van Munster, 's-Gravenhage 1948, passim; K. Repgen, Fabio Chigis Instruktion für den Westfälischen Friedenskongress. Ein Beitrag zum kurialen Instruktionswesen im Dreissigjährigen Krieg, "Römische Quartalschrift für Christliche Altertumskunde und Kirchengeschichte", 48, 1953, pp. 79-104 e 104-16 (docc.); Id., Der päpstliche Protest gegen den Westfälischen Frieden und die Friedenspolitik Urbans VIII., "Historisches Jahrbuch im Auftrag der Goerresgesellschaft", 75, 1956, pp. 94-122; H. Bücker, Der Nuntius Fabio Chigi (Papst Alexander VII.) in Münster 1644-1649, nach seinen Briefen, Tagebüchern und Gedichten, Münster 1958 (con bibl.).
V. inoltre K. Repgen, Die Finanzen des Nuntius Fabio Chigi. Ein Beitrag zur Sozialgeschichte der römischen Führungsgruppe im 17. Jahrhundert, in Geschichte, Wirtschaft, Gesellschaft. Festschrift für Clemens Bauer, Berlin 1974, pp. 229-80.
Problemi politico-religiosi: per la lotta contro il giansenismo, oltre le lettere pubblicate ne La correspondance antijanséniste, sono essenziali per l'inizio della vicenda e notizie sulla posizione di A. due documenti contemporanei, il Journal de Mr. de Saint Amour [...] de ce qui s'est fait à Rome dans l'affaire des Cinq Propositions, s.l. 1662, passim e la relazione dell'Albizzi edita da A. Schill, Die officielle Relation des römischen Officiums über die Verurtheilung des Jansenismus, "Der Katholik", 63, 1883, nr. 2, pp. 282-99, 363-81, 472-94; per un orientamento sugli avvenimenti successivi cfr. Dictionnaire de théologie catholique, VIII, 1, Paris 1923-24, s.v. Jansénisme, coll. 504-20; A. Gits, La foi ecclésiastique aux faits dogmatiques dans la théologie moderne, Louvain 1940, pp. 7-9 e passim, e L. Ceyssens, La publication, aux Pays-Bas, de la troisième bulle contre Jansénius (1656-1660), "Revue d'Histoire Ecclésiastique", 54, 1959, nr. 1, pp. 478-506, 807-37, in partic. le pp. 478-87.
V. inoltre Id., Le "fait" dans la condemnation de Jansénius et dans le serment antijanséniste, ibid., 69, 1974, pp. 697-734; M. Albert, Nuntius Fabio Chigi und die Anfänge des Jansenismus, 1639-1651. Ein römischer Diplomat in theologischen Auseinandersetzungen, Rom-Freiburg-Wien 1988.
Per queste e per le altre questioni religioso-ecclesiastiche del pontificato di A., discussioni, condanne, ecc., un buon panorama offrono Fr.H. Reusch, Der Index der verbotenen Bücher, II, Bonn 1885, passim, e I. von Döllinger-Fr.H. Reusch, Geschichte der Moralstreitigkeiten in der römisch-katholischen Kirche seit dem sechzehnten Jahrhundert mit Beiträgen zur Geschichte und Charakteristik des Jesuitenordens. [...], I, Nördlingen 1889, passim. In partic.: per la bolla sul culto dell'Immacolata, R. Laurentin, L'action du Saint-Siège par rapport au problème de l'Immaculée, in Virgo Immaculata, II, Roma 1956, pp. 1-99; per il decreto sull'attrizione, L. Ceyssens, L'origine du décret du Saint-Office concernant l'attrition (5 mai 1667), "Ephemerides Theologicae Lovanienses", 25, 1949, pp. 83-91.
Per la questione dei riti cinesi, Dictionnaire de théologie catholique, II, 2, Paris 1910, s.v. Chinois, rites, coll. 2369 ss., e R. van Doren, Chinois (rites), in D.H.G.E., XII, coll. 731 ss.
Per il problema della liturgia in cinese ecc., St. Chen, Historia tentaminum Missionariorum Soc. Iesu pro liturgia Sinica in saec. XVII, Romae 1951, pp. 51 ss. e passim, ma cfr. anche la recensione di P.M. D'Elia, La lingua cinese nella liturgia e i gesuiti del sec. XVII (a proposito di un libro recente), "La Civiltà Cattolica", 1953, nr. 3, pp. 55-70.
Per i rapporti con la Francia: Ch. Gérin, Louis XIV et le Saint-Siège, I-II, Paris 1894, passim, e R. Darricau, Louis XIV et le Saint-Siège. La négociation du Traité de Pise (1664) d'après Jean-Yves de Saint-Prez, garde du dépôt des Archives des Affaires Étrangères, "Annuaire-Bulletin de la Société de l'Histoire de France", 1964-65, pp. 79-156.
Per i rapporti con la Curia e la Corte pontificia, I. Ciampi, Innocenzo X Pamfili e la sua corte. Storia di Roma dal 1644 al 1655, da nuovi documenti, Roma 1878, passim; per i rapporti col Pallavicino, I. Macchia, Relazioni fra il p. Sforza Pallavicino e F. Chigi, Torino 1907; per i rapporti con il Bona, L. Ceyssens, Le cardinal Jean Bona et le jansénisme. Autour d'une récente étude, "Benedictina", 10, 1953, pp. 79-119, 267-327 (ma anche Roma 1956); L.J. Lekai, Pope Alexander VII and the Cistercian Observances, "The Catholic Historical Review", 45, 1959, pp. 1-23; per i rapporti con il Sacchetti: G. Sacchetti, Il cardinale Giulio Sacchetti, (1587-1663), "Studi Romani", 7, 1959, nr. 2, pp. 405-16; M. Zucchini, Una scrittura del cardinale Giulio Sacchetti a Papa Alessandro VII per rimettere in piedi l'arte dell'agricoltura, "Economia e Storia", 4, 1957, pp. 278-82 e 282-85 (doc.); I. Fosi, All'ombra dei Barberini. Fedeltà e servizio nella Roma barocca, Roma 1997.
Per qualche indicazione sulla politica finanziaria di A.: A. Serra, I riflessi della politica finanziaria di Alessandro VII nelle monete del suo pontificato, "Studi Romani", 5, 1957, pp. 184-88.
Per un profilo spirituale di A.: F. Callaey, La physionomie spirituelle de Fabio Chigi (Alexandre VII) d'après sa correspondance avec le p. Charles d'Arenberg fr. mineur capucin, in Miscellanea Giovanni Mercati, V, Città del Vaticano 1946, pp. 451-76, e R. d'Apprieu, Le pape Alexandre VII et l'"Introduction à la Vie Dévote", "La Revue Savoisienne", 102, 1962, pp. 50-4.
Per le composizioni latine: G. Travaglini, I papi cultori della poesia, Lanciano 1887, pp. 77-80; B. Croce, Poesia latina nel Seicento, in Id., Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari 1949, p. 148; O. Hein-R. Mader, Ein Rom-Gedicht des Fabio Chigi (Alexander VII.), "Römische Historische Mitteilungen", 32-33, 1990-91, pp. 153-56.
Per i rapporti eruditi, oltre Pastor, ecc., C. Fea, Miscellanea storica filologica critica e antiquaria, I, Roma 1790, e A. Bartòla, Alessandro VII e Athanasius Kircher S.J. Ricerche ed appunti sulla loro corrispondenza erudita e sulla storia di alcuni codici chigiani, "Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae", 3, 1988, pp. 7-105; per i rapporti con l'Holstenio, R. Almagià, L'opera geografica di L. Holstenio, Città del Vaticano 1942, passim.
Su A. bibliofilo: C. Frati, Dizionario bio-bibliografico dei bibliotecari e bibliofili italiani dal sec. XIV al XIX, Firenze 1933, pp. 158-59; M. Parenti, Aggiunte al "Dizionario bio-bibliografico dei bibliotecari e bibliofili italiani" di Carlo Frati, I, Firenze 1957, pp. 26-7, 28-9, 253-54; in partic. per l'acquisto dei codici urbinati, v. la prefazione di C. Stomaiolo ai Codices Urbinati graeci, Roma 1895, pp. XXXII ss.; per la costruzione e la dotazione della Biblioteca Alessandrina, E. Narducci, Notizie della Biblioteca Alessandrina, Roma 1872; per la Chigiana e i suoi più importanti codici, I. Giorgi, Cenni sulla biblioteca Chigiana recentemente acquistata dallo Stato, "Rendiconti della R. Accademia dei Lincei", classe di scienze morali, storiche e filologiche, ser. V, 27, 1918-19, pp. 151-56; L.P. Gachard, La bibliothèque des Princes Chigi à Rome, Bruxelles 1869, pp. 219-44 (per i fondi documentari anche riguardanti A.); Herr von Druffel, Die Melanchthon-Handschriften der Chigi-Bibliothek, "Sitzungsberichte der K. Akademie der Wissenschaften zu München", Philos.-philol.-hist. Klasse, 1876, pp. 491-527; R. Wolkan, Die Briefe des Eneas Silvius vor seiner Erhebung auf den Päpstlichen Stuhl, Wien 1905.
Le basi per la conoscenza dell'opera culturale di A. rimangono: L. Ozzola, L'arte alla corte di Alessandro VII, "Archivio della Società Romana di Storia Patria", 31, 1908, pp. 5-91; il capitolo dedicato ad Alessandro VII mecenate delle arti dalla già citata Storia dei papi di L. von Pastor, alle pp. 506-38; V. Golzio, Documenti artistici sul Seicento nell'Archivio Chigi, Roma 1939.
Per la formazione e l'attività culturale fino all'assunzione al pontificato: G. Incisa della Rocchetta, Gli appunti autobiografici d'Alessandro VII nell'Archivio Chigi, in Mélanges Eugène Tisserant, Città del Vaticano 1964, pp. 439-57; M.C. Crisafulli, Lettere di Virgilio Malvezzi a Fabio Chigi, Fasano 1990; E. Trotta, Il carteggio tra Cassiano dal Pozzo e Fabio Chigi, "Nouvelles de la République des Lettres", 1995, nr. 2, pp. 87-110; A. Angelini, Bernini e i Chigi tra Roma e Siena, Milano 1998, pp. 23-43, 140-44 (con bibl.).
Per l'interpretazione generale del mecenatismo di A. sono fondamentali: R. Krautheimer-R.B.S. Jones, The Diary of Alexander VII. Notes on Art, Artists and Buildings, "Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte", 15, 1975, pp. 199-233; F. Haskell, Mecenati e pittori. Studio sui rapporti tra arte e società italiana nell'età barocca (1963), Firenze 1985, pp. 241-47; R. Krautheimer, Roma di Alessandro VII. 1655-1667 (1985), Roma 1987.
Un'utile sintesi in T. Magnuson, Rome in the Age of Bernini, II, Stockholm-New Jersey 1986, pp. 121-253.
Alle iniziative architettoniche e urbanistiche a Roma e nei dintorni sono stati dedicati numerosissimi studi: in R. Krautheimer, Roma di Alessandro VII, si può trovare la vastissima bibl. sui singoli cantieri e monumenti. Più recentemente considerazioni di ordine generale sono disponibili in P.A. Wilson, The Image of Chigi Rome:G.B. Falda's Il nuovo teatro, "Architectura", 26, 1996, pp. 33-46; I. Lavin, The Roma Alessandrina of Richard Krautheimer, in In memoriam Richard Krautheimer, Roma 1997, pp. 107-17; T.A. Marder, Gian Lorenzo Bernini, Milano 1998, pp. 123-292 (con uno scrupoloso aggiornamento della bibl. sui monumenti alessandrini anche non berniniani, e l'elenco degli altri numerosi interventi di questo autore sullo stesso tema).
Un punto di vista complessivo e indicazioni sull'ampia bibl. circa le principali commissioni vaticane si possono trovare: per piazza S. Pietro in D. Del Pesco, Colonnato di San Pietro. "Dei Portici antichi e loro diversità". Con un'ipotesi di cronologia, Roma 1988; per la cattedra di s. Pietro in L. Rice, The Altars and Altarpieces of New St. Peter's. Outfitting the Basilica, 1621-1666, Cambridge 1997, pp. 265-71; per la Scala Regia in T.A. Marder, Bernini's Scala Regia at the Vatican Palace, ivi 1997.
Per le commissioni senesi: Il Duomo di Siena al tempo di Alessandro VII. Carteggio e disegni (1658-1667), a cura di M. Butzek, München 1996.
Per i rapporti con l'iniziativa privata, D.M. Habel, Alexander VII and the Private Builder: Two Case Studies in Development of via del Corso in Rome, "Journal of the Society of Architectural Historians", 49, 1990, pp. 293-309.
Sul mecenatismo pittorico: V. Martinelli, Alessandro VII e Pierfrancesco Mola, in Studi offerti a Giovanni Incisa della Rocchetta, Roma 1973, pp. 283-92; Il patrimonio artistico del Quirinale. Pittura antica. La decorazione murale, a cura di G. Briganti-L. Laureati-L. Trezzani, ivi 1993, pp. 191-207 (con bibl. sulla galleria di A.).
Su quello scultorio: J. Montagu, La scultura barocca romana. Un'industria dell'arte (1989), Torino 1991, passim; A. Angelini, Bernini e i Chigi, pp. 273-327.
Sulle medaglie del pontificato: J. Varriano, Alexander VII, Bernini and the Baroque Papal Medal, "Studies in the History of Art", 21, 1987, pp. 249-60.
Sui ritratti di A.: A. Angelini, Il busto marmoreo di Alessandro VII scolpito da Gian Lorenzo Bernini nel 1657, "Prospettiva", 89-90, 1998, pp. 184-92; M. Fagiolo dell'Arco, Ritratto di Alessandro VII benedicente di Giovan Battista Gaulli, il 'Bacicco', in L'Ariccia del Bernini, a cura di Id.-F. Petrucci, Roma 1998, pp. 133-36 (con bibl.).
Sulla tomba: K. Zollikofer, Berninis Grabmal für Alexander VII. Fiktion und Repräsentation, Worms 1994 (con estesa bibl.), e J.E. Bernstock, Bernini's Tomb of Alexander VII, "Saggi e Memorie di Storia dell'Arte", 16, 1988, p. 23.
Per il cruciale ruolo di Gian Lorenzo Bernini nella Roma alessandrina: Bernini in Vaticano, Roma 1981, passim; G. Morello, I rapporti tra Alessandro VII e Gian Lorenzo Bernini negli autografi del papa (con disegni inediti), in Documentary Culture: Florence and Rome from Grand-duke Ferdinand I to Pope Alexander VII, a cura di E. Cropper-G. Perini-F. Solinas, Bologna 1992, pp. 185-207; T. Montanari, Gian Lorenzo Bernini e Sforza Pallavicino, "Prospettiva", 87-8, 1997, pp. 42-68; F. Petrucci, Gian Lorenzo Bernini per casa Chigi: precisazioni e nuove attribuzioni, "Storia dell'Arte", 90, 1997, pp. 176-200.
Sull'editoria chigiana: Scrittura e popolo nella Roma barocca, 1585-1721, a cura di A. Petrucci, Roma 1982, pp. 37, 40-52; O. Michel, Un libraire devenu mécène, in "Alla Signorina". Mélanges offerts à Nöelle de La Blanchardière, ivi 1995, pp. 285-302; M. Fagiolo Dell'Arco-R. Pantanella, Libri, in L'Ariccia del Bernini, a cura di M. Fagiolo Dell'Arco-F. Petrucci, ivi 1998, pp. 163-82.
Sulla promozione delle biblioteche e dell'università: J. Bignami Odier, La Bibliothèque Vaticane de Sixte IV à Pie VI. Recherches sur l'histoire des collections de manuscrits, Città del Vaticano 1973, pp. 139-42 (con bibl.); M. Rosa, I depositi del sapere: biblioteche, accademie, archivi, in La memoria del sapere, a cura di P. Rossi, Bari 1990, pp. 186-87; P.J.A.N. Rietbergen, Papal Patronage and Propaganda: Pope Alexander VII (1655-1667), the Biblioteca Alessandrina and the Sapienza Complex, "Mededelingen van het Nederlands Instituts te Rome", 47, 1987, pp. 157-77; C.M. Grafinger, I libri della Biblioteca Vaticana donati da Alessandro VII alla Propaganda Fide, "Il Bibliotecario", 32, 1992, p. 28.
Sulla cultura letteraria, artistica e antiquaria della Corte alessandrina: Ae. Springhetti, Alexander VII P.M. poëta latinus, "Archivum Historiae Pontificiae", 1, 1963, pp. 265-94; D. Balboni, La cattedra di San Pietro. Note storico-liturgiche sull'origine della festa "Natale Petri de Cathedra" e sul culto alla "Cathedra Petri", Città del Vaticano 1967, pp. 99-107; R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma e notizie intorno le collezioni romane di antichità, V, Roma 1994, pp. 188-237; T. Montanari, Sulla fortuna poetica di Bernini. Frammenti del tempo di Alessandro VII e di Sforza Pallavicino, "Studi Secenteschi", 39, 1998, pp. 127-64 (con bibl.).
Sulle feste, gli spettacoli, il teatro e la musica: P. Bjurström, Feast and Theatre in Queen Christina's Rome, Stockholm 1966; M. Fagiolo dell'Arco, La festa barocca, Roma 1997, pp. 369-448 (con bibl.); J. Lionnet, Les activités musicales de Flavio Chigi, cardinal neveu d'Alexandre VII, "Studi Musicali", 9, 1980, pp. 287-302; Id., Les événements musicaux de la légation du cardinal Chigi en France, été 1664, ibid., 25, 1996, pp. 127-53.
Sul collezionismo e il mecenatismo della famiglia di A.: G. Incisa della Rocchetta, Il museo di curiosità del cardinal Flavio I Chigi, "Archivio della Società Romana di Storia Patria", 89, 1966, pp. 141-92; A. Mignosi Tantillo, I Chigi ad Ariccia nel '600, in L'arte per i papi nella campagna romana: grande pittura del '600 e del '700, Roma 1990, pp. 69-114; F. Petrucci, Nuovi contributi sulla committenza Chigi nel XVII secolo. Alcuni dipinti inediti nel Palazzo di Ariccia, "Bollettino d'Arte", 73, 1992, pp. 107-26; L'Ariccia del Bernini, a cura di M. Fagiolo Dell'Arco-F. Petrucci, Roma 1998, passim (con amplia bibl.); A. Angelini, Bernini e i Chigi, pp. 129-272; D.L. Sparti, Tecnica e teoria del restauro scultoreo a Roma nel Seicento, con una verifica sulla collezione di Flavio Chigi, "Storia dell'Arte", 92, 1998, pp. 60-131.
V. infine P. Richard, Alexandre VII, in D.H.G.E., II, coll. 229-44; E.C., I, s.v., coll. 801-03; Dizionario storico del Papato, a cura di Ph. Levillain, I, Milano 1996, s.v., pp. 34-6.